CLASSICI
Alfredo Ronci
Esempio di fantascienza particolare: “Fine del viaggio” di Alessandro Sily.

Leggendo, come a volte faccio, romanzi o storie di fantascienza (prediligo quelle scritte nel periodo che va dagli anni ’50 a gli anni ’70) spesso mi chiedo: ma come mai nella materia non esistono scrittori fondamentali come, chessò, Proust, Joyce, Celine, Gadda e via dicendo?
Sciocca domanda? Probabilmente sì, ma comunque me la sono fatta e la risposta, ammettendo che possa essere unica (ma sinceramente non la è) è che negli scrittori di fantascienza prevale più la costruzione della trama che la costruzione di un tormento (mettiamola a questo modo, ma probabilmente la questione è molto più radicata).
Però è vero: tranne rarissime eccezioni, nella fantascienza non c’è tanto la ricchezza di un substrato intellettuale, quanto di una realtà oggettiva. E su quella ci si interroga, non su altro.
Perché ho fatto questa introduzione? Perché potrei essere smentito. Cioè mi smentirei da solo, soprattutto dopo la lettura di un classico di un allora ventisettenne che, nel 1962, lascia alle stampe un libro che, senza essere troppo elitari, può considerarsi affine alle migliori storie di fantascienza: Fine del viaggio di Alessandro Silj.
Di lui si conoscono (per modo di dire, perché in realtà si sono perse le tracce, secondo certe scelte di mercato editoriale) alcuni romanzi, ma dagli anni settanta, quello che poteva diventare una sorta di pilastro della fantascienza italiana, diventa uno studioso del terrorismo italiano e infila una serie di libri piuttosto interessanti (tra gli altri: Malpaese, approfondita analisi del terrorismo di sinistra oppure Mai più senza fucile).
Dunque, perché Fine del viaggio può davvero significare una sorta di cartina di tornasole di tutto il genere fantastico? Partirei, e qui mi accorgo che entro in contrasto con quanto detto prima, proprio dal linguaggio usato dal Silj che, per carità, non raggiunge le cime assolute di autori già nominati, ma che rende una situazione del tutto nuova e se mi si consente di dire, appassionata.
Due brani a casi. Il primo a pagina ventitre: Pioppi. Scintillanti. Tintinnanti. Giganti. Gendarmi zufolando vanno, tra pioppi, occhio alla cava, ladri lontani, base nuvole di noia opprimono i pomeriggi dei poveri gendarmi. Tufo benefacente un tetto ai profughi.
Il secondo a pagina novantanove (una poesia): Esisteva/ una sera un vento ignaro/ avaro/ in alto/ lontano dalle dita adunche/ vive/ dalle labbra dischiuse/ al soffio del timore/ aduse/ il vento è la morte/ ci porta la cenere/ delle morte spoglie/ e / lasciaci/ vento prodigo/ di vita/ in un universo immobile.
Si nota, ovviamente, una certa libertà di pensiero, non solo strutturale. Ed è la cosa che più intriga e affascina nella prosa (anche se il secondo caso era una poesia) di Alessandro Silj.
La trama: romanzo, come ha detto giustamente la presentazione in seconda di copertina, dell’alienazione… dalla chronique dell’angoscia esistenziale al monologo interiore (e che monologo!), ai filoni della memoria, ai vari sperimentalismi. La vicenda si svolge all’indomani di un conflitto atomico (ma voi lettori abbiate molta pazienza, non ci sono effetti “collaterali”, non c’è sangue, non c’è disperazione, c’è solo un continuo insistere di un uomo sulle sue capacità comunicative, anche se il mondo che aveva non esiste più). La crisi di coscienza del protagonista, però, è la crisi di coscienza dell’uomo contemporaneo, preso in un ingranaggio apparentemente ineluttabile, impotenza o non volontà d’intervenire attivamente e singolarmente contro la catastrofe.
Gli unici contatti che il protagonista avrà saranno due isolate guardie che tentano di deviare il decorso della gente, ma senza riuscirci, e un bovaro col suo animale, con la moglie e con una bambina piccola su cui, però, il protagonista non induce in attenzioni.
Tutto qui, niente altro. Tra l’altro mi viene in mente un’altra cosa: il libro esce nel 1962, anno in qualche modo fondamentale per la nostra letteratura, perché andava tanto di moda un movimento che l’anno successivo avrebbe prodotto il Gruppo 63. Potrebbe esserci qualche collegamento con ventisettenne brillante ed audace e un manipolo di persone che si divertiva a distruggere il romanzo? Io che l’ho pensato alla fine credo di no.
A cavallo dei due secoli il Sitj, abbandonando lo studio del terrorismo italiano, si produce anche nel genere giallo (Mistero italiano – Giallo Mondadori) facendo intuire, forse, che quello che più gli interessava era il genere letterario più che l’avanguardia o la storia contemporanea. Ma questa è tutta un’altra storia.
L’edizione da noi considerata è:
Alessandro Silj
Fine del viaggio
Rizzoli
Sciocca domanda? Probabilmente sì, ma comunque me la sono fatta e la risposta, ammettendo che possa essere unica (ma sinceramente non la è) è che negli scrittori di fantascienza prevale più la costruzione della trama che la costruzione di un tormento (mettiamola a questo modo, ma probabilmente la questione è molto più radicata).
Però è vero: tranne rarissime eccezioni, nella fantascienza non c’è tanto la ricchezza di un substrato intellettuale, quanto di una realtà oggettiva. E su quella ci si interroga, non su altro.
Perché ho fatto questa introduzione? Perché potrei essere smentito. Cioè mi smentirei da solo, soprattutto dopo la lettura di un classico di un allora ventisettenne che, nel 1962, lascia alle stampe un libro che, senza essere troppo elitari, può considerarsi affine alle migliori storie di fantascienza: Fine del viaggio di Alessandro Silj.
Di lui si conoscono (per modo di dire, perché in realtà si sono perse le tracce, secondo certe scelte di mercato editoriale) alcuni romanzi, ma dagli anni settanta, quello che poteva diventare una sorta di pilastro della fantascienza italiana, diventa uno studioso del terrorismo italiano e infila una serie di libri piuttosto interessanti (tra gli altri: Malpaese, approfondita analisi del terrorismo di sinistra oppure Mai più senza fucile).
Dunque, perché Fine del viaggio può davvero significare una sorta di cartina di tornasole di tutto il genere fantastico? Partirei, e qui mi accorgo che entro in contrasto con quanto detto prima, proprio dal linguaggio usato dal Silj che, per carità, non raggiunge le cime assolute di autori già nominati, ma che rende una situazione del tutto nuova e se mi si consente di dire, appassionata.
Due brani a casi. Il primo a pagina ventitre: Pioppi. Scintillanti. Tintinnanti. Giganti. Gendarmi zufolando vanno, tra pioppi, occhio alla cava, ladri lontani, base nuvole di noia opprimono i pomeriggi dei poveri gendarmi. Tufo benefacente un tetto ai profughi.
Il secondo a pagina novantanove (una poesia): Esisteva/ una sera un vento ignaro/ avaro/ in alto/ lontano dalle dita adunche/ vive/ dalle labbra dischiuse/ al soffio del timore/ aduse/ il vento è la morte/ ci porta la cenere/ delle morte spoglie/ e / lasciaci/ vento prodigo/ di vita/ in un universo immobile.
Si nota, ovviamente, una certa libertà di pensiero, non solo strutturale. Ed è la cosa che più intriga e affascina nella prosa (anche se il secondo caso era una poesia) di Alessandro Silj.
La trama: romanzo, come ha detto giustamente la presentazione in seconda di copertina, dell’alienazione… dalla chronique dell’angoscia esistenziale al monologo interiore (e che monologo!), ai filoni della memoria, ai vari sperimentalismi. La vicenda si svolge all’indomani di un conflitto atomico (ma voi lettori abbiate molta pazienza, non ci sono effetti “collaterali”, non c’è sangue, non c’è disperazione, c’è solo un continuo insistere di un uomo sulle sue capacità comunicative, anche se il mondo che aveva non esiste più). La crisi di coscienza del protagonista, però, è la crisi di coscienza dell’uomo contemporaneo, preso in un ingranaggio apparentemente ineluttabile, impotenza o non volontà d’intervenire attivamente e singolarmente contro la catastrofe.
Gli unici contatti che il protagonista avrà saranno due isolate guardie che tentano di deviare il decorso della gente, ma senza riuscirci, e un bovaro col suo animale, con la moglie e con una bambina piccola su cui, però, il protagonista non induce in attenzioni.
Tutto qui, niente altro. Tra l’altro mi viene in mente un’altra cosa: il libro esce nel 1962, anno in qualche modo fondamentale per la nostra letteratura, perché andava tanto di moda un movimento che l’anno successivo avrebbe prodotto il Gruppo 63. Potrebbe esserci qualche collegamento con ventisettenne brillante ed audace e un manipolo di persone che si divertiva a distruggere il romanzo? Io che l’ho pensato alla fine credo di no.
A cavallo dei due secoli il Sitj, abbandonando lo studio del terrorismo italiano, si produce anche nel genere giallo (Mistero italiano – Giallo Mondadori) facendo intuire, forse, che quello che più gli interessava era il genere letterario più che l’avanguardia o la storia contemporanea. Ma questa è tutta un’altra storia.
L’edizione da noi considerata è:
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