ATTUALITA'
Stefano Torossi
La bici è un'arma impropria.
Non c’è che dire: sulle prime pagine è tornato, prepotente, il ciclista. Ma non quello povero di una volta. E neanche quello sportivo del Giro. Si tratta di sindaci, Ignazio Marino, o ministri, Graziano Delrio (e la sua ci pare una di quelle loffie, con la pedalata assistita), comunque gente che in bici non ci va per necessità, ma per ideologia, e un po’ anche per opportunismo politico.
Evitata per un pelo, proprio stamattina a Corso Vittorio mentre camminavamo a filo marciapiede, la collisione con un ciclista velocissimo, silenziosissimo e aggressivissimo (perché, sicuramente ci avrete fatto caso, chi è convinto di rappresentare l’Ideologia perde ogni tolleranza verso il prossimo), ci è venuto spontaneo riesumare impressioni di un tempo lontano, ma perfettamente trasferibili a oggi.
La prima volta fu ad Amsterdam. Credevamo di averle viste tutte, dopo molti decenni di viaggi e molti chilometri in auto, moto, e altri mezzi. Dalle piste del Sahara ai vicoli di Napoli. Ma stavolta eravamo a piedi, e fu il panico, quando ci trovammo circondati dai ciclisti. Prepotenti e senza campanello. Sbucavano da tutte le parti, veloci, silenziosi e implacabili, come sa essere l’austera gente del nord quando ha a che fare con i cialtroni del sud. Niente dubbi, i padroni erano loro.
Da quella esperienza ci nacque nel cuore un bel gomitolo di incomprensione e ostilità, naturalmente inconfessabili (sarebbe stato come prendersela con la foca monaca, una innocua creatura del Signore, e per di più, ci dicono, in via di estinzione). Il ciclista rappresenta la ribellione al mondo delle macchine, la purezza dell’aria e dei sentimenti, il ritorno al buon tempo antico; si potrebbe quasi dire la natura incontaminata.
Una vera icona new age che non si può odiare. Bisogna rispettarla (ok) e amarla (già più difficile) per quello che fa, non sempre con le migliori maniere, per la salvezza dell’umanità.
Ma chi non ha mai provato un soprassalto, in auto, di notte, in quelle strade poco illuminate della periferia, nel vedersi a pochi millimetri davanti al paraurti la ruota posteriore di una bicicletta, cavalcata da un kamikaze vestito di scuro, rigorosamente sprovvista di qualsiasi segnalazione luminosa, che procede ai suoi sacrosanti venticinque all’ora, mentre in automobile, anche chi è prudentissimo va almeno al doppio.
E i ruderi di biciclette incatenati a un palo sul marciapiede, che nessuno porta via? Spesso sdraiati a terra con una ruota a forma di S, cannibalizzati dei pezzi asportabili, rimasti solo telaio, ma con punte micidiali sulle quali inevitabilmente ci si strappano pantaloni e polpacci.
Volendo fare una classifica, i nostri amici ciclisti li potremmo dividere in tre gruppi: quelli di basso profilo (normali giacconi e niente spocchia), gli sportivi (la domenica in aderenti, ridicole, multicolori tute da pagliaccio che nessun adulto indosserebbe in situazioni normali) e i radical-chic che pedalano in giacca e cravatta. Con qualche volta l’optional di pipa, o più spesso mezzo toscano in bocca.
Intendiamoci, andare in bicicletta a Roma è ben diverso che farlo a Bologna o a Rovigo, dove gli automobilisti sono abituati a conviverci, con i ciclisti, e i dislivelli sono zero. Molti di questi nostri amici, efficacemente rappresentati dal sindaco e ora anche dal ministro dei trasporti, vivono la bici più come principio, che come mezzo, visto che, in questa città di salite anche ripide, spesso si arriva prima a piedi.
E poi, perché senza fanale davanti e catarifrangente dietro? “Perché ci siamo dimenticati di comprare le batterie; perché fa più fico; perché comunque sono gli automobilisti che devono stare attenti; perché se mi prendono mi ripagano come nuovo”. Sarà, ma non ci sembra una gran pensata.
Rimane il fatto che spesso il ciclista ideologico (non certo quello per necessità, che ancora esiste, anche se quasi esclusivamente extracomunitario) è un integralista fanatico, e come tale non ascolta, rivendica.
Piste ciclabili, sacrosante; ma se non ci sono, via sul marciapiedi a zigzag fra i pedoni, a tutta velocità e soprattutto in un letale silenzio. Proprio come successo a noi, stamattina a Corso Vittorio.
Lo ripetiamo: attenzione, la bici è un’arma impropria.
Evitata per un pelo, proprio stamattina a Corso Vittorio mentre camminavamo a filo marciapiede, la collisione con un ciclista velocissimo, silenziosissimo e aggressivissimo (perché, sicuramente ci avrete fatto caso, chi è convinto di rappresentare l’Ideologia perde ogni tolleranza verso il prossimo), ci è venuto spontaneo riesumare impressioni di un tempo lontano, ma perfettamente trasferibili a oggi.
La prima volta fu ad Amsterdam. Credevamo di averle viste tutte, dopo molti decenni di viaggi e molti chilometri in auto, moto, e altri mezzi. Dalle piste del Sahara ai vicoli di Napoli. Ma stavolta eravamo a piedi, e fu il panico, quando ci trovammo circondati dai ciclisti. Prepotenti e senza campanello. Sbucavano da tutte le parti, veloci, silenziosi e implacabili, come sa essere l’austera gente del nord quando ha a che fare con i cialtroni del sud. Niente dubbi, i padroni erano loro.
Da quella esperienza ci nacque nel cuore un bel gomitolo di incomprensione e ostilità, naturalmente inconfessabili (sarebbe stato come prendersela con la foca monaca, una innocua creatura del Signore, e per di più, ci dicono, in via di estinzione). Il ciclista rappresenta la ribellione al mondo delle macchine, la purezza dell’aria e dei sentimenti, il ritorno al buon tempo antico; si potrebbe quasi dire la natura incontaminata.
Una vera icona new age che non si può odiare. Bisogna rispettarla (ok) e amarla (già più difficile) per quello che fa, non sempre con le migliori maniere, per la salvezza dell’umanità.
Ma chi non ha mai provato un soprassalto, in auto, di notte, in quelle strade poco illuminate della periferia, nel vedersi a pochi millimetri davanti al paraurti la ruota posteriore di una bicicletta, cavalcata da un kamikaze vestito di scuro, rigorosamente sprovvista di qualsiasi segnalazione luminosa, che procede ai suoi sacrosanti venticinque all’ora, mentre in automobile, anche chi è prudentissimo va almeno al doppio.
E i ruderi di biciclette incatenati a un palo sul marciapiede, che nessuno porta via? Spesso sdraiati a terra con una ruota a forma di S, cannibalizzati dei pezzi asportabili, rimasti solo telaio, ma con punte micidiali sulle quali inevitabilmente ci si strappano pantaloni e polpacci.
Volendo fare una classifica, i nostri amici ciclisti li potremmo dividere in tre gruppi: quelli di basso profilo (normali giacconi e niente spocchia), gli sportivi (la domenica in aderenti, ridicole, multicolori tute da pagliaccio che nessun adulto indosserebbe in situazioni normali) e i radical-chic che pedalano in giacca e cravatta. Con qualche volta l’optional di pipa, o più spesso mezzo toscano in bocca.
Intendiamoci, andare in bicicletta a Roma è ben diverso che farlo a Bologna o a Rovigo, dove gli automobilisti sono abituati a conviverci, con i ciclisti, e i dislivelli sono zero. Molti di questi nostri amici, efficacemente rappresentati dal sindaco e ora anche dal ministro dei trasporti, vivono la bici più come principio, che come mezzo, visto che, in questa città di salite anche ripide, spesso si arriva prima a piedi.
E poi, perché senza fanale davanti e catarifrangente dietro? “Perché ci siamo dimenticati di comprare le batterie; perché fa più fico; perché comunque sono gli automobilisti che devono stare attenti; perché se mi prendono mi ripagano come nuovo”. Sarà, ma non ci sembra una gran pensata.
Rimane il fatto che spesso il ciclista ideologico (non certo quello per necessità, che ancora esiste, anche se quasi esclusivamente extracomunitario) è un integralista fanatico, e come tale non ascolta, rivendica.
Piste ciclabili, sacrosante; ma se non ci sono, via sul marciapiedi a zigzag fra i pedoni, a tutta velocità e soprattutto in un letale silenzio. Proprio come successo a noi, stamattina a Corso Vittorio.
Lo ripetiamo: attenzione, la bici è un’arma impropria.
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