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CLASSICI

Leonardo Tonini

Una bella scoperta in fondo allo scaffale: “Un anno di scuola” di Giani Stuparich

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Approfittando della clausura, o quarantena, leggo libri di seconda fila, o da scaffale alto, della mia per fortuna discretamente fornita biblioteca. Di solito non si ha mai tempo per i libri di seconda fila, restano lì, ci guardano, ci sentiamo un po’ in colpa per il poco rispetto che gli portiamo, ma la vita ci trascina altrove. Invece, nel tempo della tragedia, ci si scopre come Geppetto nella pacia della Balena, con un libro in mano per passare il tempo. Ed ecco che mi capita il bel racconto di Giani (con una N) Stuparich, Un anno di scuola, divertente, allegro, positivo e trascinante, recentemente uscito per Quodlibet. La storia è semplice: Edda Marty è la prima ragazza a riuscire ad entrare in un liceo maschile e porta nella classe, come prevedibile, il caos tra i compagni, amici da tanti anni. Il valore di un’opera letteraria non è quasi mai nel soggetto, nel plot del racconto, ma in come esso viene condotto, e sviluppato. Shakespeare ruba al Sacchetti più di una novella, ma questo non toglie un capello al valore del Bardo, lo sappiamo; lo Stuparich quindi è stato per me una bella scoperta, seppure proprio il titolo Un anno di scuola, nella sua ovvietà, mi aveva fino a ieri tenuto lontano.
Il primo punto di forza del racconto è proprio la protagonista, Edda Marty. Una ragazza ammessa per le sue innegabili capacità, all’ottavo anno di un liceo di Trieste, solare, aperta, emancipata, insofferente verso le restrizioni sociali; lei abituata a Vienna dove le donne possono fumare, andare al caffè, rincasare tardi si trova contro la sua volontà (al seguito degli affari del padre) trapiantata in una Trieste grande porto di commercio, dicevano; ma in realtà piccola città di provincia. Le sue compagne nella scuola femminile di cui tutta la loro audacia consisteva nel malignare a bassa voce  la guardavano come una bestia rara, mentre lei pessimista come tutte le intelligenze temerarie insegue il suo desiderio di andare all’università, contro il parere di tutti. Da qui la preparazione da privatista e il salto obbligato al liceo maschile.
Il racconto è ambientato a prima della guerra, vi si respira un’aria di jeunesse dorée inizio 900, prima dell’amaro risveglio, ma l’uscita editoriale è del 1929. E, a questa altezza, prende tutto un altro significato. Stuparich era di famiglia ebraica, fin da subito antifascista. Nel 44 finì con la moglie (Elody Oblath, scrittrice di talento) nella tristemente famosa Risiera di San Sabba, ma vi rimase pochissimo perché mezza Trieste si mobilitò e nel giro di una settimana furono liberati. Perché due ebrei nel 1944 furono liberati così in fretta? Perché Giani Stuparich era medaglia d’oro al valor militare, il più alto riconoscimento militare del Regno d’Italia e della Repubblica. Stuparich era insomma un eroe, un vero e proprio vanto della città di Trieste.
Stuparich, dicevo, compie una operazione non da poco. Dopo Matteotti e le Leggi speciali del 1926, in piena fascistizzazione dell’Italia, che voleva la donna in posizione subordinata (così Benito Mussolini: Le donne debbono tenere in ordine la casa, vegliare sui figli e portare le corna), lui, ebreo, lancia nella letteratura italiana un personaggio di ragazza adolescente, forte e cosciente della propria unicità; che lotta con determinazione per realizzare i suoi sogni.
Non solo. Stuparich lo fa con grande intelligenza, e qui vengo al secondo punto di forza del racconto. Tutto è raccontato non in polemica a uno stato di cose, ma come realtà aggettiva e serenamente accettata. Stuparich cioè non entra in confronto dialettico col fascismo (operazione che rimarrebbe vincolata a una precisa volontà e che perderebbe il suo senso al venir meno di questa volontà) ma propone un diverso modo di esistere, come perfettamente credibile, già in essere al di là degli intenti governativi.
La ragazza è una ragazza normale inserita in un contesto più che normale. Si innamora, i compagni si innamorano di lei (più di lei come persona che di lei come corpo), si disinnamora, si illude e ne esce delusa, ha grandi aspettative, pensieri di suicidio piuttosto astratti, ha frenesia d’amore; si comporta insomma da perfetta adolescente. E così gli altri, i maschi; persino il tentato suicidio di Pasini, un compagno di scuola respinto, assai melodrammatico come era di moda ai tempi, e la risposta dei compagni di scuola, il risentimento nei suoi confronti come fosse la responsabile del folle gesto – rientrano perfettamente in un contesto di normalità, nella tipicità (nella psicologia) di una classe di quinta liceo, che l’autore conosce e sa descrivere.
Il terzo argomento nella faretra di questo piccolo capolavoro è la scrittura dello scrittore triestino. Rari sono gli scrittori italiani che hanno saputo rappresentare la vita borghese per quella che essa fu. Non manierato, non atteggiato, in Stuparich vi è una osservazione distaccata delle cose, da scienziato, che non si lascia influenzare da una qualche idea che si vuole difendere. C’è una superiore conoscenza dei fatti della vita in lui, c’è quello che molto spesso manca ai narratori di oggi, una saggezza delle cose e insieme un saper cogliere con profondità la moralità (la psicologia, appunto) di una intera classe sociale.
Il racconto è racconto di formazione, vi è descritto il passaggio tra la fanciullezza e l’età adulta, la scoperta che la vita ha una sua tragica serietà a cui nessuno può sfuggire. Ma, nella scena finale, dove i ragazzi pieni di allegria, alla fine dell’anno scolastico, corrono in aiuto dei professori rimasti isolati nel liceo per una alluvione, vi è un messaggio di speranza proprio verso la gioventù, scapestrata sì ma vista come unica salvezza dell’umanità: Ebbene ragazzi, noi siamo pirati ma generosi - dirà Mitis, eletto capo dai compagni per la sua capacità di evolvere come persona e per la sua prodigalità.


L’edizione da noi considerata è:


Giani StuparichUn anno di scuola

A cura di Giuseppe Sandrini

Quodlibet - 2017






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