RACCONTI
Joseph Santella
La mosca

Una mattina, svegliandosi da sogni inquieti, Giuseppe Riva si trovò nel suo letto in uno stato di confusione.
«Qual è il senso di tutto questo?», si chiese, una domanda alla quale non era mai riuscito a dare una risposta soddisfacente. Fin dalla giovinezza, simili interrogativi avevano sempre suscitato in lui confusione e smarrimento. Anche se tali pensieri si manifestavano raramente, quando apparivano al suo risveglio nelle prime ore del mattino, invadevano la sua mente con una forza intensa, come se la coscienza cercasse di scuotere la monotonia della sua esistenza. In quei momenti, aveva l'impressione che il tempo rallentasse, superando la sottile linea che separa realtà e immaginazione. L'immagine che affollava la sua mente era sempre la stessa: si vedeva sospeso nel vasto mare cosmico dell'universo, circondato da galassie, stelle e pianeti. Pochi istanti dopo, si trovava immobilizzato in mezzo a un incessante movimento di persone, uccelli e animali di ogni genere, fino a quando la realtà non lo richiamava nuovamente a sé.
Una mosca si posò sulla testiera del letto, si pulì le zampe anteriori e, dopo alcuni istanti, si diresse indisturbata verso la finestra, dove fiori di pesco ondeggiavano dolcemente sotto una leggera brezza mattutina. La mosca colpì il fragile vetro e, ingannata dai suoi sensi e imprigionata dalla sua stessa ignoranza, continuava a sbattere incessantemente contro quella barriera invisibile.
«Qual è la differenza tra me e la mosca?», si domandò, e continuando a riflettere, pensò:
«Sono come la mosca. Credo di essere consapevole del mondo esterno e di quello interiore quando, in realtà, non sono altro che una persona inconscia che vive di una consapevolezza al qui e ora, rispondendo unicamente ai propri stimoli.»
Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e il profumo di cedro inondò ogni parte del suo corpo, ogni cellula, ogni neurone, e in un miliardo di sinapsi la sua mente passò da una fase confusionale a uno stato di rilassamento. Quando riaprì gli occhi, si guardò intorno e quella stanza, di pochi metri quadri che fungeva da salotto, cucina, camera da letto e bagno, per lui era tutto. Racchiudeva tutti i ricordi di una vita. Una casetta costruita in legno massiccio dal padre in un piccolo paese di provincia, ai piedi del monte la Molara, nel bosco, in un contesto naturale variopinto e suggestivo, dove regnava il silenzio dell’umanità e si udiva la voce della natura. Il canto degli animali, il suono delle cavallette e delle cicale tra i vasti campi di grano, il canto delle civette al chiaro di luna che incantava le anime dormienti in un sonno profondo, e la dolce melodia dei passeri che si udiva all'alba, quando il sole iniziava a sorgere all'orizzonte. I loro canti melodiosi e gioiosi si mescolavano con i primi raggi di luce, creando un'atmosfera incantevole e serena che segnava l'inizio di un nuovo giorno.
Tuttavia, per Giuseppe i giorni erano tutti identici. Non aveva più alcuno stimolo e l’unico elemento a cui si aggrappava, nonostante la sua età, era la curiosità. Era anziano ma docile nell’animo. Preferiva la notte al giorno e solo in quel momento trovava compagnia nel suo adorato pupazzo di scimmia, un affettuoso regalo dei suoi genitori quando era ancora bambino. Questo giocattolo, che portava con sé i ricordi della sua infanzia, era diventato un simbolo di conforto e tenerezza, un fedele compagno con il quale condivideva il sonno. Un pupazzo che colmava i vuoti del suo cuore lasciati da sua sorella Lara, la quale, quando diventò maggiorenne, in un primo mattino di marzo, in una giornata che iniziava a scaldarsi con i primi raggi del sole primaverile, uscì dalla sua abitazione, lasciando dietro di sé tutto ciò che conosceva e amava. Si allontanò insieme a un giovane il cui comportamento e la cui reputazione non erano affatto ben visti nel paese, tanto che le voci su di lui circolavano e la gente lo guardava con sospetto. Da quel giorno, il padre, con l’immenso dispiacere di Giuseppe e della madre, decise che per Lara la porta della sua casa rimanesse per sempre chiusa e non ci fu mai più motivo di aspettarla. Nessuna informazione, nessun segnale della sua presenza, nessuna parola che potesse far sperare in un suo ritorno. Mai più una sua notizia.
Giuseppe non riusciva più a rimanere sdraiato nel letto. Così, con un certo sforzo, decise di alzarsi. Una volta in piedi, le gambe sottili e intorpidite, faticavano a sostenere quel corpo esile e magro. La schiena, incurvata, portava il segno di un’intera vita trascorsa a dedicarsi a un unico lavoro, l’unico che suo padre gli aveva imposto e dal quale non aveva potuto mai sottrarsi: il taglialegna. Il volto di Giuseppe appariva stanco e pallido, segnato dal tempo, dall’incomprensione e da una profonda tristezza. I suoi splendidi occhi azzurri erano privi di vita, circondati da un alone bianco come una nebbia che si intensifica e impedisce di vedere oltre il proprio cammino. Si avviò verso la finestra e il pavimento di legno scricchiolava sotto i suoi piedi nudi. Quando si trovò vicino al davanzale, aprì la finestra per liberare la mosca, ma questa cominciò a volare in tondo, come se non avesse alcuna intenzione di uscire.
«Dai, su, vai fuori!», esclamò mentre sventolava le mani verso la finestra, cercando di farla uscire. Ma niente, continuava a svolazzargli intorno. «Vuoi stare con me?», sussurrò alla mosca, e un sorriso gli si dipinse sul volto. Chiuse la finestra e si avvicinò alla cucina. «Vieni con me», disse alla mosca mentre lo seguiva. Aprì la dispensa, prese il pane e tagliò una fetta. Poi prese il barattolo di marmellata di ciliege e un pezzo di burro, si sedette e la mosca si posò sul piano del tavolo. Aprì il barattolo e spalmò sulla fetta di pane un velo di burro e la marmellata. Stava per dare il primo morso, ma notò che la mosca, ferma, lo fissava come se si aspettasse qualcosa da lui. Prese un tovagliolo di carta e mise una goccia di marmellata. La mosca spiccò il volo, ma subito dopo si posò sul fazzoletto e iniziò a gustarsi la marmellata. «Buona colazione», disse alla mosca. Poi, tra un boccone e l’altro, pensò:
«Le particelle si muovono nello spazio proprio come le grandi strutture cosmiche si spostano all’interno dello stesso spazio. Ma se non ci fosse movimento, osservazione, percezione; se io non fossi consapevole della mosca in un punto nello spazio, allora quello stesso spazio non esisterebbe?» Mentre osservava la mosca, rifletté:
«Quindi, anche se abbiamo prospettive diverse, io e te esistiamo nello stesso spazio», commentò con la mosca. E in quel momento, quando stava per avvicinare la mano per cercare di toccarla, la mosca volò via, ma tornò immediatamente sul fazzoletto. «Sei tornata, ti piace la marmellata?» e proseguì, «non mi rispondi? Che domande! Sono davvero solo in questo mondo per avere il coraggio di parlare con una mosca. Sono oppresso dalla solitudine, ma sollevato dalla libertà di fare ciò che voglio. Faccio ciò che voglio e, in un certo senso, la mia vita è palesemente fuori dagli schemi».
La mosca smise di succhiare la marmellata e volò in direzione della finestra, sbattendo contro di essa un’altra volta. Giuseppe, mentre continuava a mangiare, si avvicinò alla finestra e la aprì. «Dai, esci, sei libera!» esclamò, ma la mosca si posò sul suo braccio. La scosse e sembrava proprio che non volesse più uscire, non si muoveva di un millimetro, ferma, immobile sul suo braccio. Fece un altro movimento con il braccio, simile a uno spasmo, ma niente, non si spostava. «Va bene, ho capito», disse Giuseppe, chiuse la finestra e, quando finì l’ultimo boccone, la mosca volò via dal suo braccio. «Ma come?» E aggiunse, quando la mosca andò a posarsi su un vecchio libro de ‘La coscienza di Zeno’:
«A proposito, un proposito, quale proposito?», fece con una certa ironia. E quando si chinò sotto il televisore per prendere il libro, la mosca si posò sul davanzale della finestra. Giuseppe, con una certa indifferenza, si sedette sulla poltrona e poggiò il libro sulle ginocchia, riflettendo. Intanto, la mosca continuava a muoversi su e giù sul davanzale della finestra.
«Qual è il senso di tutto questo? Perché non posso semplicemente essere una pietra, una pianta o una mosca? Per quale motivo esistono la vita, l’universo, le galassie, le stelle, il sole, i pianeti? Perché ci sentiamo costretti, quasi come se fosse un obbligo, a porci domande sull’esistenza per tutta la nostra vita, e poi, quando non ci siamo più, chi viene dopo di noi ricomincia a porsi le stesse domande, come se si trattasse di un ciclo tormentoso senza una conclusione, senza un punto di arrivo, senza risposte definitive. Da dove ha origine la curiosità?» Si voltò verso la finestra, dove la mosca continuava a ronzare, muovendosi su e giù incessantemente e a voce alta si domandò:
«Chi è la mosca e chi sono io? Penso che siamo la stessa cosa, radicati nella medesima essenza: la coscienza. La consapevolezza è una goccia d’acqua in un oceano e la coscienza è l’oceano in una goccia. E dove si trova la coscienza, tempo e spazio non esistono; in questa dimensione tutto è interconnesso. L’unità prevale sulla separazione e individuo e universo sono la manifestazione di un’unica essenza», dichiarò, abbassando lo sguardo e perdendosi nella visione della copertina del libro, «Italo svevo. La coscienza di Zeno», lesse ad alta voce. Poi aprì il libro e, con un sorriso, proseguì:
«Per quante volte l’ho letto, ho perso il conto. La prima volta non riuscii a comprendere nulla, la seconda volta iniziai a cogliere alcuni elementi, mentre nella terza mi soffermai sul ragionamento della sigaretta, e alla quarta mi sembrò di intuire che nella narrazione tutto ruota attorno a una sola parola: proposito». Sollevò lo sguardo e notò che la mosca continuava a colpire il vetro; quando vide un fiore di pesco staccarsi delicatamente dal ramo e, con un movimento lento, quasi surreale, cadere a terra. Proprio in quel preciso istante, anche la mosca cadde sul pavimento con le zampette piegate in una posizione innaturale. Giuseppe si avvicinò alla mosca e vide che era morta. E in quello stesso momento, qualcuno bussò con insistenza alla porta. Si diresse verso di essa e, una volta aperta, si trovò davanti a una figura familiare.
«Lara!?»
«Qual è il senso di tutto questo?», si chiese, una domanda alla quale non era mai riuscito a dare una risposta soddisfacente. Fin dalla giovinezza, simili interrogativi avevano sempre suscitato in lui confusione e smarrimento. Anche se tali pensieri si manifestavano raramente, quando apparivano al suo risveglio nelle prime ore del mattino, invadevano la sua mente con una forza intensa, come se la coscienza cercasse di scuotere la monotonia della sua esistenza. In quei momenti, aveva l'impressione che il tempo rallentasse, superando la sottile linea che separa realtà e immaginazione. L'immagine che affollava la sua mente era sempre la stessa: si vedeva sospeso nel vasto mare cosmico dell'universo, circondato da galassie, stelle e pianeti. Pochi istanti dopo, si trovava immobilizzato in mezzo a un incessante movimento di persone, uccelli e animali di ogni genere, fino a quando la realtà non lo richiamava nuovamente a sé.
Una mosca si posò sulla testiera del letto, si pulì le zampe anteriori e, dopo alcuni istanti, si diresse indisturbata verso la finestra, dove fiori di pesco ondeggiavano dolcemente sotto una leggera brezza mattutina. La mosca colpì il fragile vetro e, ingannata dai suoi sensi e imprigionata dalla sua stessa ignoranza, continuava a sbattere incessantemente contro quella barriera invisibile.
«Qual è la differenza tra me e la mosca?», si domandò, e continuando a riflettere, pensò:
«Sono come la mosca. Credo di essere consapevole del mondo esterno e di quello interiore quando, in realtà, non sono altro che una persona inconscia che vive di una consapevolezza al qui e ora, rispondendo unicamente ai propri stimoli.»
Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e il profumo di cedro inondò ogni parte del suo corpo, ogni cellula, ogni neurone, e in un miliardo di sinapsi la sua mente passò da una fase confusionale a uno stato di rilassamento. Quando riaprì gli occhi, si guardò intorno e quella stanza, di pochi metri quadri che fungeva da salotto, cucina, camera da letto e bagno, per lui era tutto. Racchiudeva tutti i ricordi di una vita. Una casetta costruita in legno massiccio dal padre in un piccolo paese di provincia, ai piedi del monte la Molara, nel bosco, in un contesto naturale variopinto e suggestivo, dove regnava il silenzio dell’umanità e si udiva la voce della natura. Il canto degli animali, il suono delle cavallette e delle cicale tra i vasti campi di grano, il canto delle civette al chiaro di luna che incantava le anime dormienti in un sonno profondo, e la dolce melodia dei passeri che si udiva all'alba, quando il sole iniziava a sorgere all'orizzonte. I loro canti melodiosi e gioiosi si mescolavano con i primi raggi di luce, creando un'atmosfera incantevole e serena che segnava l'inizio di un nuovo giorno.
Tuttavia, per Giuseppe i giorni erano tutti identici. Non aveva più alcuno stimolo e l’unico elemento a cui si aggrappava, nonostante la sua età, era la curiosità. Era anziano ma docile nell’animo. Preferiva la notte al giorno e solo in quel momento trovava compagnia nel suo adorato pupazzo di scimmia, un affettuoso regalo dei suoi genitori quando era ancora bambino. Questo giocattolo, che portava con sé i ricordi della sua infanzia, era diventato un simbolo di conforto e tenerezza, un fedele compagno con il quale condivideva il sonno. Un pupazzo che colmava i vuoti del suo cuore lasciati da sua sorella Lara, la quale, quando diventò maggiorenne, in un primo mattino di marzo, in una giornata che iniziava a scaldarsi con i primi raggi del sole primaverile, uscì dalla sua abitazione, lasciando dietro di sé tutto ciò che conosceva e amava. Si allontanò insieme a un giovane il cui comportamento e la cui reputazione non erano affatto ben visti nel paese, tanto che le voci su di lui circolavano e la gente lo guardava con sospetto. Da quel giorno, il padre, con l’immenso dispiacere di Giuseppe e della madre, decise che per Lara la porta della sua casa rimanesse per sempre chiusa e non ci fu mai più motivo di aspettarla. Nessuna informazione, nessun segnale della sua presenza, nessuna parola che potesse far sperare in un suo ritorno. Mai più una sua notizia.
Giuseppe non riusciva più a rimanere sdraiato nel letto. Così, con un certo sforzo, decise di alzarsi. Una volta in piedi, le gambe sottili e intorpidite, faticavano a sostenere quel corpo esile e magro. La schiena, incurvata, portava il segno di un’intera vita trascorsa a dedicarsi a un unico lavoro, l’unico che suo padre gli aveva imposto e dal quale non aveva potuto mai sottrarsi: il taglialegna. Il volto di Giuseppe appariva stanco e pallido, segnato dal tempo, dall’incomprensione e da una profonda tristezza. I suoi splendidi occhi azzurri erano privi di vita, circondati da un alone bianco come una nebbia che si intensifica e impedisce di vedere oltre il proprio cammino. Si avviò verso la finestra e il pavimento di legno scricchiolava sotto i suoi piedi nudi. Quando si trovò vicino al davanzale, aprì la finestra per liberare la mosca, ma questa cominciò a volare in tondo, come se non avesse alcuna intenzione di uscire.
«Dai, su, vai fuori!», esclamò mentre sventolava le mani verso la finestra, cercando di farla uscire. Ma niente, continuava a svolazzargli intorno. «Vuoi stare con me?», sussurrò alla mosca, e un sorriso gli si dipinse sul volto. Chiuse la finestra e si avvicinò alla cucina. «Vieni con me», disse alla mosca mentre lo seguiva. Aprì la dispensa, prese il pane e tagliò una fetta. Poi prese il barattolo di marmellata di ciliege e un pezzo di burro, si sedette e la mosca si posò sul piano del tavolo. Aprì il barattolo e spalmò sulla fetta di pane un velo di burro e la marmellata. Stava per dare il primo morso, ma notò che la mosca, ferma, lo fissava come se si aspettasse qualcosa da lui. Prese un tovagliolo di carta e mise una goccia di marmellata. La mosca spiccò il volo, ma subito dopo si posò sul fazzoletto e iniziò a gustarsi la marmellata. «Buona colazione», disse alla mosca. Poi, tra un boccone e l’altro, pensò:
«Le particelle si muovono nello spazio proprio come le grandi strutture cosmiche si spostano all’interno dello stesso spazio. Ma se non ci fosse movimento, osservazione, percezione; se io non fossi consapevole della mosca in un punto nello spazio, allora quello stesso spazio non esisterebbe?» Mentre osservava la mosca, rifletté:
«Quindi, anche se abbiamo prospettive diverse, io e te esistiamo nello stesso spazio», commentò con la mosca. E in quel momento, quando stava per avvicinare la mano per cercare di toccarla, la mosca volò via, ma tornò immediatamente sul fazzoletto. «Sei tornata, ti piace la marmellata?» e proseguì, «non mi rispondi? Che domande! Sono davvero solo in questo mondo per avere il coraggio di parlare con una mosca. Sono oppresso dalla solitudine, ma sollevato dalla libertà di fare ciò che voglio. Faccio ciò che voglio e, in un certo senso, la mia vita è palesemente fuori dagli schemi».
La mosca smise di succhiare la marmellata e volò in direzione della finestra, sbattendo contro di essa un’altra volta. Giuseppe, mentre continuava a mangiare, si avvicinò alla finestra e la aprì. «Dai, esci, sei libera!» esclamò, ma la mosca si posò sul suo braccio. La scosse e sembrava proprio che non volesse più uscire, non si muoveva di un millimetro, ferma, immobile sul suo braccio. Fece un altro movimento con il braccio, simile a uno spasmo, ma niente, non si spostava. «Va bene, ho capito», disse Giuseppe, chiuse la finestra e, quando finì l’ultimo boccone, la mosca volò via dal suo braccio. «Ma come?» E aggiunse, quando la mosca andò a posarsi su un vecchio libro de ‘La coscienza di Zeno’:
«A proposito, un proposito, quale proposito?», fece con una certa ironia. E quando si chinò sotto il televisore per prendere il libro, la mosca si posò sul davanzale della finestra. Giuseppe, con una certa indifferenza, si sedette sulla poltrona e poggiò il libro sulle ginocchia, riflettendo. Intanto, la mosca continuava a muoversi su e giù sul davanzale della finestra.
«Qual è il senso di tutto questo? Perché non posso semplicemente essere una pietra, una pianta o una mosca? Per quale motivo esistono la vita, l’universo, le galassie, le stelle, il sole, i pianeti? Perché ci sentiamo costretti, quasi come se fosse un obbligo, a porci domande sull’esistenza per tutta la nostra vita, e poi, quando non ci siamo più, chi viene dopo di noi ricomincia a porsi le stesse domande, come se si trattasse di un ciclo tormentoso senza una conclusione, senza un punto di arrivo, senza risposte definitive. Da dove ha origine la curiosità?» Si voltò verso la finestra, dove la mosca continuava a ronzare, muovendosi su e giù incessantemente e a voce alta si domandò:
«Chi è la mosca e chi sono io? Penso che siamo la stessa cosa, radicati nella medesima essenza: la coscienza. La consapevolezza è una goccia d’acqua in un oceano e la coscienza è l’oceano in una goccia. E dove si trova la coscienza, tempo e spazio non esistono; in questa dimensione tutto è interconnesso. L’unità prevale sulla separazione e individuo e universo sono la manifestazione di un’unica essenza», dichiarò, abbassando lo sguardo e perdendosi nella visione della copertina del libro, «Italo svevo. La coscienza di Zeno», lesse ad alta voce. Poi aprì il libro e, con un sorriso, proseguì:
«Per quante volte l’ho letto, ho perso il conto. La prima volta non riuscii a comprendere nulla, la seconda volta iniziai a cogliere alcuni elementi, mentre nella terza mi soffermai sul ragionamento della sigaretta, e alla quarta mi sembrò di intuire che nella narrazione tutto ruota attorno a una sola parola: proposito». Sollevò lo sguardo e notò che la mosca continuava a colpire il vetro; quando vide un fiore di pesco staccarsi delicatamente dal ramo e, con un movimento lento, quasi surreale, cadere a terra. Proprio in quel preciso istante, anche la mosca cadde sul pavimento con le zampette piegate in una posizione innaturale. Giuseppe si avvicinò alla mosca e vide che era morta. E in quello stesso momento, qualcuno bussò con insistenza alla porta. Si diresse verso di essa e, una volta aperta, si trovò davanti a una figura familiare.
«Lara!?»
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