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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Joe R. Lansdale

L'ultima caccia

Fanucci Editore, Pag.177 Euro 11.00
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Ricordo ancora lo stupore e la sensazione di incredulità che provai nel leggere il ciclo del drive-in. E l'idea di trovarmi di fronte un autore "esagerato" che trattasse la materia, in quel caso la fantascienza (ma era davvero fantascienza?) come se fosse lava incandescente. Le avventure di Hap, un bianco malinconico e pacioso e Leonard, omosessuale afroamericano, quelle che in pratica hanno fatto la fortuna di Lansdale in Italia, soprattutto Mucho Mojo e Il mambo degli orsi, invece installarono in me dei forti dubbi: allo scrittore sì piace la mano pesante, ma l'uso "violento" che ne fa non sempre lo aiuta ad ottenere una "risultato" giusto.

Sembra paradossale ma le storie di Lansdale, o meglio, gli sviluppi delle storie arrancano di brutto (fra tutti cito proprio Il mambo degli orsi che incanta con la fascinazione della catastrofe, l'alluvione come archetipo di disastri più complessi, o addirittura potere della preveggenza pre-katrina, ma poi riduce il finale ad una squinzia banalità sui soldi piuttosto che su una più sedativa analisi sul retroterra sociale e razzista che in fondo aveva segnato tutto il libro) e alla fine lasciano l'amaro in bocca.

Ma Lansdale è scrittore a tutto tondo, immagina l'universo con tutte le sue sfaccettature come un paradiso di spunti letterari e ogni stimolo un'opportunità per costruirci sopra "l'evento". Eccolo dunque dialogare con materie le più disparate possibili, dalla fantascienza allo splatterpunk, dal noir al western e allo psicologico nel tentativo di abbozzare un unicum che potrebbe non avere eguali nel panorama della letteratura dei nostri giorni.

La grazia per fortuna lo sfiora ne L'ultima caccia: con un linguaggio efficacissimo e "piano" innesta un meccanismo di elementari ossessioni che restituisce all'avventura la sostanza dei classici dell'infanzia. In un Texas antico e disgraziato, che sì forse sta dalle parti di Twain e Faulkner, Richard Dale, un ragazzino di quindici anni, che sogna di diventare scrittore (che Lansdale fosse afflitto dal morbo di King?), è assillato dall'idea di dover far fuori un enorme cinghiale che terrorizza gli animali e gli uomini nella campagna e semina distruzione.

Mi pare chiaro, siamo di fronte ad una storia di confine, ad un rito di iniziazione (quanti ne abbiamo "subiti" e non solo letterariamente) ma questa volta il risultato giusto, come dicevamo in precedenza, si materializza: l'autore smussa le provocazioni giocando invece con la tradizione, mi verrebbe da dire addirittura con l'immortalità del mito dell'infanzia. Ne esce fuori un romanzetto (per il numero di pagine) lineare e affascinante, sentito e potente, seducente ed educativo, dove ri-troviamo l'elementarietà degli impulsi.

Una storia che in altri tempi sarebbe stata letta davanti ad un focolare per la gioia di orecchie "innocenti" e cuori maturi, o ascoltata con apparecchi gracchianti e ingombranti.

Lansdale, dicevamo, è cavallo di razza (anche se questo non spiega "l'alluvione" di scritti che circola in Italia da qualche anno a questa parte) e non so perché mi ricorda tanto Tim Burton. Diversissimi tra loro li vedo però accomunati da un senso religioso della finzione come estrema ratio della favola del vivere.



di Eleonora del Poggio


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Gustoso


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