RACCONTI
Francesco Tiberi
Armistizio
I lampioni scivolano veloci di fianco alla mia Prius, avvolti dal buio come i miei pensieri. Gocce di pioggia appuntite scintillano sul parabrezza, spazzate via ogni quattro secondi da uno spietato colpo di tergicristallo. Il piede destro accarezza l'acceleratore senza forzare.
Risalgo il vialone che immette in città seguendone il profilo d'asfalto morbido e ondeggiante, adagiato lungo quello che è stato il declivio di una vallata verso il mare.
Tra pochi minuti di rotatorie e caseggiati anni settanta, il cancello di casa. L'ultimo litigio, da meno di un'ora.
Credevo di essere vaccinato, che nulla mi avrebbe più toccato. Pensavo di saper prevedere ogni sua mossa, ogni furbizia, ogni trucco per estorcere una pace vantaggiosa.
Donne, sorridevo, riuscendo persino a convincermi. Qualche volta.
Un pezzo elettronico pulsa nelle casse dello stereo rimbombandomi nella testa, gelido. Sottofondo di archi ed arpe. Una voce di donna si espande per l'abitacolo, suadente e distante come l'Islanda.
Mi addentro in città. La luce dei lampioni più intensa.
Guido senza pensare al tragitto. Qualcosa o qualcuno perfettamente a conoscenza della strada di casa lo fanno al posto mio.
Le due del mattino.
Attraverso piazze ed incroci deserti senza rallentare. La mia auto scivola silenziosa sopra l'asfalto viscido. Un gatto dal manto bianco e nero attraversa il viale della stazione sbucando da una siepe. Si ferma per un istante guardandosi intorno, spicca un balzo e sparisce, ingoiato da giardino difeso da un cancello in ferro battuto. Poco oltre, lungo un marciapiede ingobbito dalle radici dei grandi pini in cerca di respiro tra le spaccature dell'asfalto, un uomo cammina. Solo.
Scarpe leggere da ginnastica, giacca a vento blu aperta su di una vecchia tuta da jogging ed una cuffia beige calzata sulla testa brizzolata. Il viso magro, piccoli occhiali metallici appollaiati sul lungo naso affilato.
Lo sguardo deciso, come il passo che ne scandisce il cammino.
Quando mi ha insultato di fronte alla commessa del negozio, ho fatto finta di niente. Ho masticato amaro, certo, ma di fronte alla commessa no, questo è sicuro. Ho ripassato mentalmente quante più letture zen e taoiste fossi in grado di resuscitare tra i rimasugli del mio passato ed ho stretto i denti.
Non davanti alla commessa.
Saliti in macchina, ho scaraventato a forza le buste della spesa sul sedile posteriore ed ho attaccato il mio consueto sermone su maturità da dimostrare, rispetto reciproco ed altre cazzate del genere. In tutta sincerità, non mi attendevo minimamente la reazione che, da lì ad un minuto, mi avrebbe travolto.
Ha iniziato ad urlare come mai le avevo visto fare prima. Lei sempre così calma, persino troppo, avevo sempre pensato, per i miei gusti nervosi.
Mi ha fatto paura, lo giuro.
Ha battuto i pugni sul cruscotto con tanta forza da farmi temere che l'air bag le sarebbe esploso in faccia ed ha gridato contro la mia espressione inebetita ad un volume che non pensavo il suo corpo piccolo potesse contenere. Gli occhi sul punto di schizzarle fuori dalle orbite e rotolare sui tappetini di feltro azzurro.
Per la prima volta da quando stiamo insieme, ho letto chiaramente in lei l'intento di colpire, di ferire in profondità, senza pietà ipocrite.
Io zitto, argini rotti, nessun modo di contenere la piena.
Le urla sono proseguite nel mezzo del traffico del sabato sera, tra lo stupore degli automobilisti bloccati in coda che la vedevano sbracciarsi, urlare, tirare pugni nel vuoto.
Di fronte a casa sua l'apoteosi. S'è fatta venire un attacco di panico.
Le grida, il fiato corto, il cuore impazzito. Vaso di Pandora privo di coperchio che mi sputa addosso, a tutta forza.
Io piccolo, rannicchiato in angolo della Prius, incredulo, pelle d'oca sotto il maglione di lana. Nessun ombrello aperto per ripararmi.
Di colpo, senza motivo alcuno, di nuovo calma. Smette di piangere, ride, mi abbraccia. Lo show è terminato.
Paura di perderla, mescolata in parti uguali al dubbio di averla sempre sopravvalutata. Mi bacia, istericamente, buttandomi le braccia al collo.
Armistizio.
Rientrato in casa, cerco di non svegliare Nina che mi guarda di traverso sonnecchiando sul tappeto, si dà una stiracchiata, inspira profondamente mentre scodinzola due volte e riprende a dormire.
Procedo lungo il corridoio a tentoni, guidato dalla luce fioca del cellulare che brandisco come una torcia, illuminando quanto basta per non inciampare la carta da parati ed il pavimento.
Da quando sono tornato a vivere con i miei faccio le stesse puttanate che facevo da adolescente, tipo camminare scalzo sul marmo gelato con le scarpe penzolanti, tenute a mezz'aria con due dita per i lacci neri per non disturbarne il russare che rimbomba dalle profondità della loro camera da letto.
Riesco a chiudermi la porta dell'antibagno alle spalle senza far troppo rumore ed accendo l'abat-jour sul comodino, non prima di aver saggiato con uno stinco la robustezza della struttura del letto in autentico abete finlandese. Serro le mandibole per non bestemmiare e mi schianto sopra il materasso vestito, i lacci delle scarpe ancora stretti nella mano destra.
Forse mi appisolo, ma più probabilmente il segnale trasmesso dal mio cervello è troppo debole per decifrarne i messaggi.
Bocca amara, gengive fastidiosamente asciutte, allungo la mano verso il pavimento in cerca della bottiglia d'acqua che dorme abitualmente al mio fianco e che mia madre ha pensato giustamente di far sparire proprio stanotte.
La mia vescica fa capire di aver già sopportato abbastanza. Arranco giù dal letto e mi trascino in bagno. Alzo la tavoletta badando a non farla battere troppo forte contro delle improponibili piastrelle bordeaux. Pensieri poco piacevoli si costipano in fila indiana dietro la mia fronte, cercando senza successo vie d'uscita alternative all'uretra.
Alla mia sinistra una finestra velata da una tenda quasi trasparente. Fuori, gocce di pioggia vaporizzano istantaneamente al contatto con le cupole calde dei lampioni che proiettano luce gialla sui marciapiedi lustri.
Un'ombra si allunga sul selciato, inattesa, a passi lunghi. Una giacca a vento blu ed una cuffia. Beige.
Mi viene in mente che quell'uomo l'ho già visto in giro, negli orari più improbabili. Perennemente solo.
A dire il vero non lo conosco di persona, ma è come se sapessi tutto di lui. Entrambi abitiamo in una piccola città, probabilmente nello stesso quartiere, eppure ne ignoro non solo la vita, ma persino il nome.
Ultimamente, giusto qualche giorno fa, l'ho incontrato dalla tabaccaia che sbirciava con mal simulata disinvoltura una rivista e tentava di scambiare qualche parola stentata con la commessa. Inutilmente.
È strano, ma la solitudine di una persona traspare dagli occhi. Impossibile mascherarla. Si tatua sulla pelle del volto contratta da dolore sommerso. Segna il corpo come una ferita che spera, invano, di rimarginarsi. La gente ne sente l'odore di marcio da lontano e se ne tiene lontana, istintivamente.
Quali pensieri deformi stia generando in questo momento il camminare furioso di quell'uomo non è dato sapere. Questa notte lo sento vicino come il fratello che non ho mai avuto.
Appoggio la mano destra alle piastrelle bordeaux per non sbilanciarmi, tentando di seguire con lo sguardo il passo sempre più svelto con cui l'uomo sparisce dal ristretto campo visivo concesso della finestra del mio bagno.
Lavo i denti per spazzare via l'acido che risale dallo stomaco e guardo lo specchio senza riconoscere il pelato che mi fissa inespressivo. Spaccherei qualcosa, se ne avessi la forza.
Il senso di solitudine che quel tizio ha sparso nell'aria mi travolge. Mi impedisce di muovermi, di respirare.
Ritorno a lei, alle sue grida. Un'ora fa.
Smettere di fumare non è stata una gran trovata.
Mi infilo sotto alle coperte in cerca di aiuto.
Il sogno, antico rifugio a cui non faccio ritorno da tempo.
Le lenzuola mi respingono, ruvide e gelide. In cerca di una posizione decente, il cuscino mi tormenta ed il pigiama non smette di arrotolarsi sopra i polpacci.
Inseguo il sonno con poca convinzione, invocando pensieri confortanti.
Mi ritrovo in un cottage di montagna, due ciocchi di legno di ciliegio scoppiettano incandescenti in un camino di pietra scura mentre una nevicata fittissima ammanta alberi maestosi, di cui non scorgo la cima, nel silenzio più ovattato che abbia mai sognato. Io ad una finestra di legno appannata, bicchiere di brandy in mano e sorriso idiota stampato in faccia.
Che tristezza d'immagine.
Sonno, non pervenuto.
Fianco destro. Niente.
Pancia in sotto, nemmeno a parlarne.
Continuo a rigirarmi su me stesso sotto il peso delle coperte.
Cerco di obbligarmi a dormire, minacciandomi con una sveglia forzatamente puntata appena dopo l'alba, ma non mi faccio paura nemmeno un po'.
Mi vengono in mente altri solitari in cui mi sono imbattuto nel corso degli ultimi anni. Ciascuno coi suoi tic. Ognuno solo, a modo suo.
Non mi ero mai fermato a pensare a loro prima di stanotte. Troppo distratto dai fuori programma della mia vita scombinata per prestare attenzione a quelle presenze discrete. Deve esistere un momento, un preciso, isolato, dannatissimo momento, in cui la vita di certa gente va a puttane, definitivamente. Irreparabilmente.
Ho visto almeno un paio di ragazzi che conoscevo bene, scivolare nell'isolamento senza accorgersene. Dopo un'esistenza del tutto omologata a quella della massa informe dei propri coetanei, hanno preso le distanze dal gruppo ed hanno imboccato una strada stretta, diritta e misteriosamente deserta.
Penso ai solitari ed ai perdenti di questa città. Quelli che puoi trovare nei caffè più squallidi, stretti in cappotti fuori moda, lo sguardo sfuggente per proteggersi dalle offese del mondo. Non ne sono certo, ma temo che soltanto le donne possano scavare abissi tanto spaventosi. Per qualche motivo, ad un certo punto della loro vita, quelle creature insondabili smettono prenderli in considerazione come maschi e se ne tengono distanti. Possono frequentarli, per un retaggio di compassione, come buone amiche, ma senza andare oltre.
Mai.
Non parlo di ragazzi esteticamente impresentabili o economicamente disastrati, ma di gente apparentemente normale, da ogni punto di vista.
Curati, irreprensibili, lavoratori.
Assolutamente soli.
La bocca secca reclamerebbe un sorso d'acqua a viva voce se ciò che resta dei miei muscoli non rifiutasse anche soltanto l'idea di alzarsi.
Avrei bisogno di una parola di conforto, del tocco lieve di una mano amica. Solo la mia coperta di lana sdrucita risponde all'appello offrendo un velo di calore, generosa.
Vorrei lei qui, in questo letto. Adesso. Nonostante tutto. La bramo con quanto rimane di me, anche se so che non è la risposta che inseguo.
Lancio uno sguardo al cellulare sopra il comodino.
Basterebbe un messaggio, una di quelle frasi banali partorite dopo le peggiori litigate, che a rileggerle alla luce del giorno ti viene il voltastomaco e pensi che qualche autore fallito le abbia scritte al posto tuo.
Niente. Il telefono non si illumina per rischiarare la notte.
Nausea di me.
I nervi scossi frizzano sotto la mia schiena pallida, percorrendola come un'onda sottile.
Continuo a non trovare pace. Ripenso ad un altro tipo strano, amico di un amico ancora più strano. Non riesco a dimenticarne gli occhi tristi alla rassegnata ricerca di qualunque sguardo ne sciogliesse il soffocante imbarazzo nei locali affollati.
La prima volta che ho parlato con lui non è stato piacevole, davvero.
Una noia mortale, indescrivibile.
Quarantenne, il taglio di capelli più antiquato che avessi mai visto e l'innata capacità di appiccicarsi al primo venuto gli venisse a tiro, per poterne martellare le orecchie con i discorsi più insignificanti ed il ritmo narrativo di una lezione del Progetto Nettuno alle tre di notte.
Per un certo periodo, quando ancora fingevo di divertirmi in mezzo alla bolgia dei locali della riviera, mi capitava di incontrarlo abbastanza spesso. Le mani in tasca, lo sguardo nervoso, il filtro di una sigaretta accartocciata serrato tra gli incisivi ingialliti, camminava tra la gente con la fronte corrugata e la palese impressione di chiedersi perché cazzo avesse sbagliato tutto in vita sua. Pur di evitare di parlargli giravo al largo dalla pista e portavo il cellulare all'orecchio fingendo telefonate infinite e pensando freneticamente a quale vecchia scusa avrei rispolverato qualora fosse riuscito, nonostante tutto, ad abbrancarmi.
Soltanto adesso riesco a vedere quanta codardia si celasse nei modi da dandy di paese che ostentavo. Talmente terrorizzato dall'idea di vedere la mia immagine riflessa in quello specchio, da tapparmi gli occhi pur di non guardarne l'abisso di mediocrità.
Io, che passavo le domeniche d'agosto al bar dello sport, unico soggetto di meno di trent'anni della compagnia e solo avventore privo di cambiali in protesto. Sorseggiavo birre ghiacciate stravaccato su una delle sedie di plastica verde ammucchiate di fronte al caffè ed ascoltavo i discorsi di un'accolita di falliti che sputava sentenze sulla vita e sul mondo, facendo a gara per chi le sparava più grosse. Gente che bruciava le proprie vite con la stessa indifferenza con cui aspirava puzzolenti sigarette italiane ai tavoli da gioco dietro il bancone. Dei veri nichilisti.
Perso nelle mie malinconie, rifiutavo di ammettere il rimpianto per le spiagge assolate in cui i miei coetanei sfoderavano addominali scolpiti e battute stantie. Intervenivo raramente nelle discussioni, centellinando le battute argute con la puzza sotto al naso che la condizione di studente ad aeternum mi consentiva di usare in mezzo a quella manica di analfabeti.
Il tizio in giacca a vento blu cammina ancora nella mia testa senza allontanarmi di un passo dal ricordo di serate trascorse ad immaginare felicità che ignoravo, osservando coppie di sconosciuti abbracciarsi assorte, avvolte da musiche di frontiera che si espandevano lente, nell'aria già estiva.
Attesa.
Quasi l'alba.
Forse lei dorme indifferente, a quaranta chilometri esatti da qui. Magari già con un altro.
Sento i miei polmoni vuotarsi. Riempirsi.
Vuotarsi di nuovo.
Penso alle emozioni che non ho condiviso. Agli amici avuti ed a quelli persi per orgoglio. Alle leggi dell'amore, che ignoro. La bocca si fa amara lentamente, con discrezione.
Precipito nel sonno alzando le braccia.
Mani in alto.
Definitivamente arreso.
Un suono metallico si ripete per il tempo necessario ad estirparmi dal cranio il ricordo di un sogno, per sempre.
Ascolto la pioggia scrosciare sulle tegole e sulle poche macchine che ancora si aggirano ancora per le strade, inappagate.
Tento di aprire le palpebre appiccicose e tasto goffamente il buio in cerca dell'interruttore dell'abat-jour sul comodino rischiarato da una lievissima luce pulsante. Un suono acuto ritma il battito del mio cuore che pompa sangue a sbalzi.
Il telefono.
È lei che torna da me, non mi abbandona. Lo sapevo, è ancora mia. Non sarà riuscita a chiudere occhio, povero amore. Devo chiamarla subito.
Ma dove cazzo ho messo gli occhiali?
La frase Low battery, recharge please si stampa nelle mie pupille dilatate, indelebile.
In quale momento si smette di crescere e si comincia ad invecchiare?
Risalgo il vialone che immette in città seguendone il profilo d'asfalto morbido e ondeggiante, adagiato lungo quello che è stato il declivio di una vallata verso il mare.
Tra pochi minuti di rotatorie e caseggiati anni settanta, il cancello di casa. L'ultimo litigio, da meno di un'ora.
Credevo di essere vaccinato, che nulla mi avrebbe più toccato. Pensavo di saper prevedere ogni sua mossa, ogni furbizia, ogni trucco per estorcere una pace vantaggiosa.
Donne, sorridevo, riuscendo persino a convincermi. Qualche volta.
Un pezzo elettronico pulsa nelle casse dello stereo rimbombandomi nella testa, gelido. Sottofondo di archi ed arpe. Una voce di donna si espande per l'abitacolo, suadente e distante come l'Islanda.
Mi addentro in città. La luce dei lampioni più intensa.
Guido senza pensare al tragitto. Qualcosa o qualcuno perfettamente a conoscenza della strada di casa lo fanno al posto mio.
Le due del mattino.
Attraverso piazze ed incroci deserti senza rallentare. La mia auto scivola silenziosa sopra l'asfalto viscido. Un gatto dal manto bianco e nero attraversa il viale della stazione sbucando da una siepe. Si ferma per un istante guardandosi intorno, spicca un balzo e sparisce, ingoiato da giardino difeso da un cancello in ferro battuto. Poco oltre, lungo un marciapiede ingobbito dalle radici dei grandi pini in cerca di respiro tra le spaccature dell'asfalto, un uomo cammina. Solo.
Scarpe leggere da ginnastica, giacca a vento blu aperta su di una vecchia tuta da jogging ed una cuffia beige calzata sulla testa brizzolata. Il viso magro, piccoli occhiali metallici appollaiati sul lungo naso affilato.
Lo sguardo deciso, come il passo che ne scandisce il cammino.
Quando mi ha insultato di fronte alla commessa del negozio, ho fatto finta di niente. Ho masticato amaro, certo, ma di fronte alla commessa no, questo è sicuro. Ho ripassato mentalmente quante più letture zen e taoiste fossi in grado di resuscitare tra i rimasugli del mio passato ed ho stretto i denti.
Non davanti alla commessa.
Saliti in macchina, ho scaraventato a forza le buste della spesa sul sedile posteriore ed ho attaccato il mio consueto sermone su maturità da dimostrare, rispetto reciproco ed altre cazzate del genere. In tutta sincerità, non mi attendevo minimamente la reazione che, da lì ad un minuto, mi avrebbe travolto.
Ha iniziato ad urlare come mai le avevo visto fare prima. Lei sempre così calma, persino troppo, avevo sempre pensato, per i miei gusti nervosi.
Mi ha fatto paura, lo giuro.
Ha battuto i pugni sul cruscotto con tanta forza da farmi temere che l'air bag le sarebbe esploso in faccia ed ha gridato contro la mia espressione inebetita ad un volume che non pensavo il suo corpo piccolo potesse contenere. Gli occhi sul punto di schizzarle fuori dalle orbite e rotolare sui tappetini di feltro azzurro.
Per la prima volta da quando stiamo insieme, ho letto chiaramente in lei l'intento di colpire, di ferire in profondità, senza pietà ipocrite.
Io zitto, argini rotti, nessun modo di contenere la piena.
Le urla sono proseguite nel mezzo del traffico del sabato sera, tra lo stupore degli automobilisti bloccati in coda che la vedevano sbracciarsi, urlare, tirare pugni nel vuoto.
Di fronte a casa sua l'apoteosi. S'è fatta venire un attacco di panico.
Le grida, il fiato corto, il cuore impazzito. Vaso di Pandora privo di coperchio che mi sputa addosso, a tutta forza.
Io piccolo, rannicchiato in angolo della Prius, incredulo, pelle d'oca sotto il maglione di lana. Nessun ombrello aperto per ripararmi.
Di colpo, senza motivo alcuno, di nuovo calma. Smette di piangere, ride, mi abbraccia. Lo show è terminato.
Paura di perderla, mescolata in parti uguali al dubbio di averla sempre sopravvalutata. Mi bacia, istericamente, buttandomi le braccia al collo.
Armistizio.
Rientrato in casa, cerco di non svegliare Nina che mi guarda di traverso sonnecchiando sul tappeto, si dà una stiracchiata, inspira profondamente mentre scodinzola due volte e riprende a dormire.
Procedo lungo il corridoio a tentoni, guidato dalla luce fioca del cellulare che brandisco come una torcia, illuminando quanto basta per non inciampare la carta da parati ed il pavimento.
Da quando sono tornato a vivere con i miei faccio le stesse puttanate che facevo da adolescente, tipo camminare scalzo sul marmo gelato con le scarpe penzolanti, tenute a mezz'aria con due dita per i lacci neri per non disturbarne il russare che rimbomba dalle profondità della loro camera da letto.
Riesco a chiudermi la porta dell'antibagno alle spalle senza far troppo rumore ed accendo l'abat-jour sul comodino, non prima di aver saggiato con uno stinco la robustezza della struttura del letto in autentico abete finlandese. Serro le mandibole per non bestemmiare e mi schianto sopra il materasso vestito, i lacci delle scarpe ancora stretti nella mano destra.
Forse mi appisolo, ma più probabilmente il segnale trasmesso dal mio cervello è troppo debole per decifrarne i messaggi.
Bocca amara, gengive fastidiosamente asciutte, allungo la mano verso il pavimento in cerca della bottiglia d'acqua che dorme abitualmente al mio fianco e che mia madre ha pensato giustamente di far sparire proprio stanotte.
La mia vescica fa capire di aver già sopportato abbastanza. Arranco giù dal letto e mi trascino in bagno. Alzo la tavoletta badando a non farla battere troppo forte contro delle improponibili piastrelle bordeaux. Pensieri poco piacevoli si costipano in fila indiana dietro la mia fronte, cercando senza successo vie d'uscita alternative all'uretra.
Alla mia sinistra una finestra velata da una tenda quasi trasparente. Fuori, gocce di pioggia vaporizzano istantaneamente al contatto con le cupole calde dei lampioni che proiettano luce gialla sui marciapiedi lustri.
Un'ombra si allunga sul selciato, inattesa, a passi lunghi. Una giacca a vento blu ed una cuffia. Beige.
Mi viene in mente che quell'uomo l'ho già visto in giro, negli orari più improbabili. Perennemente solo.
A dire il vero non lo conosco di persona, ma è come se sapessi tutto di lui. Entrambi abitiamo in una piccola città, probabilmente nello stesso quartiere, eppure ne ignoro non solo la vita, ma persino il nome.
Ultimamente, giusto qualche giorno fa, l'ho incontrato dalla tabaccaia che sbirciava con mal simulata disinvoltura una rivista e tentava di scambiare qualche parola stentata con la commessa. Inutilmente.
È strano, ma la solitudine di una persona traspare dagli occhi. Impossibile mascherarla. Si tatua sulla pelle del volto contratta da dolore sommerso. Segna il corpo come una ferita che spera, invano, di rimarginarsi. La gente ne sente l'odore di marcio da lontano e se ne tiene lontana, istintivamente.
Quali pensieri deformi stia generando in questo momento il camminare furioso di quell'uomo non è dato sapere. Questa notte lo sento vicino come il fratello che non ho mai avuto.
Appoggio la mano destra alle piastrelle bordeaux per non sbilanciarmi, tentando di seguire con lo sguardo il passo sempre più svelto con cui l'uomo sparisce dal ristretto campo visivo concesso della finestra del mio bagno.
Lavo i denti per spazzare via l'acido che risale dallo stomaco e guardo lo specchio senza riconoscere il pelato che mi fissa inespressivo. Spaccherei qualcosa, se ne avessi la forza.
Il senso di solitudine che quel tizio ha sparso nell'aria mi travolge. Mi impedisce di muovermi, di respirare.
Ritorno a lei, alle sue grida. Un'ora fa.
Smettere di fumare non è stata una gran trovata.
Mi infilo sotto alle coperte in cerca di aiuto.
Il sogno, antico rifugio a cui non faccio ritorno da tempo.
Le lenzuola mi respingono, ruvide e gelide. In cerca di una posizione decente, il cuscino mi tormenta ed il pigiama non smette di arrotolarsi sopra i polpacci.
Inseguo il sonno con poca convinzione, invocando pensieri confortanti.
Mi ritrovo in un cottage di montagna, due ciocchi di legno di ciliegio scoppiettano incandescenti in un camino di pietra scura mentre una nevicata fittissima ammanta alberi maestosi, di cui non scorgo la cima, nel silenzio più ovattato che abbia mai sognato. Io ad una finestra di legno appannata, bicchiere di brandy in mano e sorriso idiota stampato in faccia.
Che tristezza d'immagine.
Sonno, non pervenuto.
Fianco destro. Niente.
Pancia in sotto, nemmeno a parlarne.
Continuo a rigirarmi su me stesso sotto il peso delle coperte.
Cerco di obbligarmi a dormire, minacciandomi con una sveglia forzatamente puntata appena dopo l'alba, ma non mi faccio paura nemmeno un po'.
Mi vengono in mente altri solitari in cui mi sono imbattuto nel corso degli ultimi anni. Ciascuno coi suoi tic. Ognuno solo, a modo suo.
Non mi ero mai fermato a pensare a loro prima di stanotte. Troppo distratto dai fuori programma della mia vita scombinata per prestare attenzione a quelle presenze discrete. Deve esistere un momento, un preciso, isolato, dannatissimo momento, in cui la vita di certa gente va a puttane, definitivamente. Irreparabilmente.
Ho visto almeno un paio di ragazzi che conoscevo bene, scivolare nell'isolamento senza accorgersene. Dopo un'esistenza del tutto omologata a quella della massa informe dei propri coetanei, hanno preso le distanze dal gruppo ed hanno imboccato una strada stretta, diritta e misteriosamente deserta.
Penso ai solitari ed ai perdenti di questa città. Quelli che puoi trovare nei caffè più squallidi, stretti in cappotti fuori moda, lo sguardo sfuggente per proteggersi dalle offese del mondo. Non ne sono certo, ma temo che soltanto le donne possano scavare abissi tanto spaventosi. Per qualche motivo, ad un certo punto della loro vita, quelle creature insondabili smettono prenderli in considerazione come maschi e se ne tengono distanti. Possono frequentarli, per un retaggio di compassione, come buone amiche, ma senza andare oltre.
Mai.
Non parlo di ragazzi esteticamente impresentabili o economicamente disastrati, ma di gente apparentemente normale, da ogni punto di vista.
Curati, irreprensibili, lavoratori.
Assolutamente soli.
La bocca secca reclamerebbe un sorso d'acqua a viva voce se ciò che resta dei miei muscoli non rifiutasse anche soltanto l'idea di alzarsi.
Avrei bisogno di una parola di conforto, del tocco lieve di una mano amica. Solo la mia coperta di lana sdrucita risponde all'appello offrendo un velo di calore, generosa.
Vorrei lei qui, in questo letto. Adesso. Nonostante tutto. La bramo con quanto rimane di me, anche se so che non è la risposta che inseguo.
Lancio uno sguardo al cellulare sopra il comodino.
Basterebbe un messaggio, una di quelle frasi banali partorite dopo le peggiori litigate, che a rileggerle alla luce del giorno ti viene il voltastomaco e pensi che qualche autore fallito le abbia scritte al posto tuo.
Niente. Il telefono non si illumina per rischiarare la notte.
Nausea di me.
I nervi scossi frizzano sotto la mia schiena pallida, percorrendola come un'onda sottile.
Continuo a non trovare pace. Ripenso ad un altro tipo strano, amico di un amico ancora più strano. Non riesco a dimenticarne gli occhi tristi alla rassegnata ricerca di qualunque sguardo ne sciogliesse il soffocante imbarazzo nei locali affollati.
La prima volta che ho parlato con lui non è stato piacevole, davvero.
Una noia mortale, indescrivibile.
Quarantenne, il taglio di capelli più antiquato che avessi mai visto e l'innata capacità di appiccicarsi al primo venuto gli venisse a tiro, per poterne martellare le orecchie con i discorsi più insignificanti ed il ritmo narrativo di una lezione del Progetto Nettuno alle tre di notte.
Per un certo periodo, quando ancora fingevo di divertirmi in mezzo alla bolgia dei locali della riviera, mi capitava di incontrarlo abbastanza spesso. Le mani in tasca, lo sguardo nervoso, il filtro di una sigaretta accartocciata serrato tra gli incisivi ingialliti, camminava tra la gente con la fronte corrugata e la palese impressione di chiedersi perché cazzo avesse sbagliato tutto in vita sua. Pur di evitare di parlargli giravo al largo dalla pista e portavo il cellulare all'orecchio fingendo telefonate infinite e pensando freneticamente a quale vecchia scusa avrei rispolverato qualora fosse riuscito, nonostante tutto, ad abbrancarmi.
Soltanto adesso riesco a vedere quanta codardia si celasse nei modi da dandy di paese che ostentavo. Talmente terrorizzato dall'idea di vedere la mia immagine riflessa in quello specchio, da tapparmi gli occhi pur di non guardarne l'abisso di mediocrità.
Io, che passavo le domeniche d'agosto al bar dello sport, unico soggetto di meno di trent'anni della compagnia e solo avventore privo di cambiali in protesto. Sorseggiavo birre ghiacciate stravaccato su una delle sedie di plastica verde ammucchiate di fronte al caffè ed ascoltavo i discorsi di un'accolita di falliti che sputava sentenze sulla vita e sul mondo, facendo a gara per chi le sparava più grosse. Gente che bruciava le proprie vite con la stessa indifferenza con cui aspirava puzzolenti sigarette italiane ai tavoli da gioco dietro il bancone. Dei veri nichilisti.
Perso nelle mie malinconie, rifiutavo di ammettere il rimpianto per le spiagge assolate in cui i miei coetanei sfoderavano addominali scolpiti e battute stantie. Intervenivo raramente nelle discussioni, centellinando le battute argute con la puzza sotto al naso che la condizione di studente ad aeternum mi consentiva di usare in mezzo a quella manica di analfabeti.
Il tizio in giacca a vento blu cammina ancora nella mia testa senza allontanarmi di un passo dal ricordo di serate trascorse ad immaginare felicità che ignoravo, osservando coppie di sconosciuti abbracciarsi assorte, avvolte da musiche di frontiera che si espandevano lente, nell'aria già estiva.
Attesa.
Quasi l'alba.
Forse lei dorme indifferente, a quaranta chilometri esatti da qui. Magari già con un altro.
Sento i miei polmoni vuotarsi. Riempirsi.
Vuotarsi di nuovo.
Penso alle emozioni che non ho condiviso. Agli amici avuti ed a quelli persi per orgoglio. Alle leggi dell'amore, che ignoro. La bocca si fa amara lentamente, con discrezione.
Precipito nel sonno alzando le braccia.
Mani in alto.
Definitivamente arreso.
Un suono metallico si ripete per il tempo necessario ad estirparmi dal cranio il ricordo di un sogno, per sempre.
Ascolto la pioggia scrosciare sulle tegole e sulle poche macchine che ancora si aggirano ancora per le strade, inappagate.
Tento di aprire le palpebre appiccicose e tasto goffamente il buio in cerca dell'interruttore dell'abat-jour sul comodino rischiarato da una lievissima luce pulsante. Un suono acuto ritma il battito del mio cuore che pompa sangue a sbalzi.
Il telefono.
È lei che torna da me, non mi abbandona. Lo sapevo, è ancora mia. Non sarà riuscita a chiudere occhio, povero amore. Devo chiamarla subito.
Ma dove cazzo ho messo gli occhiali?
La frase Low battery, recharge please si stampa nelle mie pupille dilatate, indelebile.
In quale momento si smette di crescere e si comincia ad invecchiare?
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Ad essere infelici sono buoni tutti.
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30 Ottobre