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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Massimo Penzo

Tre paia di tagli alla crisi

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Davanti allo specchio del bar, Polo ha la faccia fissa, concentrata. Ha le falangette della mano destra immerse nel ciuffo pieno. Lo muove con dei piccoli scatti, nervosi. Nella bocca ha una piccola smorfia di disgusto.

Si allontana un po' dallo specchio e si guarda d'intero. Nel collo sente il fastidioso punzecchiare dei peli rimasti incastrati nel colletto della maglietta. Fa una piccolo sbuffo, si guarda un po' il ciuffo poi sorride, come se si fosse accorto di essere in un piccolo bar pieno di gente su una strada dove i pedoni quasi calpestano le macchine quando vengono spinti giù da un marciapiede troppo affollato. Si ricompone, sorride a se stesso, allo specchio e a tutti quelli che ci sono dentro il bar. La ragazza mora che ha appena appoggiato il suo aperitivo analcolico sul bancone del bar gli sorride. Ha i capelli lunghissimi e pieni

-allora- gli dice- cosa dobbiamo fargli a sto Raimonno?- Polo le va incontro sciolto, scuote un po' le braccia. Tira fuori uno dei suoi migliori sorrisi, il migliore. La ragazza mora ha difronte un altro cliente che le porge uno scontrino. Guarda Polo che sta per parlare e guarda il cliente, fa cenni con la testa, annuisce

-noo- dice Polo allargando le braccia- è un bravo ragazzo, lo sai- si passa ancora la mano sul ciuffo

-mi pareva di vederti come insoddisfatto- gli dice. Intanto il cliente che ha davanti le ordina tre caffè macchiati in tazza grande e due brioche, una vuota e una marmellata. Lei gliele porge mentre si gira verso la macchina del caffè con lo sguardo su Polo

-no- dice lui- controllavo. Si controlla!- dice mentre si appoggia al bancone, vicino al suo aperitivo e le sorride. Lei ricambia.

Raimonno lavora due botteghe dopo il bar. È un barbiere. È lì da quindici anni, il bar da sette. Polo ci va una volta alla settimana, circa. Al bar ci va tutti i giorni. È appoggiato con il gomito al bancone, vicino alla vetrina delle brioche e delle paste e dei tramezzini. Ha una cabrio nera e lunga parcheggiata lì difronte con le quattro frecce accese. Con la capote abbassata. Tante macchine devono rallentare per evitarla. La strada è molto trafficata e molto stretta.

Polo ha un nuovo taglio di capelli e una mano fasciata. In realtà bastava un cerotto, ma la medicazione l'ha fatta lui, assieme alla moglie, Eva. È uscito qualcosa di vistoso, bianco candido e plateale.

Eva è la figlia di un ferramenta. Suo padre ha un grande negozio di ferramenta. Guida una Smart e adesso è in palestra. È fuori dal tunnel che porta alla palestra e sta parlando con altre tre ragazze. Ha i capelli chiari, come il miele, pieni di onde, lunghi e soffici. Sorride sempre. Ha una voce troppo strascicata. Trascina le parole, le vocali alla fine delle parole. È perfettamente moderna. Ogni suo capo d'abbigliamento ha uno stile che sta benissimo con gli altri stili degli altri capi. Fuori dalla palestra ha un berretto viola in testa. Sta parlando con due ragazze e si sente, tanto. Ride. Ha le chiavi della Smart in mano ed è appoggiata alla macchina stessa, aperta. Una delle due ragazze con cui sta si rigira le sue chiavi nella mano, accenna a dei sorrisi, ogni tanto, in maniera ritmica.

Eva è sposata con Polo da poco. Abitano a casa dei suoi, sopra la ferramenta. Lavora in ferramenta, qualcosa di amministrativo, bolle, fatture, contatti con forniture. C'è una ragazza che lavora sotto di lei. Eva si prende diversi momenti di pausa. Va in banca. Finchè la loro casa non è pronta, finchè non è finita di ristrutturare, abita con Polo in un appartamento. Un appartamento dentro la casa dei suoi genitori. Sopra la ferramenta. Lo loro nuova casa è una ristrutturazione con accorpamento di tre appartamenti in centro storico. Tutta piena di capriate.

Polo alterna settimane di lavoro con settimane di cassa integrazione. È assunto a tempo indeterminato presso un azienda di componenti elettronici. Fa assistenza ai clienti. L'anno prima era part time poi è diventato full time e ora è in cassa integrazione. Vorrebbe, un giorno lavorare in ferramenta, rilevare la ferramenta e dirigerla, guadagnare. Nelle settimana di cassa integrazione a pranzo sta con sua moglie Eva che di solito a pranzo va su dai genitori. Polo prova a cucinare qualcosa. Eva dice sempre che non è il caso. Si è arrabbiata quando si è tagliato un dito per aprire una scatola di fagioli. Era lì con lui, vicino a lui. Non era un taglio profondo. Non usciva il sangue ma se si tirava la ferita si apriva. Si vedevano i due lembi di carne. Eva parlava e cercava le garze. La medicazione risultò essere ingombrante.

Quando è in cassa integrazione Polo si risveglia sempre intontito perchè la sera si fa fuori uno o mezzo grammo di cocaina. Anche Eva la usa. Ultimamente meno, almeno con lui.

Tito consce Eva dai tempi delle scuole superiori. Di vista. Stessa scuola classi diverse, diversi amici ma stessi luoghi, di pomeriggio. Tito invece consce bene Herman, detto Taglio. Hanno la stessa età, tutti e tre, Tito, Herman e Eva. Polo ha un anno o due di più.

Tito è un taglio, lui stesso. Lavorava in una multinazionale che produceva componenti informatici. Ha passato gli ultimi sette anni della sua vita a rincorrere i progetti della concorrenza. Per stare al passo, per riuscire a vendere, doveva inventarsi il modo di far lavorare i suoi componenti come quelli della concorrenza. Dall'alto non arrivavano mai i fondi giusti per la ricerca e sviluppo. Decisioni da manager, da Marketing. Lui è un ingegnere. Ha rincorso lo sviluppo degli altri. Poi hanno chiuso. Un taglio alla produzione, una delocalizzazione con taglio anche al personale dirigente, come lui. Era un taglio.

Si era ritrovato un bel po' di soldi e una bella liquidazione. Si era ritrovato con tanto tempo libero. Diversi mezzogiorni, diversi pomeriggi. Si era concentrato in una cosa che voleva ma che era talmente assurda che solo in un momento assurdo come questo poteva diventare vera. Si era messo lì a diventare uno scrittore. Passava il tempo con il computer in mano. Scriveva di getto e poi stampava e rileggeva disteso. Aveva la casa piena di fogli. Eva ora era in piedi lì nel soggiorno di Tito. Lui le aveva aperto il portoncino giù e anche la porta d'ingresso quando aveva sentito che suonava il citofono. Poi si era disteso sul divano. Le cose che scriveva sembravano quelle di cui rideva. Con il suo orgoglio, bagnato di testosterone. Non è possibile. Infondo io faccio i pezzi dei computer e so scrivere. Non è mia questa merda. Pensava.

Eva era in piedi ferma con ancora la borsa in mano. Stava dicendo qualcosa che aveva a che fare con l'odore del bagnoschiuma di una tipa in palestra e contro lo stronzo del benzinaio che le chiedeva sempre quanta benzina voleva invece di farle il pieno. Lo faccio sempre. Il pieno. E poi tira giù il finestrino. E viene il caldo e poi d'inverno tira giù il finestrino, e viene il freddo. Tito guardava la cassa che contiene la persiana arrotolata e faceva girare un foglio in mano. Lo lanciava e lo riprendeva, lo sentiva scivolare tra i polpastrelli, come un solletico

-questo neanche mi ascolta- disse Eva buttando giù la Borsa della palestra. Si avvicinò e si chinò su di lui accarezzandogli la nuca come se fosse malato, come se avesse la febbre- hai i pensieri dello scrittore?- gli chiese sussurrando

-come vanno le capriate?- chiese lui, tirando un sorrisino. Lei gli diede un colpetto allora con la mano sulla fronte, come una sberletta, uno schiaffino. Lui fece scivolare la sua mano sinistra sul fianco e sul sedere di lei. La tuta era morbida che sembrava pelle. Il tutto era sodo, duro. La trascinò con un movimento circolare sopra di lui. Lei ranicchiò le gambe e fece un gemito. Aveva la faccia contorta in un sorrisino felice.

Uno dei fogli che aveva in mano Tito gli graffiò il dito. La carta lo tagliò, gli fece un taglio. Uscì del sangue e Tito fece un sospiro veloce. Eva tirò un poco indietro la testa. Per un attimo pensò che allora poteva essere lei, poteva essere colpa sua.

Polo al bar disse -infondo non c'è mai tutta sta preoccupazione- la barista mora con i capelli lunghi lunghi gli rispose – io sto così. Allegra. Per ora non ce l'hanno ancora fatta a togliermi questo- disse indicando con il dito indice l'arcata superiore dei suoi denti attraverso la fessura della bocca aperta a finto sorriso. Stavano parlando di calcio. Polo teneva il bicchiere in mano. Aspirò di colpo una goccia di aperitivo analcolico dal suo labbro inferiore prima che cadesse sulla sua maglia. Il dito pestava, attraverso la garza sul vetro del bicchiere. Faceva male. Polo lo guardava. Non è che quando vedi uno che ha una cerotto o una benda dici che sta male. Però fa male, pensava Polo. E poi anche i ricordi del dolore, vanno via, non battono. Quando capita però, non è un fastidio. Fa male.

Herman è detto taglio dalle scuole medie. Il taglio del coltello, la parte affilata della lama. Veloce, bastardo, pronto, più avanti. In seconda media aveva fumato sigarette, fumato canne, fatto sesso, stato bocciato, rubato in negozio, anche da chiuso. Era Taglio, inafferrabile e pericoloso.

Il soprannome poi gli si attaccò ancora di più addosso, meno figo, meno romantico. La carriera lo aveva portato a spacciare cocaina. Fin poco tempo fa. A volte non aveva roba proprio di prima qualità. Poi si chiamava già taglio di suo. Era già il suo nome. Ora era Taglio, quello che taglia la cocaina. Troppo. Lavorava come operaio nella ferramenta del padre di Eva. Faceva i lavori fuori, montava gli impianti. Da dieci anni ormai.

Eva era sopra Tito. Si muoveva sinuosamente, ritmicamente, trascinata, swing. Erano vestiti. Lei continuava a parlare con un tono dolce, leggero, accennato. Strisciava la sua vagina sul pene di lui. Attraverso la tuta di lei e i jeans di lui. La tuta di lei era morbida e si era modellata come la sua vagina. Eva stava per esplodere.

Tito era eccitato e sentiva un piccolo peso sul suo dito tagliato. Era un pizzichio, forte. Come i pugnetti che ci si da tra uomini. Come lo sport. Era una sensazione che prima non c'era e adesso c'è. Fastidio, si, ma un piacere perverso. Una sensazione nuova che per ora era dolore ma non faceva male.

Polo aveva un nuovo taglio di capelli e un taglio sulla mano. Tito era lui stesso un taglio e aveva un taglio sul dito.

Herman, detto taglio, era stato lasciato a casa. Non lavorava più. Aveva un figlio e una ex compagna. Non aveva nessuna compagna a casa. Doveva però dare i soldi al figlio. Aveva perso il lavoro in ferramenta perchè la ferramenta non faceva più quei lavori. Quei tubi, gli impianti. Il padrone della ferramenta gli aveva offerto un piccolo lavoretto. In nero. C'era la casa della figlia da ristrutturare. Lui sapeva farli i lavori. In nero, per poco, ma non aveva altro.

Eva non voleva che Polo andasse a prendere la cocaina da Taglio, Herman. Il perchè è facile. A volte succedeva però, sempre meno in verità. Herman ne aveva sempre di meno. Si era stancato, voleva cambiare un po', era stufo.

Successe che a casa di Eva stava montando una trave. La casa nuova, i tre appartamenti uniti in centro storico. Era una trave di sei metri. Il sostegno che la teneva, momentaneamente, in posa, venne a cedere. Herman era sopra una specie di impalcatura. Non c'erano ancora le finestre e tutto dentro c'era solo cemento malta e legno. L'apertura grande davanti a lui sarebbe diventata una finestra, grande, bella. Sotto si sentivano tre voci, una signora più delle altre, era agitata. Parlava veloce, a voce alta. D'un tratto si fermò, come altre persone lì sotto e guardarono in alto. Si era sentito un urlo, forte, strano, di quelli che non si sentono né per strada né alla televisione. Era un urlo vero. Tutti lo riconobbero questo.

Herman, detto anche Taglio, riuscì a staccare la mano dalla trave che gli era caduta sul dito. Ci riuscì subito, non rimase incastrato. Il dito gli era semplicemente rimasto sotto la trave. Un pezzo, solo la fine. C'era parecchio sangue. Lui lo guardava. Non era più come prima, era più corto. Brutto, tronco. Era da solo lì. Giù dall'impalcatura si teneva la mano. Non faceva male, per ora. Chiamò Polo, d'istinto. E scese le scale per andare verso la moto.

Herman, detto Taglio, si era tagliato un dito, di netto.

Polo dentro il bar si perquisisce per trovarsi addosso il telefono che suona. Vede il nome e pensa, poi risponde. -eh, eh- continua a dire e poi – stai lì che vengo- ma Herman è già in moto e va in ospedale. Polo sale in macchina e parte con le quattro frecce accese. Non è più al telefono ma Herman non deve dire che lavorava, sarebbe brutto, un casino. Lo richiama ma Herman non risponde. È in moto, va verso l'ospedale.

Quando arriva sente il telefono che ha sempre suonato, risponde- sto arrivando, arrivo, aspettami- gli dice Polo e lui gli dice che invece va dentro, comincia anche a fargli male e poi è tutto pieno di sangue. Ha addosso una maglietta bianca tutta piena di sangue -non dirgli che stavi lavorando- gli dice Polo- e cosa gli dico- dice Taglio- in moto- dice Polo- digli che sei caduto in moto- Polo intanto chiama Eva, sua moglie.

Herman detto Taglio ha un taglio profondo, circolare, netto e definitivo sul dito. Entra in pronto soccorso. C'è un po' di gente e lui si siede per aspettare. È tutto pieno di sangue. L'infermiera lo vede dallo sportello e gli fa dei cenni. Il dito comincia a fargli male, davvero. Nella vita ha avuto ferite di tutti i tipi. Non si disinfettava neanche. Era pronto, a tutto. Quello però cominciava a fare male, davvero male. Una cosa nuova, anche per lui. Non era un male normale solo più male. No, era un male diverso, nuovo. In verità poi, Herman aveva come l'impressione che non sarebbe andato più via. Almeno il dito, quello non sarebbe tornato più.

Il telefono di Eva suonava sopra il tavolino basso del soggiorno di Tito. Al terzo squillo lei, con la bocca ancora attaccata alla faccia di lui, fece un gemito, di noia, di fastidio. Si staccò e guardò il telefono. Senza sussulti, senza cambiare umore o espressione disse

-è Polo- cercava sulla tastiera del telefono se c'era qualcosa per mandarlo via senza che lui se ne accorgesse, senza che sentisse. Eva era ancora a cavalcioni sopra Tito. Tito le disse

-abbiamo abbastanza anni per capire che in questi casi la cosa migliore da fare è far finta di niente- disse.

Eva gli sorrise, lasciò il telefono che squillava sopra il tavolino e si ributtò ancora sopra di lui. È una donna che si nota, elegante. È molto bella.





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