INTERVISTE
Alessandra Kersevan
Da cosa è scaturita la scintilla che l'ha portata ad interessarsi ai lager italiani?
All'inizio degli anni Novanta, nell'archivio di stato di Udine, nel corso di una ricerca su altri argomenti, trovai con una mia collaboratrice una trentina di lettere risalenti all'inverno 1942-43 di donne internate nel campo di concentramento di Gonars, che è un paese della pianura friulana. Si trattatava di "stralci" di lettere, cioè di frasi censurate dall'Ufficio censura della Prefettura di Udine, e parlavano di fame, di morte, di incredibili sofferenze quotidiane di questi internati civili jugoslavi deportati nel campo dall'esercito italiano occupatore della Jugoslavia. La lettura di quelle lettere mi fece una forte impressione, anche perché non si trattava di ricordi, o di testimonianze di seconda mano, ma di testi scritti nel momento in cui quelle sofferenze stavano avvenendo, erano "voci dall'interno del campo" (come poi intitolai un'opera teatrale che abbiamo messo in piedi con questi testi). Quella volta feci conoscere il materiale pubblicandolo su una rivista locale, ma il discorso doveva essere approfondito e trovai la disponibilità del comune di Gonars, che da almeno una ventina d'anni era già impegnato a tener viva la memoria di questo tragico campo. Infatti dal 1973 esisteva nel cimitero del paese un sacrario, costruito dall'allora Repubblica federativa di Jugoslavia, con le urne dei resti di 471 persone morte nel campo, e ogni anno in questo luogo avvenivano e avvengono commemorazioni alla presenza delle allora autorità jugoslave e oggi di quelle slovene, croate e talvolta anche serbe. Purtroppo questa attività meritoria rimaneva sempre conosciuta solo in ambito locale, andava poco oltre il paese, nonostante fosse già stato pubblicato un libro Oltre il filo, curato da Nadja Pahor Verri. Ma otto anni fa il nuovo sindaco, Ivan Cignola e l'allora assessore alla cultura Marina Valentinis, pensarono che si dovesse fare molto di più e formularono un progetto articolato che fra le varie cose prevedeva una approfondita ricerca d'archivio, che mi fu affidata. In seguito, poi, nel 2005, con intervento della Commissione Europea, ho anche fatto un dvd dal titolo The Gonarsmemorial, il simbolo della memoria italiana perduta. Naturalmente nel corso della ricerca sono venuta a conoscenza e ho potuto approfondire anche molti altri campi di concentramento, perché quello di Gonars era una sorta di campo di smistamento, da cui poi le migliaia di internati venivano trasferiti in altri campi che nel corso del 1942 e 43 vennero istituiti (Monigo di Treviso, Chiesanuova di Padova, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Tavernelle e Colfiorito in Umbria, Fraschette di Alatri in prov. di Frosinone, Cairo Montenotte in prov. di Savona, e poi ancora Visco in Friuli, e poi Arbe/Rab in Dalmazia, Zlarin, Melada, Mamula e Prevlaka, tutte isole della Dalmazia, solo per ricordare i principali e più tragici).
Nel libro riporta l'episodio dell'eccidio di Podhum dove furono massacrati 108 uomini, il più giovane dei quali aveva 14 anni ed il comportamento della Televisione di Stato che acquistò i diritti di un documentario della BBC sui crimini di guerra fascisti ma che non mandò mai in onda. Secondo lei cosa c'era alla base di certe censure? Il fatto che questo paese s'è portato dietro un'eredità pericolosa che ha sempre affiancato la giovane democrazia?
Si potrebbe dire che sulle questioni del confine orientale anche la Repubblica nata dalla Resistenza ha sempre operato una sorta di rimozione o di ricordo selettivo, direi un revisionismo storico ante litteram. Queste regioni erano state conquistate con la vittoria nella prima guerra mondiale e avevano costituito l'argomento principale della propaganda nazionalista e irredentista prima e fascista poi. Gli italiani erano stati convinti che la cosiddetta Venezia Giulia fosse "italianissima" e la presenza maggioritaria di sloveni e croati era stata misconosciuta e oggetto di italianizzazione forzata. Il fatto che con la sconfitta nella seconda guerra mondiale buona parte di queste terre siano state perse è un argomento che è stato considerato tabù, e si è cercato in tutti i modi di nascondere le responsabilità del fascismo e dell'esercito italiano in questa tragedia, preferendo, come si dice, dare la colpa agli "altri", cioè agli "slavi", recuperando tutto l'armamentario razzista antislavo messo in campo dal regime. In effetti questo atteggiamento ha impedito e impedisce ancora una serena analisi delle vicende del confine orientale. Posso solo ricordare che oltre all'episodio del documentario della BBC, è eclatante anche il fatto che i risultati della commissione di storici italiani e sloveni, istituita con un accordo fra i due stati, non sono mai stati pubblicati e fatti propri ufficialmente dal governo italiano. Se questi risultati – anche se necessitano di ulteriori approfondimenti - fossero assunti dallo stato italiano come base dei rapporti sul confine orientale non sarebbero possibili le mistificazioni che avvengono in occasione della giornata del Ricordo.
Lei accusa il generale Roatta di essere stato uno degli ideatori ed esecutori della politica concentrazionista del regime e molto ironicamente afferma che tutt'ora in alcune caserme c'è la sua immagine. Ma anche la tanto decantata divisione alpina Julia fu artefice di uno degli episodi più barbari della vicenda, la distruzione di un intero villaggio. Allora come la mettiamo con l'idea, ormai consolidata, della 'genuinità' dei nostri apparati militari?
L'immagine di Roatta è nell'archivio dell'Ufficio dello Stato maggiore dell'esercito. Il mio era solo un esempio per indicare la continuità nella gestione dell'esercito fra fascismo e repubblica; non c'è mai stata una vera epurazione, un riconoscimento degli errori e dei crimini commessi nella seconda guerra mondiale e nelle altre guerre di aggressione. Anzi, i servizi segreti militari nell'immediato dopoguerra hanno costruito tutta una documentazione per negare questi crimini e presentare invece l'esercito italiano come vittima di aggressioni e violenze da parte dei partigiani jugoslavi. Questa documentazione, raccolta nel dossier 'Trattamento degli italiani da parte degli jugoslavi', mostrava un completo ribaltamento della realtà, dimenticando prima di tutto chi erano stati gli aggrediti e chi gli aggressori, e fu presentata alla conferenza di Parigi per contrastare le rivendicazioni jugoslave sui territori del confine orientale, ma anche per ricreare una "verginità" all'esercito italiano, indispensabile per i nuovi assetti del mondo nella guerra fredda. Questa operazione, come si vede, sembra riuscita in pieno.
La Curia lubianese si diede da fare per favorire la liberazione dai campi di concentramento di quelli che venivano considerati sicuri anticomunisti. Mi ricorda molto la posizione della Santa Sede, in occasione dell'emanazione delle leggi razziali del '38, che ignorando la sorte di migliaia di ebrei si preoccupò soltanto del 'vulnus' al Concordato a proposito del divieto di matrimoni tra italiani ed ebrei convertiti al cattolicesimo.
La Curia lubianese fu collaborazionista prima degli occupatori italiani e poi, dopo l'8 settembre, degli occupatori tedeschi. Nei confronti delle autorità fasciste, le poche azioni di contrasto o di protesta riguardarono soltanto aspetti marginali o singole "ingiustizie". Per il resto quello della Curia lubianese fu un atteggiamento delatorio: impressionante è la distinzione fra "innocenti" e "colpevoli" su cui il vescovo insisteva, in cui "colpevoli", da tenere nei campi di concentramento o da usare come ostaggi, erano tutti coloro che appoggiavano i partigiani.
Lei racconta che il legno delle baracche e i mattoni con cui fu costruito uno dei più terribili campi di concentramento, quello di Gonars, furono riutilizzati dagli abitanti per costruire, nel dopoguerra, la scuola materna del paese. Una sorta, come dice lei, di riciclaggio dei luoghi della sofferenza. Non crede che sarebbe utile farlo sempre?
Quello che successe a Gonars nei confronti del campo di concentramento, successe dopo l'8 settembre nei confronti di tutte le sedi militari, caserme ecc., in tutta Italia: prima il saccheggio dei magazzini, dei beni mobili, e poi anche delle strutture. Gli abitanti di Gonars e dei paesi vicini lo fecero perché durante la guerra e nell'immediato dopoguerra c'era penuria di tutto e si "riciclava" tutto. Il risultato è però che oggi non ci sono praticamente più strutture che ricordino la tragedia dei campi di concentramento fascisti. E lei sa che se non c'è un luogo da vedere, da visitare, si perde anche poi la memoria delle cose. Val la pena ricordare qui che una delle poche strutture rimaste, quella del campo di concentramento di Visco, sempre in provincia di Udine, che nel dopoguerra era diventato una caserma ora dismessa, sta per essere smantellata perché il comune intende venderla per un piano di urbanizzazione. A questo proposito si è creato in loco un comitato che si oppone e propone invece che le strutture della caserma diventino un luogo in cui raccogliere il ricordo di tutti i campi di concentramento fascisti, non un museo ma un luogo di memoria attiva.
Il pregiudizio che si aveva allora sugli slavi ritenuti 'barbari' crede che sopravviva ancora, anche nell'attuazione delle politiche sull'immigrazione?
Sì. Purtroppo è difficile rimediare a una propaganda durata per decenni, e poi rinfocolata dalle guerre degli anni Novanta. Soltanto la consapevolezza delle responsabilità del regime fascista e dell'esercito italiano, nell'aggressione alla Jugoslavia nel 1941 e nelle distruzioni e crimini conseguenti può contrastare in qualche maniera questi pregiudizi.
In tutto il libro lei non scrive mai la parola "foibe". Non è forse vero che, come scrive lo storico Enzo Collotti, dalla feroce snazionalizzazione operata dal fascismo nei confronti delle popolazioni slovene e croate nascono le radici dell'odio, delle foibe e dell'esodo dall'Istria?
Non scrivo la parola "foibe" perché le vicende di cui io tratto riguardarono una vicenda, quella dei campi di concentramento fascisti, che si concluse sostanzialmente con la capitolazione dell'esercito, cioè con l'8 di settembre del '43. È quindi cronologicamente e concettualmente precedente alla vicenda che oggi si indica normalmente con il nome di "foibe". Comunque non le nomino anche perché non credo che i campi di concentramento vadano studiati perché "poi" ci sono state le foibe. Vanno studiati indipendentemente da ciò che è successo dopo, e caso mai dovrebbero essere le foibe ad essere studiate tenendo conto anche di quello che è successo prima.
Quindi quello che dice il prof. Collotti è verissimo. Vorrei aggiungere che come è stato necessario fare approfondite ricerche d'archivio, oltre che di testimonianze personali, sui campi di concentramento, sarebbe necessario farlo anche sulla vicenda delle foibe, perché come gli italiani non sapevano nulla, fino a poco tempo fa – e in parte non sanno ancora – dei campi di concentramento fascisti, così sanno poco e distorto anche sulle foibe, e rimangono vittima, ancora una volta, della propaganda. Come accennavo in precedenza, ciò che viene oggi detto sulle foibe è per la gran parte preso dalla documentazione messa insieme dal SIM fra il 1945 e il 1946, per contrastare le accuse di crimini di guerra. Questa documentazione in questi anni è stata semplicemente riesumata, senza sottoporla a nessun'analisi storiografica, a nessun confronto con altra documentazione, senza contestualizzarla ecc. I pochi storici che si sono premurati di farlo non vengono presi in considerazione, perché intorno alle foibe si è creato ormai un dogma, che non può essere messo in discussione: un eccidio avvenuto da parte degli slavi, comunisti e barbari, a danno degli italiani solo perché italiani. Per avallare questo dogma, uno dei metodi antistoriografici è proprio quello di decontestualizzare l'argomento "foibe", facendo iniziare, per usare un paradosso, la storia nel 1945 o al massimo nel settembre del '43 e dimenticando appunto le responsabilità italiane precedenti; l'altro metodo è quello di accettare una documentazione senza sottoporla ad analisi. Credo che gli storici seri dovrebbero opporsi a queste e che sono vere e proprie manipolazioni delle vicende storiche.
All'inizio degli anni Novanta, nell'archivio di stato di Udine, nel corso di una ricerca su altri argomenti, trovai con una mia collaboratrice una trentina di lettere risalenti all'inverno 1942-43 di donne internate nel campo di concentramento di Gonars, che è un paese della pianura friulana. Si trattatava di "stralci" di lettere, cioè di frasi censurate dall'Ufficio censura della Prefettura di Udine, e parlavano di fame, di morte, di incredibili sofferenze quotidiane di questi internati civili jugoslavi deportati nel campo dall'esercito italiano occupatore della Jugoslavia. La lettura di quelle lettere mi fece una forte impressione, anche perché non si trattava di ricordi, o di testimonianze di seconda mano, ma di testi scritti nel momento in cui quelle sofferenze stavano avvenendo, erano "voci dall'interno del campo" (come poi intitolai un'opera teatrale che abbiamo messo in piedi con questi testi). Quella volta feci conoscere il materiale pubblicandolo su una rivista locale, ma il discorso doveva essere approfondito e trovai la disponibilità del comune di Gonars, che da almeno una ventina d'anni era già impegnato a tener viva la memoria di questo tragico campo. Infatti dal 1973 esisteva nel cimitero del paese un sacrario, costruito dall'allora Repubblica federativa di Jugoslavia, con le urne dei resti di 471 persone morte nel campo, e ogni anno in questo luogo avvenivano e avvengono commemorazioni alla presenza delle allora autorità jugoslave e oggi di quelle slovene, croate e talvolta anche serbe. Purtroppo questa attività meritoria rimaneva sempre conosciuta solo in ambito locale, andava poco oltre il paese, nonostante fosse già stato pubblicato un libro Oltre il filo, curato da Nadja Pahor Verri. Ma otto anni fa il nuovo sindaco, Ivan Cignola e l'allora assessore alla cultura Marina Valentinis, pensarono che si dovesse fare molto di più e formularono un progetto articolato che fra le varie cose prevedeva una approfondita ricerca d'archivio, che mi fu affidata. In seguito, poi, nel 2005, con intervento della Commissione Europea, ho anche fatto un dvd dal titolo The Gonarsmemorial, il simbolo della memoria italiana perduta. Naturalmente nel corso della ricerca sono venuta a conoscenza e ho potuto approfondire anche molti altri campi di concentramento, perché quello di Gonars era una sorta di campo di smistamento, da cui poi le migliaia di internati venivano trasferiti in altri campi che nel corso del 1942 e 43 vennero istituiti (Monigo di Treviso, Chiesanuova di Padova, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Tavernelle e Colfiorito in Umbria, Fraschette di Alatri in prov. di Frosinone, Cairo Montenotte in prov. di Savona, e poi ancora Visco in Friuli, e poi Arbe/Rab in Dalmazia, Zlarin, Melada, Mamula e Prevlaka, tutte isole della Dalmazia, solo per ricordare i principali e più tragici).
Nel libro riporta l'episodio dell'eccidio di Podhum dove furono massacrati 108 uomini, il più giovane dei quali aveva 14 anni ed il comportamento della Televisione di Stato che acquistò i diritti di un documentario della BBC sui crimini di guerra fascisti ma che non mandò mai in onda. Secondo lei cosa c'era alla base di certe censure? Il fatto che questo paese s'è portato dietro un'eredità pericolosa che ha sempre affiancato la giovane democrazia?
Si potrebbe dire che sulle questioni del confine orientale anche la Repubblica nata dalla Resistenza ha sempre operato una sorta di rimozione o di ricordo selettivo, direi un revisionismo storico ante litteram. Queste regioni erano state conquistate con la vittoria nella prima guerra mondiale e avevano costituito l'argomento principale della propaganda nazionalista e irredentista prima e fascista poi. Gli italiani erano stati convinti che la cosiddetta Venezia Giulia fosse "italianissima" e la presenza maggioritaria di sloveni e croati era stata misconosciuta e oggetto di italianizzazione forzata. Il fatto che con la sconfitta nella seconda guerra mondiale buona parte di queste terre siano state perse è un argomento che è stato considerato tabù, e si è cercato in tutti i modi di nascondere le responsabilità del fascismo e dell'esercito italiano in questa tragedia, preferendo, come si dice, dare la colpa agli "altri", cioè agli "slavi", recuperando tutto l'armamentario razzista antislavo messo in campo dal regime. In effetti questo atteggiamento ha impedito e impedisce ancora una serena analisi delle vicende del confine orientale. Posso solo ricordare che oltre all'episodio del documentario della BBC, è eclatante anche il fatto che i risultati della commissione di storici italiani e sloveni, istituita con un accordo fra i due stati, non sono mai stati pubblicati e fatti propri ufficialmente dal governo italiano. Se questi risultati – anche se necessitano di ulteriori approfondimenti - fossero assunti dallo stato italiano come base dei rapporti sul confine orientale non sarebbero possibili le mistificazioni che avvengono in occasione della giornata del Ricordo.
Lei accusa il generale Roatta di essere stato uno degli ideatori ed esecutori della politica concentrazionista del regime e molto ironicamente afferma che tutt'ora in alcune caserme c'è la sua immagine. Ma anche la tanto decantata divisione alpina Julia fu artefice di uno degli episodi più barbari della vicenda, la distruzione di un intero villaggio. Allora come la mettiamo con l'idea, ormai consolidata, della 'genuinità' dei nostri apparati militari?
L'immagine di Roatta è nell'archivio dell'Ufficio dello Stato maggiore dell'esercito. Il mio era solo un esempio per indicare la continuità nella gestione dell'esercito fra fascismo e repubblica; non c'è mai stata una vera epurazione, un riconoscimento degli errori e dei crimini commessi nella seconda guerra mondiale e nelle altre guerre di aggressione. Anzi, i servizi segreti militari nell'immediato dopoguerra hanno costruito tutta una documentazione per negare questi crimini e presentare invece l'esercito italiano come vittima di aggressioni e violenze da parte dei partigiani jugoslavi. Questa documentazione, raccolta nel dossier 'Trattamento degli italiani da parte degli jugoslavi', mostrava un completo ribaltamento della realtà, dimenticando prima di tutto chi erano stati gli aggrediti e chi gli aggressori, e fu presentata alla conferenza di Parigi per contrastare le rivendicazioni jugoslave sui territori del confine orientale, ma anche per ricreare una "verginità" all'esercito italiano, indispensabile per i nuovi assetti del mondo nella guerra fredda. Questa operazione, come si vede, sembra riuscita in pieno.
La Curia lubianese si diede da fare per favorire la liberazione dai campi di concentramento di quelli che venivano considerati sicuri anticomunisti. Mi ricorda molto la posizione della Santa Sede, in occasione dell'emanazione delle leggi razziali del '38, che ignorando la sorte di migliaia di ebrei si preoccupò soltanto del 'vulnus' al Concordato a proposito del divieto di matrimoni tra italiani ed ebrei convertiti al cattolicesimo.
La Curia lubianese fu collaborazionista prima degli occupatori italiani e poi, dopo l'8 settembre, degli occupatori tedeschi. Nei confronti delle autorità fasciste, le poche azioni di contrasto o di protesta riguardarono soltanto aspetti marginali o singole "ingiustizie". Per il resto quello della Curia lubianese fu un atteggiamento delatorio: impressionante è la distinzione fra "innocenti" e "colpevoli" su cui il vescovo insisteva, in cui "colpevoli", da tenere nei campi di concentramento o da usare come ostaggi, erano tutti coloro che appoggiavano i partigiani.
Lei racconta che il legno delle baracche e i mattoni con cui fu costruito uno dei più terribili campi di concentramento, quello di Gonars, furono riutilizzati dagli abitanti per costruire, nel dopoguerra, la scuola materna del paese. Una sorta, come dice lei, di riciclaggio dei luoghi della sofferenza. Non crede che sarebbe utile farlo sempre?
Quello che successe a Gonars nei confronti del campo di concentramento, successe dopo l'8 settembre nei confronti di tutte le sedi militari, caserme ecc., in tutta Italia: prima il saccheggio dei magazzini, dei beni mobili, e poi anche delle strutture. Gli abitanti di Gonars e dei paesi vicini lo fecero perché durante la guerra e nell'immediato dopoguerra c'era penuria di tutto e si "riciclava" tutto. Il risultato è però che oggi non ci sono praticamente più strutture che ricordino la tragedia dei campi di concentramento fascisti. E lei sa che se non c'è un luogo da vedere, da visitare, si perde anche poi la memoria delle cose. Val la pena ricordare qui che una delle poche strutture rimaste, quella del campo di concentramento di Visco, sempre in provincia di Udine, che nel dopoguerra era diventato una caserma ora dismessa, sta per essere smantellata perché il comune intende venderla per un piano di urbanizzazione. A questo proposito si è creato in loco un comitato che si oppone e propone invece che le strutture della caserma diventino un luogo in cui raccogliere il ricordo di tutti i campi di concentramento fascisti, non un museo ma un luogo di memoria attiva.
Il pregiudizio che si aveva allora sugli slavi ritenuti 'barbari' crede che sopravviva ancora, anche nell'attuazione delle politiche sull'immigrazione?
Sì. Purtroppo è difficile rimediare a una propaganda durata per decenni, e poi rinfocolata dalle guerre degli anni Novanta. Soltanto la consapevolezza delle responsabilità del regime fascista e dell'esercito italiano, nell'aggressione alla Jugoslavia nel 1941 e nelle distruzioni e crimini conseguenti può contrastare in qualche maniera questi pregiudizi.
In tutto il libro lei non scrive mai la parola "foibe". Non è forse vero che, come scrive lo storico Enzo Collotti, dalla feroce snazionalizzazione operata dal fascismo nei confronti delle popolazioni slovene e croate nascono le radici dell'odio, delle foibe e dell'esodo dall'Istria?
Non scrivo la parola "foibe" perché le vicende di cui io tratto riguardarono una vicenda, quella dei campi di concentramento fascisti, che si concluse sostanzialmente con la capitolazione dell'esercito, cioè con l'8 di settembre del '43. È quindi cronologicamente e concettualmente precedente alla vicenda che oggi si indica normalmente con il nome di "foibe". Comunque non le nomino anche perché non credo che i campi di concentramento vadano studiati perché "poi" ci sono state le foibe. Vanno studiati indipendentemente da ciò che è successo dopo, e caso mai dovrebbero essere le foibe ad essere studiate tenendo conto anche di quello che è successo prima.
Quindi quello che dice il prof. Collotti è verissimo. Vorrei aggiungere che come è stato necessario fare approfondite ricerche d'archivio, oltre che di testimonianze personali, sui campi di concentramento, sarebbe necessario farlo anche sulla vicenda delle foibe, perché come gli italiani non sapevano nulla, fino a poco tempo fa – e in parte non sanno ancora – dei campi di concentramento fascisti, così sanno poco e distorto anche sulle foibe, e rimangono vittima, ancora una volta, della propaganda. Come accennavo in precedenza, ciò che viene oggi detto sulle foibe è per la gran parte preso dalla documentazione messa insieme dal SIM fra il 1945 e il 1946, per contrastare le accuse di crimini di guerra. Questa documentazione in questi anni è stata semplicemente riesumata, senza sottoporla a nessun'analisi storiografica, a nessun confronto con altra documentazione, senza contestualizzarla ecc. I pochi storici che si sono premurati di farlo non vengono presi in considerazione, perché intorno alle foibe si è creato ormai un dogma, che non può essere messo in discussione: un eccidio avvenuto da parte degli slavi, comunisti e barbari, a danno degli italiani solo perché italiani. Per avallare questo dogma, uno dei metodi antistoriografici è proprio quello di decontestualizzare l'argomento "foibe", facendo iniziare, per usare un paradosso, la storia nel 1945 o al massimo nel settembre del '43 e dimenticando appunto le responsabilità italiane precedenti; l'altro metodo è quello di accettare una documentazione senza sottoporla ad analisi. Credo che gli storici seri dovrebbero opporsi a queste e che sono vere e proprie manipolazioni delle vicende storiche.
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