RACCONTI
Adriano Angelini
Good weather for air strikes (Vidrar vel til loftárása )
liberamente ispirato all'omonimo videoclip visibile su
http://www.youtube.com/watch?v=akYuy2FMQk4
1
Floki
Da piccolo giocavo con due bambole orrende. Erano calve. Avevano un vestitino di pezza logoro ma dai colori vivaci. Occhi vuoti e neri. C'ero tanto affezionato. Le facevo parlare, correre, dormire abbracciate, le portavo perfino in carrozzina. Ci giocavo non solo da piccolo. Ho continuato anche dopo, e a volte anche adesso lo faccio. Quando le facevo baciare, chissà perché era sempre il momento in cui mio padre arrivava come una furia e me le strappava di mano. E le gettava nel mare ghiacciato.
Io le guardavo planare sulla quella irreale distesa bianca. Non avevo nemmeno il tempo per dispiacermi. Lui mi sollevava di peso dalla banchina dove, gambe ciondolanti, stavo seduto pomeriggi interi ad ammirare mare e cielo che si confondevano in un grigio senza speranza. Poi mi trascinava nel magazzino dove, fino a sera, batteva sull'incudine, come un ossesso. Faceva un rumore tremendo. Oppure saldava il ferro facendo esplodere miriadi di fastidiose scintille. Io me ne restavo in un angolo, senza potermi muovere, seduto su una sedia di legno fredda e coi chiodi che spuntavano minacciosi ai lati. Guardavo la sua figura imponente, penavo quando scaricava su quel povero pezzo di ferro tutta la sua forza disumana. Ogni tanto mi guardava con odio sarcastico. Mi diceva che se non mi decidevo a crescere il cazzo mi sarebbe rimasto piccolo come quello di un bambino appena nato. Io tenevo gli occhi bassi e non osavo rispondere. Nemmeno fargli sapere che a quattordici anni il mio cazzo era già ben sviluppato. E quando godeva esplodeva in fiotti densi e caldi come quelli dei film che guardavamo a casa di Ari quando i suoi erano al lavoro.
Ari
Quell'idiota di Aralt non faceva altro che fissarmi. Tutto il pomeriggio. Non mi toglieva mai gli occhi di dosso. Gli altri ridevano e scherzavano e a me ordinava di stare zitto appena aprivo bocca. Ci mancava solo che mi vietasse di respirare e che mi imponesse di fare i giri di corsa in apnea. Sbraitava in continuazione, si agitava, era uno dei tanti che credevano che la vita fosse dura come gli allenamenti che imponeva. Che senza sacrifici non ottenevi nulla. Godeva come un porco nel vederti schiattare mentre ti si contorcevano gli addominali, o quando, all'ultimo scatto, sentivi che i polmoni si erano definitivamente chiusi; e più non ce la facevi più lui urlava. Uscivo dal campo che mi sentivo stremato ma felice per aver superato quell'ulteriore prova, e che, anche per quel giorno, l'inevitabile supplizio era giunto al termine. Allora correvo su su in cima alla collina, mi andavo a sistemare sul dirupo sotto il quale si apriva l'immensa scogliera dei gabbiani. Respiravo. Seduto a gambe incrociate, mi lasciavo avvolgere da quella meraviglia. Di sotto, l'acqua verde bombardava le rocce con le sue onde spumose, poi chiudevo gli occhi e allargavo le braccia. Volavo in quel vuoto grigio-azzurro. Cercavo di imitare le evoluzioni dei gabbiani che urlavano impazziti, forse di gioia, forse di dolore o soltanto noia inconsolabile. Rimanevo fin verso il tramonto, il freddo ti segava la faccia. Spesso sulla linea viola dell'orizzonte apparivano le astronavi, erano piccole e luminose, cerchi dorati che saettavano da un punto all'altro del cielo. Compivano sempre le stesse evoluzioni. Sembravano uno squadrone ben addestrato che si esibiva a orario. Alla fine sparivano dietro la montagna, ad una ad una uscivano di scena. Il vento fischiava impetuoso. Il mare rombava accanendosi contro la roccia. Avevo fame. Mia madre si sarebbe arrabbiata moltissimo perché anche per quel giorno avevo fatto tardi e dopo cena non avrei fatto i compiti nemmeno sotto tortura.
Floki
Quando Ari mi baciò per la prima volta era appena iniziata la primavera. Ma il freddo era ancora intenso. Io me ne stavo sulla banchina a fissare il mare, l'aria era tersa e frizzante, il sole lanciava i suoi raggi obliqui sull'acqua e il vento ogni tanto mi costringeva a tirarmi su il cappuccio. Lui arrivò da dietro. Mi colse di sorpresa. Non c'era nessuno perché era domenica e mio padre era a casa di suo padre a giocare a carte, come ogni domenica. Arrivò silenzioso e furtivo. Mi sedette vicino. Non disse niente. Mi guardò per un lungo istante, mi fissò come non aveva mai fatto prima. Credevo volesse dirmi qualcosa di serio. Magari che mi avessero fatto fuori dalla squadra e la domenica successiva mi sarebbe toccato fare il guardalinee. Invece piano piano si avvicinò, sempre di più, sempre di più. Iniziai a sentire il suo respiro, l'odore di bagno schiuma della sua pelle. Quando i nostri nasi arrivarono al punto di toccarsi, simultaneamente chiudemmo gli occhi, come per non voler vedere quello che stavamo per fare; vergognosi ma nello stesso tempo felici per lasciare, in maniera concorde, che l'istinto prevalesse su tutte le ragioni del mondo che ci ammonivano di non farlo. Le nostre labbra si schiusero, si toccarono, si studiarono, si assaporarono. Il bacio fu lungo e profondo. Il mio cuore iniziò a battere come un forsennato. Mai avrei creduto possibile una cosa del genere. Non riuscii a muovermi, nemmeno a toccargli la mano che lui tentava insistentemente di prendermi, tanto ero da un lato paralizzato e dall'altro concentrato a non perdermi nemmeno un secondo di quell'intenso piacere.
Ari
Se non avessi preso io l'iniziativa di baciarlo, non credo che lui si sarebbe mai lanciato. Avevamo iniziato a guardarci con occhi diversi dal giorno in cui lui si era fatto male ed era rimasto negli spogliatoi almeno un'ora con il piede infilato in un secchio stracolmo di ghiaccio. Era buffo e penoso. In quell'occasione avevo avvertito qualcosa, un segnale. Gli altri si erano sbrigati e se n'erano andati. Io ero rimasto a tenergli compagnia finché non si era rivestito. Lo avevo accompagnato fuori a braccio. L'allenatore mi aveva guardato con ammirazione; a lui piacevano quegli slanci goliardici, la solidarietà cameratesca, lo spirito di sacrificio, tutte quelle boiate che lo rendevano tanto affidabile agli occhi di Padre Colm. Lo avevo sostenuto fino al cancello di ingresso dei campi, dicendogli che mio padre poteva riaccompagnarlo se voleva. Lui mi aveva guardato imbarazzato, aveva abbozzato un no ma alla fine si era lasciato convincere. Le nostre famiglie erano state da sempre molto unite. Ma io e lui ci eravamo altamente ignorati, almeno fino a quel giorno, a quell'istante in cui accettò di farsi portare. Lo avevo aiutato a salire di dietro e a stendere la gamba sul sedile. Durante il tragitto mio padre gli aveva fatto un interrogatorio infinito; come aveva fatto, come era stato possibile, non tollerava che in allenamento si potessero fare delle entrate simili fra compagni, avrebbe parlato lui con Aralt, l'allenatore, non poteva lasciar passare la cosa sotto silenzio. Quando potevo mi voltavo, a tratti lo scrutavo dallo specchietto. I suoi occhi azzurri erano persi ma bellissimi. I suoi capelli biondi, e ben tirati di lato da una riga netta, gli davano una squadratura da adulto. Un adulto inverosimile. Quando era sceso era stato mio padre a volerlo riaccompagnare fino alla porta. Io ero rimasto a guardarlo camminare a stento, un passo zoppo dopo l'altro. Solo alla fine si era voltato e mi aveva guardato, alzando una mano in segno di saluto. Prima di rialzarla avevo sospirato; ero preda di un'ansia bellissima e che sapevo invincibile come il desiderio feroce che mi infondeva e con cui mi stava possedendo.
Floki
Non ho mai saputo la faccia che feci il giorno in cui mi si presentò con le bambole che il mio vecchio aveva gettato per l'ennesima volta nel mare. In preda a uno dei suoi raptus, due giorni prima mi aveva preso a schiaffi e poi le aveva lanciate molto più lontane del solito. Non c'era ghiaccio. L'acqua sembrò trascinarle subito via. Quella volta sarebbe stato molto difficile, quasi impossibile ritrovarle. Piansi, mi disperai. In quel gesto sentii come se fosse stata gettata via tutta la mia infanzia. La tenerezza di quelle vuote orbite di plastica, inanimate, spettrali forse, mi comprimeva lo stomaco in una morsa tremenda. Piansi ancora e mi rifiutai di seguirlo in magazzino. Lui mi prese a forza, mi ci trascinò. Ma appena sulla porta mi liberai e corsi via. Ero disperato. Ari me le ridiede il giorno dopo davanti a scuola. Nascoste in una scatola di cartone. Erano perfettamente intatte, asciutte. Rimasi scioccato, incredulo. Lui mi guardò senza dire nulla, mi sorrise e subito si allontanò come un messaggero guardingo. Un cospiratore che dovesse tenere segreto al mondo chissà quale oggetto sacro. Da quel momento non desiderai altro che lui. Ma non sapevo come confessarglielo e non osavo fare il primo passo. Se lo avessi fatto, pensavo, tutta la magia sarebbe svanita e con lei l'illusione che rinsaldava la solida e persistente, inutile realtà. Passai notti su notti a fissare il soffitto, i vetri della finestra oltre i quali il cielo notturno offriva spazi siderali che potevano essere riempiti da chissà quali sogni, o magari potevano essere abitati da tutte quelle nostre vite che qui non ci decidevamo a vivere. Però, in quella tristezza da impotenza, ci stavo bene, forse mi illudevo che era lì che si nascondeva il segreto per ottenere le cose; e per liberarci dai nostri mali. In quel senso di melanconia suadente e penetrante. In quell'attesa che un'energia superiore, da qualche parte, si mettesse in moto per dar forma al destino che, senza saperlo, ci scegliamo, momento dopo momento, vita dopo vita, morte dopo morte. Mia madre faticava a svegliarmi al mattino. Io, come al solito, non ricordavo alcun sogno, né di essermi addormentato.
Ari
Dopo quel primo bacio tutto filò via in modo fantastico.
Avevamo sciolto l'incantesimo. Da che eravamo due perfetti estranei, diventammo una cosa sola. Dopo i primi giorni passati in casa a scoprire i nostri corpi, quando i miei erano fuori e i film porno servivano da libro della giungla, sentimmo sempre più il bisogno di stare fuori. Quasi ogni pomeriggio ci ritrovavamo nei boschi a fare lunghe passeggiate. A volte, dopo gli allenamenti, andavamo insieme ad aspettare il tramonto. Correvamo sui prati perennemente umidi, ci ruzzolavamo per poi avvinghiarci in abbracci intensi, vigorosi. Mi piaceva tenerlo sotto di me, fissarlo negli occhi, accarezzargli quella pelle liscia e bianchissima appena escoriata da piccoli brufoli, le sue rade sopracciglia, l'espressione perennemente spaurita stampata dentro quelle pupille in piena ossessiva espansione. Il freddo non ci dava tregua. Ma nulla poteva impressionarci. A volte facevamo a gara a chi arrivava prima in cima alla scogliera. Lui puntualmente perdeva, spesso gettandosi a terra prima dell'arrivo e mimando dolori repentini alle gambe. Acquisimmo una confidenza che non avemmo mai creduto possibile. Alcuni giorni ci masturbavamo a vicenda, altri non sentivamo nemmeno il bisogno di toccarci, tanto bastava la vicinanza, l'odore dell'altro a soddisfarci, la voce a rassicurarci, una risata o uno sghignazzo a caricarci. Un giorno portò con sé le due bambole di pezza a cui era tanto affezionato. Ce ne andammo in una vecchia capanna abbandonata. Ci sedemmo in terra, sul pavimento di tavole rotte. Ci divertimmo a truccarle, le trasformammo in un maschio e una femmina. Le facemmo accoppiare. Poi ci sdraiammo su quel legno duro, tirai fuori dalla tasca delle more che avevamo raccolto e gliene infilai una in bocca. Poi un'altra. Iniziò un gioco di tentazioni subdole e sguardi dolci. Ci accarezzammo, ci ribaciammo con passione rabbiosa. Per la prima volta facemmo l'amore. Lui si concesse spontaneamente, naturalmente. A un tratto iniziò a piovere, il cielo si coprì di nubi violacee. Per noi era indifferente. Anzi, l'eccitazione aumentò. Raggiunsi l'orgasmo che l'acqua incominciava a filtrare dal tetto bucato. Le gocce fredde iniziarono a punzecchiarmi la faccia, gli occhi, la testa. Rimanemmo abbracciati per altri lunghissimi istanti, e all'improvviso scoppiammo a ridere. Era tutto così assurdo e meraviglioso che non potemmo farne a meno. Solo quando il vento iniziò a sferzare le travi pericolanti sulle nostre teste ci alzammo e in tutta fretta corremmo verso casa. Zuppi, ma tremendamente e miracolosamente felici. Senza smettere un attimo di ridere.
Floki
La cosa che più mi divertiva era quando ci ritrovavamo a catechismo.
In uno Stato a maggioranza luterana, il nostro villaggio era tutto cattolico e il parroco era inflessibile. Altro che libertà di culto. Se non facevi comunione e cresima potevi scordarti di giocare nella sua squadra. O meglio, nella squadra del nostro villaggio di cui lui era presidente e unico azionista. Sedevamo ai nostri banchi a un posto, eravamo gli ultimi della fila. Lui stava davanti a me e ogni tanto gli accarezzavo il collo. Il prete, Bibbia salda nella mano destra, passeggiava con andatura fiera. Spiegava le parabole con gesti imponenti e assiomatici. Ogni tanto Ari si appoggiava allo schienale in cerca di contatto. Mi piaceva sfiorargli i capelli, era un equilibrismo di gesti accorti; dovevo fare attenzione che non mi vedessero gli altri, che Padre Colm fosse girato verso la cattedra. A volte gli passavo un bigliettino con domande tipo: chi ti piacerebbe essere Gesù o san Tommaso. Una sua risposta mi colpi: Gesù che diventa san Tommaso a forza di non credere più a niente. Replicai infastidito: nemmeno in me? E lui: solo se non ti faccio diventare reale e ti tengo come un sogno meraviglioso. Certe domeniche le nostre famiglie organizzavano pranzi con barbecue all'aperto. Spazi non ci mancavano in quelle sconfinate vallate che circondavano il paese. Alla fine si univano in tanti. Bevevamo birra e cantavamo. I più scalmanati si lanciavano in girotondi danzanti intorno al fuoco. Era bello. Quando poi veniva l'estate e celebravamo il solstizio per una notte intera, era ancora più bello. Avevamo il nostro mondo a disposizione, quello che ci eravamo conquistati. Io e Ari potevamo spintonarci, prenderci per mano, abbracciarci, buttarci per terra davanti agli occhi di tutti e far finta di niente. Era il nostro segreto, la nostra complicità insospettata. Fu probabilmente da quel momento che incominciammo a sentirci sempre più sicuri di noi, furbi, coraggiosi, speciali, quasi invincibili.
Ari
Qualcosa dentro di me scattò quando vidi Floki malmenato dal suo vecchio.
Non stavamo ancora insieme ma quel giorno ero andato da lui per provare a sondare il terreno. Era da giorni che a scuola ci lanciavamo sguardi, che provavo ad avvicinarlo, anche se invano. Così avevo deciso di parlargli a quattr'occhi, lontano da tutti. Non sapevo se ci sarei riuscito, ma almeno il tentativo volevo farlo. Assistetti a tutta la scena. Una cosa pietosa. Quell'uomo grande e grosso che correva come un forsennato sul pontile, che agguantava il figlio per le spalle, che lo tirava giù dal muretto facendogli sbattere la schiena sul legno, che gli strappava via le due bambole come fossero amuleti maledetti e le gettava nell'acqua. Non contento, si era poi voltato, lo aveva tirato su per il collo e iniziato a dargli delle sberle fortissime che gli avevano fatto girare la faccia diverse volte. Infine lo aveva preso per i capelli e lo aveva trascinato come fosse uno straccio. Mi salì una rabbia indicibile. Mi venne voglia di prendere un bastone di legno e fare giustizia. Me ne dovetti rimanere acquattato all'inizio del pontile, dietro un cespuglio. Il respiro corto e lo stomaco contorto. L'idea mi venne quasi subito, in una folgorazione che qualche entità divina mi concesse come una grazia, tanto da poter consumare la mia personalissima e pacifica vendetta. Tornai indietro da dove ero venuto e iniziai a correre come un pazzo per raggiungere il punto del fiume dove sapevo finivano tutti i residui del piccolo porticciolo che stava dietro al pontile di Floki. La corrente scendeva verso valle e c'era un punto in cui le pietre che fuoriuscivano dall'acqua deviavano il corso degli oggetti alla deriva. Se gli dèi volevano potevo sporgermi dalla riva nel punto più stretto, in cui il fiume diventava un piccolo rigagnolo, e prenderle. Gli dèi vollero. Le due bambole, le orbite vuote come quelle di due mummie, passarono. Sbatterono contro le rocce, il loro corso venne deviato. Mi sporsi. Mi inzuppai fino alla vita ma non importava. Le recuperai. Mi sentii felice come avessi vinto il campionato. Ero sicuro che si stesse compiendo un disegno di cui ero un semplice esecutore. L'artefice era quell'amore insondabile che si diverte a far incontrare emozioni diverse e vibrazioni simili. Lo stesso amore che assiste estasiato, compiaciuto, divertito, almeno fino a che non si annoia e lascia che il teatro si trasformi in una Terra desolata di cuori illusi. Tornai a casa e le asciugai col fon. Mia madre le vide e mi chiese se non fossi diventato matto. Probabilmente sì, avrei voluto risponderle entusiasta.
2
Ari
Era una domenica come le altre. Giocavamo il derby con il villaggio vicino e ai bordi del campo c'erano tante persone ad assistere. In realtà c'erano anche tutti i nostri parenti, i genitori, amici. Tutti, proprio tutti. Era una festa. Padre Colm ci teneva a vincere. O quanto meno a fare bella figura. E noi gliela facemmo fare. Vincemmo per due a uno. Io segnai il gol partita, un gol stupendo. Un tiro da lontano sotto l'incrocio dei pali. In quel momento, la gioia che ci pervase tutti fu incontrollabile. Eravamo fieri e fomentati dalle urla ai bordi del campo, dalla contentezza di quelli che ci erano venuti a vedere, dalla condivisione della grandiosità del gesto. Ci abbracciamo. Ci fu una monta generale, crollammo a terra. Mi ritrovai sul corpo di Floki. Lo guardai. Non esitai nemmeno un momento a baciarlo sulle labbra. E non ci staccammo più. All'inizio nessuno se ne accorse. Quando, uno alla volta, i nostri compagni si rialzarono, ci ritrovammo da soli. Uno sopra l'altro. Inseparabili. Le bocche contorte in una bacio appassionato. Non percepimmo il silenzio spettrale che piombò sul campo. Non ci accorgemmo dell'arbitro che, allibito, rimase col fischietto in bocca a fissarci, nella vana attesa di far riprendere il gioco. Non immaginammo affatto le facce sconvolte di parenti, amici, delle nostre mamme e dei nostri papà che guardavano quella scena. Era come se non fossimo più lì. Eravamo in quel altrove che nessun linguaggio sa ancora spiegare, a mala pena nominare.
Floki
Il gesto non fu senza conseguenze. Il fatto era che stavamo talmente bene che non ci rendemmo proprio conto. Le mie orecchie sembravano ovattate. Il sapore delle sue labbra era irresistibile. Sembravamo usciti dai corpi e fluttuare in volo, in quella beatitudine e quel silenzio che forse solo la verità custodisce, ma chissà dove. Riaprii gli occhi quando mi ritrovai sollevato mezzo metro da terra. La presa al collo di mio padre. La bibbia in terra. Il prete che aveva afferrato Ari e lo trascinava via. Mormorii. Brusii. Qualche urlo. Poi buio. Dolore. Disumano dolore. Ricordo le urla straziate di mia madre fuori al magazzino. Il suo disperato tentativo di buttare giù la porta per entrare. Io seduto sulla solita sedia. Mio padre di fronte a me, gli occhi sadici e la bocca ghignante, l'incudine in una mano, e il colpo sferrato con una forza erculea contro la mia tibia. Oggi ho smesso di giocare a calcio. Ho un'invalidità permanente. Una gamba è diventata più corta dell'altra. L'operazione non è andata benissimo. Ari è stato allontanato, sta Reykjavik. Non ci siamo più visti. Ogni tanto ci scriviamo. Ma non è la stessa cosa. Quando sarò maggiorenne fuggirò da lui. Mio padre non mi fa più paura. E' lui, poverino, ad aver paura della vita. Deve averne così tanta che non può fare altro che aggredirla per primo. E non è il solo. Mi mancano i baci di Ari, le sue carezze. Ogni notte abbraccio il cuscino, ma non è la stessa cosa.
Ari
Mia nonna vive sola in città. Ha sposato un pilota dell'aviazione inglese che si è voluto trasferire qui. Ora è vedova e ha quasi novant'anni. Ha l'Alzheimer. Quando scrivo a Floki tenta di sbirciare ma non riesce a leggere. Mi dice che devo lasciar perdere le donne. Che il matrimonio è solo una delle tante illusioni dell'amore. Passa buona parte delle sue giornate davanti al televisore. Ogni tanto va alla finestra e quando è bel tempo ripete le parole che diceva mio nonno: oggi è proprio una bella giornata per un attacco aereo. Cosa intendesse non lo so. Valli a capire i militari. Mi manca Floki. Mi mancano quelle giornate d'allegria pura. Di inconsapevolezza incosciente. Mi mancano la sua pelle, il suo odore, la sua faccia. I suoi occhi. Qui si muore di noia. Casa e scuola. Niente calcio. Mia madre che chiama ogni giorno. Il letto a due piazze, vuoto. Vorrei solo dormirci insieme a Floki. Gliel'ho scritto. E ho aggiunto: Riuscirò a non farti diventare reale, te lo prometto.
http://www.youtube.com/watch?v=akYuy2FMQk4
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Floki
Da piccolo giocavo con due bambole orrende. Erano calve. Avevano un vestitino di pezza logoro ma dai colori vivaci. Occhi vuoti e neri. C'ero tanto affezionato. Le facevo parlare, correre, dormire abbracciate, le portavo perfino in carrozzina. Ci giocavo non solo da piccolo. Ho continuato anche dopo, e a volte anche adesso lo faccio. Quando le facevo baciare, chissà perché era sempre il momento in cui mio padre arrivava come una furia e me le strappava di mano. E le gettava nel mare ghiacciato.
Io le guardavo planare sulla quella irreale distesa bianca. Non avevo nemmeno il tempo per dispiacermi. Lui mi sollevava di peso dalla banchina dove, gambe ciondolanti, stavo seduto pomeriggi interi ad ammirare mare e cielo che si confondevano in un grigio senza speranza. Poi mi trascinava nel magazzino dove, fino a sera, batteva sull'incudine, come un ossesso. Faceva un rumore tremendo. Oppure saldava il ferro facendo esplodere miriadi di fastidiose scintille. Io me ne restavo in un angolo, senza potermi muovere, seduto su una sedia di legno fredda e coi chiodi che spuntavano minacciosi ai lati. Guardavo la sua figura imponente, penavo quando scaricava su quel povero pezzo di ferro tutta la sua forza disumana. Ogni tanto mi guardava con odio sarcastico. Mi diceva che se non mi decidevo a crescere il cazzo mi sarebbe rimasto piccolo come quello di un bambino appena nato. Io tenevo gli occhi bassi e non osavo rispondere. Nemmeno fargli sapere che a quattordici anni il mio cazzo era già ben sviluppato. E quando godeva esplodeva in fiotti densi e caldi come quelli dei film che guardavamo a casa di Ari quando i suoi erano al lavoro.
Ari
Quell'idiota di Aralt non faceva altro che fissarmi. Tutto il pomeriggio. Non mi toglieva mai gli occhi di dosso. Gli altri ridevano e scherzavano e a me ordinava di stare zitto appena aprivo bocca. Ci mancava solo che mi vietasse di respirare e che mi imponesse di fare i giri di corsa in apnea. Sbraitava in continuazione, si agitava, era uno dei tanti che credevano che la vita fosse dura come gli allenamenti che imponeva. Che senza sacrifici non ottenevi nulla. Godeva come un porco nel vederti schiattare mentre ti si contorcevano gli addominali, o quando, all'ultimo scatto, sentivi che i polmoni si erano definitivamente chiusi; e più non ce la facevi più lui urlava. Uscivo dal campo che mi sentivo stremato ma felice per aver superato quell'ulteriore prova, e che, anche per quel giorno, l'inevitabile supplizio era giunto al termine. Allora correvo su su in cima alla collina, mi andavo a sistemare sul dirupo sotto il quale si apriva l'immensa scogliera dei gabbiani. Respiravo. Seduto a gambe incrociate, mi lasciavo avvolgere da quella meraviglia. Di sotto, l'acqua verde bombardava le rocce con le sue onde spumose, poi chiudevo gli occhi e allargavo le braccia. Volavo in quel vuoto grigio-azzurro. Cercavo di imitare le evoluzioni dei gabbiani che urlavano impazziti, forse di gioia, forse di dolore o soltanto noia inconsolabile. Rimanevo fin verso il tramonto, il freddo ti segava la faccia. Spesso sulla linea viola dell'orizzonte apparivano le astronavi, erano piccole e luminose, cerchi dorati che saettavano da un punto all'altro del cielo. Compivano sempre le stesse evoluzioni. Sembravano uno squadrone ben addestrato che si esibiva a orario. Alla fine sparivano dietro la montagna, ad una ad una uscivano di scena. Il vento fischiava impetuoso. Il mare rombava accanendosi contro la roccia. Avevo fame. Mia madre si sarebbe arrabbiata moltissimo perché anche per quel giorno avevo fatto tardi e dopo cena non avrei fatto i compiti nemmeno sotto tortura.
Floki
Quando Ari mi baciò per la prima volta era appena iniziata la primavera. Ma il freddo era ancora intenso. Io me ne stavo sulla banchina a fissare il mare, l'aria era tersa e frizzante, il sole lanciava i suoi raggi obliqui sull'acqua e il vento ogni tanto mi costringeva a tirarmi su il cappuccio. Lui arrivò da dietro. Mi colse di sorpresa. Non c'era nessuno perché era domenica e mio padre era a casa di suo padre a giocare a carte, come ogni domenica. Arrivò silenzioso e furtivo. Mi sedette vicino. Non disse niente. Mi guardò per un lungo istante, mi fissò come non aveva mai fatto prima. Credevo volesse dirmi qualcosa di serio. Magari che mi avessero fatto fuori dalla squadra e la domenica successiva mi sarebbe toccato fare il guardalinee. Invece piano piano si avvicinò, sempre di più, sempre di più. Iniziai a sentire il suo respiro, l'odore di bagno schiuma della sua pelle. Quando i nostri nasi arrivarono al punto di toccarsi, simultaneamente chiudemmo gli occhi, come per non voler vedere quello che stavamo per fare; vergognosi ma nello stesso tempo felici per lasciare, in maniera concorde, che l'istinto prevalesse su tutte le ragioni del mondo che ci ammonivano di non farlo. Le nostre labbra si schiusero, si toccarono, si studiarono, si assaporarono. Il bacio fu lungo e profondo. Il mio cuore iniziò a battere come un forsennato. Mai avrei creduto possibile una cosa del genere. Non riuscii a muovermi, nemmeno a toccargli la mano che lui tentava insistentemente di prendermi, tanto ero da un lato paralizzato e dall'altro concentrato a non perdermi nemmeno un secondo di quell'intenso piacere.
Ari
Se non avessi preso io l'iniziativa di baciarlo, non credo che lui si sarebbe mai lanciato. Avevamo iniziato a guardarci con occhi diversi dal giorno in cui lui si era fatto male ed era rimasto negli spogliatoi almeno un'ora con il piede infilato in un secchio stracolmo di ghiaccio. Era buffo e penoso. In quell'occasione avevo avvertito qualcosa, un segnale. Gli altri si erano sbrigati e se n'erano andati. Io ero rimasto a tenergli compagnia finché non si era rivestito. Lo avevo accompagnato fuori a braccio. L'allenatore mi aveva guardato con ammirazione; a lui piacevano quegli slanci goliardici, la solidarietà cameratesca, lo spirito di sacrificio, tutte quelle boiate che lo rendevano tanto affidabile agli occhi di Padre Colm. Lo avevo sostenuto fino al cancello di ingresso dei campi, dicendogli che mio padre poteva riaccompagnarlo se voleva. Lui mi aveva guardato imbarazzato, aveva abbozzato un no ma alla fine si era lasciato convincere. Le nostre famiglie erano state da sempre molto unite. Ma io e lui ci eravamo altamente ignorati, almeno fino a quel giorno, a quell'istante in cui accettò di farsi portare. Lo avevo aiutato a salire di dietro e a stendere la gamba sul sedile. Durante il tragitto mio padre gli aveva fatto un interrogatorio infinito; come aveva fatto, come era stato possibile, non tollerava che in allenamento si potessero fare delle entrate simili fra compagni, avrebbe parlato lui con Aralt, l'allenatore, non poteva lasciar passare la cosa sotto silenzio. Quando potevo mi voltavo, a tratti lo scrutavo dallo specchietto. I suoi occhi azzurri erano persi ma bellissimi. I suoi capelli biondi, e ben tirati di lato da una riga netta, gli davano una squadratura da adulto. Un adulto inverosimile. Quando era sceso era stato mio padre a volerlo riaccompagnare fino alla porta. Io ero rimasto a guardarlo camminare a stento, un passo zoppo dopo l'altro. Solo alla fine si era voltato e mi aveva guardato, alzando una mano in segno di saluto. Prima di rialzarla avevo sospirato; ero preda di un'ansia bellissima e che sapevo invincibile come il desiderio feroce che mi infondeva e con cui mi stava possedendo.
Floki
Non ho mai saputo la faccia che feci il giorno in cui mi si presentò con le bambole che il mio vecchio aveva gettato per l'ennesima volta nel mare. In preda a uno dei suoi raptus, due giorni prima mi aveva preso a schiaffi e poi le aveva lanciate molto più lontane del solito. Non c'era ghiaccio. L'acqua sembrò trascinarle subito via. Quella volta sarebbe stato molto difficile, quasi impossibile ritrovarle. Piansi, mi disperai. In quel gesto sentii come se fosse stata gettata via tutta la mia infanzia. La tenerezza di quelle vuote orbite di plastica, inanimate, spettrali forse, mi comprimeva lo stomaco in una morsa tremenda. Piansi ancora e mi rifiutai di seguirlo in magazzino. Lui mi prese a forza, mi ci trascinò. Ma appena sulla porta mi liberai e corsi via. Ero disperato. Ari me le ridiede il giorno dopo davanti a scuola. Nascoste in una scatola di cartone. Erano perfettamente intatte, asciutte. Rimasi scioccato, incredulo. Lui mi guardò senza dire nulla, mi sorrise e subito si allontanò come un messaggero guardingo. Un cospiratore che dovesse tenere segreto al mondo chissà quale oggetto sacro. Da quel momento non desiderai altro che lui. Ma non sapevo come confessarglielo e non osavo fare il primo passo. Se lo avessi fatto, pensavo, tutta la magia sarebbe svanita e con lei l'illusione che rinsaldava la solida e persistente, inutile realtà. Passai notti su notti a fissare il soffitto, i vetri della finestra oltre i quali il cielo notturno offriva spazi siderali che potevano essere riempiti da chissà quali sogni, o magari potevano essere abitati da tutte quelle nostre vite che qui non ci decidevamo a vivere. Però, in quella tristezza da impotenza, ci stavo bene, forse mi illudevo che era lì che si nascondeva il segreto per ottenere le cose; e per liberarci dai nostri mali. In quel senso di melanconia suadente e penetrante. In quell'attesa che un'energia superiore, da qualche parte, si mettesse in moto per dar forma al destino che, senza saperlo, ci scegliamo, momento dopo momento, vita dopo vita, morte dopo morte. Mia madre faticava a svegliarmi al mattino. Io, come al solito, non ricordavo alcun sogno, né di essermi addormentato.
Ari
Dopo quel primo bacio tutto filò via in modo fantastico.
Avevamo sciolto l'incantesimo. Da che eravamo due perfetti estranei, diventammo una cosa sola. Dopo i primi giorni passati in casa a scoprire i nostri corpi, quando i miei erano fuori e i film porno servivano da libro della giungla, sentimmo sempre più il bisogno di stare fuori. Quasi ogni pomeriggio ci ritrovavamo nei boschi a fare lunghe passeggiate. A volte, dopo gli allenamenti, andavamo insieme ad aspettare il tramonto. Correvamo sui prati perennemente umidi, ci ruzzolavamo per poi avvinghiarci in abbracci intensi, vigorosi. Mi piaceva tenerlo sotto di me, fissarlo negli occhi, accarezzargli quella pelle liscia e bianchissima appena escoriata da piccoli brufoli, le sue rade sopracciglia, l'espressione perennemente spaurita stampata dentro quelle pupille in piena ossessiva espansione. Il freddo non ci dava tregua. Ma nulla poteva impressionarci. A volte facevamo a gara a chi arrivava prima in cima alla scogliera. Lui puntualmente perdeva, spesso gettandosi a terra prima dell'arrivo e mimando dolori repentini alle gambe. Acquisimmo una confidenza che non avemmo mai creduto possibile. Alcuni giorni ci masturbavamo a vicenda, altri non sentivamo nemmeno il bisogno di toccarci, tanto bastava la vicinanza, l'odore dell'altro a soddisfarci, la voce a rassicurarci, una risata o uno sghignazzo a caricarci. Un giorno portò con sé le due bambole di pezza a cui era tanto affezionato. Ce ne andammo in una vecchia capanna abbandonata. Ci sedemmo in terra, sul pavimento di tavole rotte. Ci divertimmo a truccarle, le trasformammo in un maschio e una femmina. Le facemmo accoppiare. Poi ci sdraiammo su quel legno duro, tirai fuori dalla tasca delle more che avevamo raccolto e gliene infilai una in bocca. Poi un'altra. Iniziò un gioco di tentazioni subdole e sguardi dolci. Ci accarezzammo, ci ribaciammo con passione rabbiosa. Per la prima volta facemmo l'amore. Lui si concesse spontaneamente, naturalmente. A un tratto iniziò a piovere, il cielo si coprì di nubi violacee. Per noi era indifferente. Anzi, l'eccitazione aumentò. Raggiunsi l'orgasmo che l'acqua incominciava a filtrare dal tetto bucato. Le gocce fredde iniziarono a punzecchiarmi la faccia, gli occhi, la testa. Rimanemmo abbracciati per altri lunghissimi istanti, e all'improvviso scoppiammo a ridere. Era tutto così assurdo e meraviglioso che non potemmo farne a meno. Solo quando il vento iniziò a sferzare le travi pericolanti sulle nostre teste ci alzammo e in tutta fretta corremmo verso casa. Zuppi, ma tremendamente e miracolosamente felici. Senza smettere un attimo di ridere.
Floki
La cosa che più mi divertiva era quando ci ritrovavamo a catechismo.
In uno Stato a maggioranza luterana, il nostro villaggio era tutto cattolico e il parroco era inflessibile. Altro che libertà di culto. Se non facevi comunione e cresima potevi scordarti di giocare nella sua squadra. O meglio, nella squadra del nostro villaggio di cui lui era presidente e unico azionista. Sedevamo ai nostri banchi a un posto, eravamo gli ultimi della fila. Lui stava davanti a me e ogni tanto gli accarezzavo il collo. Il prete, Bibbia salda nella mano destra, passeggiava con andatura fiera. Spiegava le parabole con gesti imponenti e assiomatici. Ogni tanto Ari si appoggiava allo schienale in cerca di contatto. Mi piaceva sfiorargli i capelli, era un equilibrismo di gesti accorti; dovevo fare attenzione che non mi vedessero gli altri, che Padre Colm fosse girato verso la cattedra. A volte gli passavo un bigliettino con domande tipo: chi ti piacerebbe essere Gesù o san Tommaso. Una sua risposta mi colpi: Gesù che diventa san Tommaso a forza di non credere più a niente. Replicai infastidito: nemmeno in me? E lui: solo se non ti faccio diventare reale e ti tengo come un sogno meraviglioso. Certe domeniche le nostre famiglie organizzavano pranzi con barbecue all'aperto. Spazi non ci mancavano in quelle sconfinate vallate che circondavano il paese. Alla fine si univano in tanti. Bevevamo birra e cantavamo. I più scalmanati si lanciavano in girotondi danzanti intorno al fuoco. Era bello. Quando poi veniva l'estate e celebravamo il solstizio per una notte intera, era ancora più bello. Avevamo il nostro mondo a disposizione, quello che ci eravamo conquistati. Io e Ari potevamo spintonarci, prenderci per mano, abbracciarci, buttarci per terra davanti agli occhi di tutti e far finta di niente. Era il nostro segreto, la nostra complicità insospettata. Fu probabilmente da quel momento che incominciammo a sentirci sempre più sicuri di noi, furbi, coraggiosi, speciali, quasi invincibili.
Ari
Qualcosa dentro di me scattò quando vidi Floki malmenato dal suo vecchio.
Non stavamo ancora insieme ma quel giorno ero andato da lui per provare a sondare il terreno. Era da giorni che a scuola ci lanciavamo sguardi, che provavo ad avvicinarlo, anche se invano. Così avevo deciso di parlargli a quattr'occhi, lontano da tutti. Non sapevo se ci sarei riuscito, ma almeno il tentativo volevo farlo. Assistetti a tutta la scena. Una cosa pietosa. Quell'uomo grande e grosso che correva come un forsennato sul pontile, che agguantava il figlio per le spalle, che lo tirava giù dal muretto facendogli sbattere la schiena sul legno, che gli strappava via le due bambole come fossero amuleti maledetti e le gettava nell'acqua. Non contento, si era poi voltato, lo aveva tirato su per il collo e iniziato a dargli delle sberle fortissime che gli avevano fatto girare la faccia diverse volte. Infine lo aveva preso per i capelli e lo aveva trascinato come fosse uno straccio. Mi salì una rabbia indicibile. Mi venne voglia di prendere un bastone di legno e fare giustizia. Me ne dovetti rimanere acquattato all'inizio del pontile, dietro un cespuglio. Il respiro corto e lo stomaco contorto. L'idea mi venne quasi subito, in una folgorazione che qualche entità divina mi concesse come una grazia, tanto da poter consumare la mia personalissima e pacifica vendetta. Tornai indietro da dove ero venuto e iniziai a correre come un pazzo per raggiungere il punto del fiume dove sapevo finivano tutti i residui del piccolo porticciolo che stava dietro al pontile di Floki. La corrente scendeva verso valle e c'era un punto in cui le pietre che fuoriuscivano dall'acqua deviavano il corso degli oggetti alla deriva. Se gli dèi volevano potevo sporgermi dalla riva nel punto più stretto, in cui il fiume diventava un piccolo rigagnolo, e prenderle. Gli dèi vollero. Le due bambole, le orbite vuote come quelle di due mummie, passarono. Sbatterono contro le rocce, il loro corso venne deviato. Mi sporsi. Mi inzuppai fino alla vita ma non importava. Le recuperai. Mi sentii felice come avessi vinto il campionato. Ero sicuro che si stesse compiendo un disegno di cui ero un semplice esecutore. L'artefice era quell'amore insondabile che si diverte a far incontrare emozioni diverse e vibrazioni simili. Lo stesso amore che assiste estasiato, compiaciuto, divertito, almeno fino a che non si annoia e lascia che il teatro si trasformi in una Terra desolata di cuori illusi. Tornai a casa e le asciugai col fon. Mia madre le vide e mi chiese se non fossi diventato matto. Probabilmente sì, avrei voluto risponderle entusiasta.
2
Ari
Era una domenica come le altre. Giocavamo il derby con il villaggio vicino e ai bordi del campo c'erano tante persone ad assistere. In realtà c'erano anche tutti i nostri parenti, i genitori, amici. Tutti, proprio tutti. Era una festa. Padre Colm ci teneva a vincere. O quanto meno a fare bella figura. E noi gliela facemmo fare. Vincemmo per due a uno. Io segnai il gol partita, un gol stupendo. Un tiro da lontano sotto l'incrocio dei pali. In quel momento, la gioia che ci pervase tutti fu incontrollabile. Eravamo fieri e fomentati dalle urla ai bordi del campo, dalla contentezza di quelli che ci erano venuti a vedere, dalla condivisione della grandiosità del gesto. Ci abbracciamo. Ci fu una monta generale, crollammo a terra. Mi ritrovai sul corpo di Floki. Lo guardai. Non esitai nemmeno un momento a baciarlo sulle labbra. E non ci staccammo più. All'inizio nessuno se ne accorse. Quando, uno alla volta, i nostri compagni si rialzarono, ci ritrovammo da soli. Uno sopra l'altro. Inseparabili. Le bocche contorte in una bacio appassionato. Non percepimmo il silenzio spettrale che piombò sul campo. Non ci accorgemmo dell'arbitro che, allibito, rimase col fischietto in bocca a fissarci, nella vana attesa di far riprendere il gioco. Non immaginammo affatto le facce sconvolte di parenti, amici, delle nostre mamme e dei nostri papà che guardavano quella scena. Era come se non fossimo più lì. Eravamo in quel altrove che nessun linguaggio sa ancora spiegare, a mala pena nominare.
Floki
Il gesto non fu senza conseguenze. Il fatto era che stavamo talmente bene che non ci rendemmo proprio conto. Le mie orecchie sembravano ovattate. Il sapore delle sue labbra era irresistibile. Sembravamo usciti dai corpi e fluttuare in volo, in quella beatitudine e quel silenzio che forse solo la verità custodisce, ma chissà dove. Riaprii gli occhi quando mi ritrovai sollevato mezzo metro da terra. La presa al collo di mio padre. La bibbia in terra. Il prete che aveva afferrato Ari e lo trascinava via. Mormorii. Brusii. Qualche urlo. Poi buio. Dolore. Disumano dolore. Ricordo le urla straziate di mia madre fuori al magazzino. Il suo disperato tentativo di buttare giù la porta per entrare. Io seduto sulla solita sedia. Mio padre di fronte a me, gli occhi sadici e la bocca ghignante, l'incudine in una mano, e il colpo sferrato con una forza erculea contro la mia tibia. Oggi ho smesso di giocare a calcio. Ho un'invalidità permanente. Una gamba è diventata più corta dell'altra. L'operazione non è andata benissimo. Ari è stato allontanato, sta Reykjavik. Non ci siamo più visti. Ogni tanto ci scriviamo. Ma non è la stessa cosa. Quando sarò maggiorenne fuggirò da lui. Mio padre non mi fa più paura. E' lui, poverino, ad aver paura della vita. Deve averne così tanta che non può fare altro che aggredirla per primo. E non è il solo. Mi mancano i baci di Ari, le sue carezze. Ogni notte abbraccio il cuscino, ma non è la stessa cosa.
Ari
Mia nonna vive sola in città. Ha sposato un pilota dell'aviazione inglese che si è voluto trasferire qui. Ora è vedova e ha quasi novant'anni. Ha l'Alzheimer. Quando scrivo a Floki tenta di sbirciare ma non riesce a leggere. Mi dice che devo lasciar perdere le donne. Che il matrimonio è solo una delle tante illusioni dell'amore. Passa buona parte delle sue giornate davanti al televisore. Ogni tanto va alla finestra e quando è bel tempo ripete le parole che diceva mio nonno: oggi è proprio una bella giornata per un attacco aereo. Cosa intendesse non lo so. Valli a capire i militari. Mi manca Floki. Mi mancano quelle giornate d'allegria pura. Di inconsapevolezza incosciente. Mi mancano la sua pelle, il suo odore, la sua faccia. I suoi occhi. Qui si muore di noia. Casa e scuola. Niente calcio. Mia madre che chiama ogni giorno. Il letto a due piazze, vuoto. Vorrei solo dormirci insieme a Floki. Gliel'ho scritto. E ho aggiunto: Riuscirò a non farti diventare reale, te lo prometto.
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