ATTUALITA'
Alfredo Ronci
Cacciatori di corpi e cacciatori di incoerenze
Un vecchio motto dell'industria farmaceutica dice: E' bene avere una pillola che cura la malattia, ma è ancora meglio avere una pillola che va presa tutti i giorni.
E' inutile girarci intorno: il libro in questione è una denuncia sugli intrallazzi delle multinazionali dei farmaci e sull'uso spregiudicato delle sperimentazioni per ottenerne il brevetto.
Ormai è un dato di fatto, oltre ai milioni di animali che ogni anno, inutilmente, vengono sacrificati in nome di un presunto progresso scientifico, anche gli uomini sono stati vittime di questi "perniciosi"test: pensiamo all'attività del professor Mengele – ma non solo lui – nei campi di concentramento, o alle "osservazioni" che l'esercito americano effettuava durante e dopo il lancio di ordigni nucleari. Solo negli anni '70 ebbe termine negli USA la sperimentazione dei farmaci sulla popolazione carceraria.
Ora la via alla globalizzazione, per la quale anche un uomo sano deve essere considerato potenzialmente malato (si legge sul sito di Beppe Grillo – www.beppegrillo.it – la seguente nota in data 27 maggio 2005: nel marzo 2004 le case farmaceutiche hanno abbassato le soglie delle tre malattie più diffuse nel mondo occidentale: l'ipertensione, il colesterolo e il diabete, creando così, da un giorno all'altro, alcune centinaia di milioni di "malati" nuovi) necessita di "nuove" popolazioni su cui "brevettare" il prodotto. Gli ammalati sono abbondanti e costano poco. In India "bassi costi della sperimentazione a parte", riporta in toni entusiastici un comunicato della Pfizer, "una popolazione di un miliardo di persone significa che non vi sarà mai carenza di potenziali soggetti" – pag.28.
La FDA (Food and Drug Administration, l'organismo governativo americano preposto alle procedure di autorizzazione e controllo di farmaci, cibi e alimenti) adottò nel 1991 il principio del "punto di vista sostitutivo" che consisteva in questo: anziché dimostrare, per esempio, che un nuovo farmaco riduceva la mortalità, le industrie potevano "semplicemente" dimostrare che il loro prodotto riduceva il livello del colesterolo nel sangue, oppure che un farmaco anti-AIDS non prolungasse la vita del paziente, ma riducesse il tumore e aumentasse i livelli di globuli bianchi nel sangue.
Come a dire che torniamo all'espressione: l'operazione è riuscita, peccato che il paziente sia morto.
Ovviamente esistono degli ostacoli a queste pratiche e a questi "aggiustamenti" inverecondi. Nel 1975 gli USA e altri 34 paesi, firmarono "la Dichiarazione di Helsinki" la quale poneva l'accento sul consenso informativo e volontario dei pazienti su cui si sperimenta, la creazione di comitati etici indipendenti e sul fatto che i ricercatori dovessero avere come priorità il benessere dei loro soggetti, i quali dovevano ricevere il migliore standard di cure, e non quelle che potevano essere disponibili a livello locale.
Il caso "AIDS" ha trasformato il tutto di nuovo in tarallucci e vino. La sperimentazione su popolazioni volontarie (sempre che lo siano sul serio!) prevede invece da una parte l'uso del farmaco e dall'altro la somministrazione del placebo (pare che sia, cinicamente, l'unico metodo per verificare la funzionalità di un prodotto). Ora, la questione diventa morale: come si fa a negare ad un individuo (di solito abitante del "terzo o quarto mondo") un farmaco, al quale di solito non potrebbe accedere per una questione economica, e somministrargli invece un finto medicamento? E questo nell'unica ipotesi che la cura sia effettivamente efficace. Perché può avvenire, in modo molto "naturale", che risultati invece non ve ne siano.
Si legge a pag. 111: Nel 1986, per esempio, Daniel Zagury, uno scienziato francese apostata, iniettò un vaccino anti-HIV sperimentale a bambini sani dello Zaire prima ancora di aver stabilito se quelle cellule producessero effetti nocivi su animali, portando a propria discolpa l'argomento che in Zaire le condizioni di vita erano talmente pessime che valeva la pena correre qualunque rischio, se ciò poteva servire a salvare vite umane. "Lei non conosce la situazione in Zaire – protestò con Cohen – E' come essere nel deserto e preoccuparsi del livello di calcio nell'acqua.
Purtroppo, per noi lettori, dove Sonia Shah,l'autrice del libro che stiamo esaminando, vede, in questo caso, il moscerino (per carità, uso l'espressione per fare un incauto paragone, me ne rendo conto), non s'accorge del trave in un occhio. Alla fine degli anni '90 il dottor Jay Brooks Jackson, per ottenere dalla FDA l'approvazione alla commercializzazione della nevirapina (farmaco che impediva la trasmissione del virus HIV dalla madri al neonato), portò avanti un esperimento che ormai, noto, va sotto il nome di 012. Consisteva nel somministrare ad un gruppo di madri l'antiretrovirale, ed ad un altro gruppo un semplice placebo. Ci fu una sollevazione "etica": come si poteva impedire ad un certo numero di donne di usufruire di una cura che in quel momento sembrava essere l'unica possibilità per salvare il bimbo nel grembo?
Non basta. Nel capitolo "Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'AIDS", la Shah, come altre persone d'altronde, si scaglia violentemente contro il presidente sudafricano Mbeki, per aver più volte negato l'assioma AIDS-HIV e impedito la distribuzione di farmaci antiretrovirali alla sua popolazione.
L'episodio merita una spiegazione in più: Il 3 aprile del 2000 Mbeki indirizzò una lettera a tutti i leaders del mondo per spiegare la posizione del governo sudafricano a proposito dell'epidemia sub-sahariana di AIDS. In sostanza ringraziò la disponibilità del mondo occidentale chiarendo però che sarebbe stato assurdo e illogico imporre la loro esperienza alla realtà africana e che quindi il problema doveva essere risolto dall'Africa in modo autonomo. Chiarendo poi che i farmaci antiretrovirali non erano compresi nelle terapie anti-AIDS utilizzate dal sistema sanitario sudafricano.
Apriti cielo: i giornali inglesi gridarono allo scandalo (guarda caso, la Glaxo Wellcome, che produce gli antiretrovirali è una ditta inglese!). The Observer arrivò a scrivere. "Mbeki lascia morire nel dolore i bambini malati di AIDS".
La Shah, che ha scritto Cacciatori di corpi proprio per denunciare le malefatte delle multinazionali farmaceutiche (almeno crediamo) inspiegabilmente s'accoda. Per poi scrivere (e senza che le tremino i polsi) nel capitolo "Come ti aggiusto i codici etici" le parole che riporto integralmente: Nel settembre 2003 Jackson pubblicò il resoconto finale dell'esperimento 012, in cui descriveva come stavano, diciotto mesi più tardi, i bambini sopravvissuti al trial. Anche se nell'immediato la nevirapina aveva salvato più bambini dall'HIV in confronto al trattamento ultra-abbreviato con l'AZT, per quanto riguardava il salvare loro la vita in una prospettiva di tempo un po' più lunga non c'erano differenze: dopo diciotto mesi, la percentuale dei bambini morti era la stessa in entrambi i gruppi. Il perché non era chiaro, ma il fatto che le loro madri infettate dall'HIV – e che non avevano ricevuto alcuna terapia antiretrovirale dopo la fine dell'esperimento – fossero poi morte, forse aveva qualcosa a che fare con quel risultato. Jackson disse che avrebbe ricontrollato i bambini. Egli si aspettava di trovare, qualche anno dopo, più morti nel gruppo dell'AZT. L'HIV impiega un po' di tempo a uccider e i bambini, fu la precisazione, molto concreta, di Jackson.
Talmente concreta da non considerare l'ipotesi che le morti potessero verificarsi magari per l'uso pre e post-parto dell'AZT.
Lo confesso: questo libro mi ha fatto incazzare. Netto, puntuale e "no global" per gran parte del testo, improvvisamente abdica alle teorizzazioni di regime su un problema, quello dell'AIDS, che proprio perché sotto l'occhio vigile del potere economico delle multinazionali del farmaco, dovrebbe essere riconsiderato alla luce non solo del buon senso, ma anche delle dottrine meno ortodosse.
La Shah si è invece, inspiegabilmente allineata: riempie la buca nello stesso punto in cui vi ha tolto la terra. Sembra logico? No, ed è anche un enorme spreco di energie.
Sonia Shah
Cacciatori di corpi. La vewrità su farmaci killer e medicina corrotta
Nuovi mondi media
Pag.280 Euro 17,50
E' inutile girarci intorno: il libro in questione è una denuncia sugli intrallazzi delle multinazionali dei farmaci e sull'uso spregiudicato delle sperimentazioni per ottenerne il brevetto.
Ormai è un dato di fatto, oltre ai milioni di animali che ogni anno, inutilmente, vengono sacrificati in nome di un presunto progresso scientifico, anche gli uomini sono stati vittime di questi "perniciosi"test: pensiamo all'attività del professor Mengele – ma non solo lui – nei campi di concentramento, o alle "osservazioni" che l'esercito americano effettuava durante e dopo il lancio di ordigni nucleari. Solo negli anni '70 ebbe termine negli USA la sperimentazione dei farmaci sulla popolazione carceraria.
Ora la via alla globalizzazione, per la quale anche un uomo sano deve essere considerato potenzialmente malato (si legge sul sito di Beppe Grillo – www.beppegrillo.it – la seguente nota in data 27 maggio 2005: nel marzo 2004 le case farmaceutiche hanno abbassato le soglie delle tre malattie più diffuse nel mondo occidentale: l'ipertensione, il colesterolo e il diabete, creando così, da un giorno all'altro, alcune centinaia di milioni di "malati" nuovi) necessita di "nuove" popolazioni su cui "brevettare" il prodotto. Gli ammalati sono abbondanti e costano poco. In India "bassi costi della sperimentazione a parte", riporta in toni entusiastici un comunicato della Pfizer, "una popolazione di un miliardo di persone significa che non vi sarà mai carenza di potenziali soggetti" – pag.28.
La FDA (Food and Drug Administration, l'organismo governativo americano preposto alle procedure di autorizzazione e controllo di farmaci, cibi e alimenti) adottò nel 1991 il principio del "punto di vista sostitutivo" che consisteva in questo: anziché dimostrare, per esempio, che un nuovo farmaco riduceva la mortalità, le industrie potevano "semplicemente" dimostrare che il loro prodotto riduceva il livello del colesterolo nel sangue, oppure che un farmaco anti-AIDS non prolungasse la vita del paziente, ma riducesse il tumore e aumentasse i livelli di globuli bianchi nel sangue.
Come a dire che torniamo all'espressione: l'operazione è riuscita, peccato che il paziente sia morto.
Ovviamente esistono degli ostacoli a queste pratiche e a questi "aggiustamenti" inverecondi. Nel 1975 gli USA e altri 34 paesi, firmarono "la Dichiarazione di Helsinki" la quale poneva l'accento sul consenso informativo e volontario dei pazienti su cui si sperimenta, la creazione di comitati etici indipendenti e sul fatto che i ricercatori dovessero avere come priorità il benessere dei loro soggetti, i quali dovevano ricevere il migliore standard di cure, e non quelle che potevano essere disponibili a livello locale.
Il caso "AIDS" ha trasformato il tutto di nuovo in tarallucci e vino. La sperimentazione su popolazioni volontarie (sempre che lo siano sul serio!) prevede invece da una parte l'uso del farmaco e dall'altro la somministrazione del placebo (pare che sia, cinicamente, l'unico metodo per verificare la funzionalità di un prodotto). Ora, la questione diventa morale: come si fa a negare ad un individuo (di solito abitante del "terzo o quarto mondo") un farmaco, al quale di solito non potrebbe accedere per una questione economica, e somministrargli invece un finto medicamento? E questo nell'unica ipotesi che la cura sia effettivamente efficace. Perché può avvenire, in modo molto "naturale", che risultati invece non ve ne siano.
Si legge a pag. 111: Nel 1986, per esempio, Daniel Zagury, uno scienziato francese apostata, iniettò un vaccino anti-HIV sperimentale a bambini sani dello Zaire prima ancora di aver stabilito se quelle cellule producessero effetti nocivi su animali, portando a propria discolpa l'argomento che in Zaire le condizioni di vita erano talmente pessime che valeva la pena correre qualunque rischio, se ciò poteva servire a salvare vite umane. "Lei non conosce la situazione in Zaire – protestò con Cohen – E' come essere nel deserto e preoccuparsi del livello di calcio nell'acqua.
Purtroppo, per noi lettori, dove Sonia Shah,l'autrice del libro che stiamo esaminando, vede, in questo caso, il moscerino (per carità, uso l'espressione per fare un incauto paragone, me ne rendo conto), non s'accorge del trave in un occhio. Alla fine degli anni '90 il dottor Jay Brooks Jackson, per ottenere dalla FDA l'approvazione alla commercializzazione della nevirapina (farmaco che impediva la trasmissione del virus HIV dalla madri al neonato), portò avanti un esperimento che ormai, noto, va sotto il nome di 012. Consisteva nel somministrare ad un gruppo di madri l'antiretrovirale, ed ad un altro gruppo un semplice placebo. Ci fu una sollevazione "etica": come si poteva impedire ad un certo numero di donne di usufruire di una cura che in quel momento sembrava essere l'unica possibilità per salvare il bimbo nel grembo?
Non basta. Nel capitolo "Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'AIDS", la Shah, come altre persone d'altronde, si scaglia violentemente contro il presidente sudafricano Mbeki, per aver più volte negato l'assioma AIDS-HIV e impedito la distribuzione di farmaci antiretrovirali alla sua popolazione.
L'episodio merita una spiegazione in più: Il 3 aprile del 2000 Mbeki indirizzò una lettera a tutti i leaders del mondo per spiegare la posizione del governo sudafricano a proposito dell'epidemia sub-sahariana di AIDS. In sostanza ringraziò la disponibilità del mondo occidentale chiarendo però che sarebbe stato assurdo e illogico imporre la loro esperienza alla realtà africana e che quindi il problema doveva essere risolto dall'Africa in modo autonomo. Chiarendo poi che i farmaci antiretrovirali non erano compresi nelle terapie anti-AIDS utilizzate dal sistema sanitario sudafricano.
Apriti cielo: i giornali inglesi gridarono allo scandalo (guarda caso, la Glaxo Wellcome, che produce gli antiretrovirali è una ditta inglese!). The Observer arrivò a scrivere. "Mbeki lascia morire nel dolore i bambini malati di AIDS".
La Shah, che ha scritto Cacciatori di corpi proprio per denunciare le malefatte delle multinazionali farmaceutiche (almeno crediamo) inspiegabilmente s'accoda. Per poi scrivere (e senza che le tremino i polsi) nel capitolo "Come ti aggiusto i codici etici" le parole che riporto integralmente: Nel settembre 2003 Jackson pubblicò il resoconto finale dell'esperimento 012, in cui descriveva come stavano, diciotto mesi più tardi, i bambini sopravvissuti al trial. Anche se nell'immediato la nevirapina aveva salvato più bambini dall'HIV in confronto al trattamento ultra-abbreviato con l'AZT, per quanto riguardava il salvare loro la vita in una prospettiva di tempo un po' più lunga non c'erano differenze: dopo diciotto mesi, la percentuale dei bambini morti era la stessa in entrambi i gruppi. Il perché non era chiaro, ma il fatto che le loro madri infettate dall'HIV – e che non avevano ricevuto alcuna terapia antiretrovirale dopo la fine dell'esperimento – fossero poi morte, forse aveva qualcosa a che fare con quel risultato. Jackson disse che avrebbe ricontrollato i bambini. Egli si aspettava di trovare, qualche anno dopo, più morti nel gruppo dell'AZT. L'HIV impiega un po' di tempo a uccider e i bambini, fu la precisazione, molto concreta, di Jackson.
Talmente concreta da non considerare l'ipotesi che le morti potessero verificarsi magari per l'uso pre e post-parto dell'AZT.
Lo confesso: questo libro mi ha fatto incazzare. Netto, puntuale e "no global" per gran parte del testo, improvvisamente abdica alle teorizzazioni di regime su un problema, quello dell'AIDS, che proprio perché sotto l'occhio vigile del potere economico delle multinazionali del farmaco, dovrebbe essere riconsiderato alla luce non solo del buon senso, ma anche delle dottrine meno ortodosse.
La Shah si è invece, inspiegabilmente allineata: riempie la buca nello stesso punto in cui vi ha tolto la terra. Sembra logico? No, ed è anche un enorme spreco di energie.
Sonia Shah
Cacciatori di corpi. La vewrità su farmaci killer e medicina corrotta
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