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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Paola Tavella

Gli ultimi della classe

Oscar Mondadori, Pag. 175 Euro 6,20
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"Le storie di questo libro non sono vere, non sono inventate. Sono state scritte a Napoli, durante e dopo un anno scolastico trascorso al modulo di Barra - San Giovanni del progetto Chance, dove un gruppo di sei insegnanti ha recuperato alla scuola dell'obbligo ventiquattro ragazzi perduti o espulsi dalla scuola normale (...). Alla fine, è venuta fuori una serie di racconti, con tutta l'arbitrarietà e la verosimiglianza - non la verità - dei racconti" (p. 169)

In queste poche righe sono riassunti e la natura del libro e il motivo per cui, nelle pagine di una Rivista letteraria, compare una recensione d'un testo (comparso nel 2000) che "letterario" potrebbe non sembrare - e non essere - o che l'è divenuto progressivamente, "quasi a mia insaputa", confessa lei. (p. 169) Che è giornalista (per dieci anni al Manifesto) e scrittrice genovese, portavoce nel primo governo Prodi del ministero per le Pari Opportunità, e collaboratrice dei bei filmati di Giobbe Covatta per l'AMREF. Ella ci racconta, ritraendoli dal vero, dei casi dei "maestri di strada" e dei loro disincantati scolari. Di quegli insegnanti cioè, che, nell'ambito del succitato "progetto Chance" di Marco Rossi Doria (cfr. Di mestiere faccio il maestro, èdito L'Àncora del Mediterraneo), tentano di riportare a scuola quei ragazzini che non vogliono o non possono farsi alunni, per mille ragioni - che vanno dalla necessità di riportare soldi a casa e di badare ai piccoli e talvolta pure ai grandi della famiglia, all'indifferenza o all'avversione dei genitori e dei ragazzi per qualcosa - la scuola - che è vissuto come inutile spreco di tempo, all'entrata da apprendisti nei traffici irregolari o illegali gestiti da amici o consanguinei. Chi li vuol vedere studenti, cerchi Racconti di vita, puntata sui "maestri di strada" (Rai Tre, due maggio 2004), o il film Pesci combattenti (Rai Tre, dieci ottobre stess'anno).

Sappiamo, sbotteranno taluni. Già visto, sospireranno talaltri. Sta di fatto però che libri cotàli, fra realtà e finzione, sembrano fatti per suscitare qualche interrogativo "che forse non morrà": ogni giorno affrontiamo delle "ricostruzioni", alla fine delle quali compare la scritta "tratto (o ispirato) da una storia vera". E abbiamo familiarità col "docudrama", che è la drammatizzazione d'un evento, per solito delittuoso. Dunque: cos'ha di diverso questo libro (o: un libro, salvo eccezioni) che riporta una realtà resa fantastica, ma non irreale, da tali prodotti? La risposta forse (almeno in questo caso) sta nel termine "drammatizzazione". Tranne rari casi, chi ricostruisce per la tv o per un altro mezzo di massa "drammatizza", sovraccarica d'emotività (e sovente di retorica) l'accaduto. Fa appello al cervello appetitivo prima che al razionale. Il che, con meditata parsimonia, può anche andare: ma se quest'uso fagocita ogni modo comunicativo, allora il nucleo di realtà si sfalda, e si passa dal documento (sia pure teatralizzato) alla sollecitazione non d'un'emotività genuina, ma d'una reazione emotiva prescritta. Che, essendo tale, falsifica, sofistica e deteriora i modi secondo i quali viviamo e comprendiamo l'esperienza che viene riportata. Insomma: il testo (di solito audiovisuale, ma anche letterario, quando ne mimi la petizione affettiva) non ti dà il tempo di elaborare una risposta originale (e perciò autentica), ma ti impone di emozionarti in un certo modo e per certi eventi. Non ti dice: "emozionati!", ma "emozionati così!" : sente per te. E solo "sente", perché, fornendoti delle modalità espressive preconfezionate, non ti spinge a analizzare l'emozione per tuo conto, e dunque ad usare il cervello, dopo avertene già intralciato l'uso distogliendoti dalla documentazione per privilegiare la sollecitazione umorale. Fa cioè il contrario di ciò che raccomandava quel tale: "Io voglio dare allo spettatore le emozioni insieme con la possibilità di riflettere e analizzare ciò che sente" (in D. Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, l'Unità / il Castoro, ottobre 1995, pp. 34-35).

In questi Ultimi accade proprio quel che voleva il regista: ed è per questo che alla fine, di questi ragazzini ci frega ("I care", come si diceva già prima di Veltroni) e, tramite loro, abbiamo imparato qualcosa.

Ma a che pro? Tanto, "parlàmm e n'ze capìmm". Difatti: si annuncia ai ragazzi che verranno delle "esperte" a parlare loro dei fatti della vita, e l'insegnate intende delle psicologhe. Ma uno dei maestri, dopo l'esperienza fallimentare e la rivolta delle alunne, rimarca: "Avete detto alle ragazze che sarebbero venute delle "esperte". Ma lo sapete che qui una donna esperta significa una femmina malamente, una prostituta? Ci credo io che gli è andata storta. Non vi volete rassegnare al fatto che gli adolescenti, e per giunta gli adolescenti di questi quartieri, sono un'altra etnia. O parlate il loro linguaggio o capiscono il contrario di quello che dite". (p. 113)

Sì, parliamo e non ci capiamo: e succede spesso perché gli adulti non si curano di ascoltare la vera lingua (d'osservare la vera forma di vita) dei ragazzi. Ben vengano allora i libri come questo, di "transito", di "traduzione", da una lingua ad un'altra. Da una vita ad un'altra.



di Vera Barilla


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