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CLASSICI

Alfredo Ronci

Un bel romanzo: Gli inganni” di Sandro De Feo.

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Questo è un discorso che, credo, ho affrontato anche in un’altra occasione. Della serie: cosa bisogna dire quando, per necessità o, meno schizofrenicamente, per diletto, si fa conoscenza con un autore e soprattutto con un romanzo che in qualche modo ha toccato la nostra sensibilità? Meglio ancora: cosa scrivere (tralasciando i contorni dell’evento) di una storia che ci è particolarmente piaciuta e vorremmo trasmettere le nostre raccolte sensazioni agli altri (cioè ai nostri lettori?).
Il romanzo in questione è appunto Gli inganni e l’autore è Sandro De Feo. Chi era Sandro De Feo? Le edizioni successive alla prima de Gli inganni riportavano la presentazione di, nientepopodimenoche, Eugenio Montale. A parte le informazioni pubblicitarie che ci informavano che eravamo di fronte ad un autore già conosciuto e anche di una certa esperienza, soprattutto cinematografica (altroché, tra gli altri film di cui fu sceneggiatore troviamo Pensaci Giacomino, ma in età fascista e Vestire gli ignudi del 1954), il Sommo poeta così esordiva: Da molto tempo non leggevo un libro che osasse presentarsi come “romanzo”. L’etichetta sta attraversando una fase di discredito, di cui sono rumorosa testimonianza le recenti teorie dell’antiromanzo.
E’ chiaro che Montale si riferisce al movimento del Gruppo 63 e alla teoria della “distruzione” del romanzo da parte degli autori che facevano parte del gruppo e tutto quello che ne conseguiva. Ma quello che più ci appassiona, essendo proprio Montale, è che definisca la storia di De Feo un romanzo, cioè: … che imiti la vita nel suo segreto pullulare e abolisca o riduca al minimo la contrapposizione dell’oggetto e del soggetto e la conseguente discriminazione tra personaggi maggiori e minori, presenti o assenti, immaginari o vivi in carne ed ossa.
E si chiede ancora se l’operazione possa definirsi realista o meno. Noi andiamo oltre e definiamo Gli inganni un semplice fluire delle cose, o meglio, dell’esistenza. Tutto si svolge nell’arco di ventiquattro ore, in una Roma, non meglio specificata ed analizzata, ma bella e spiazzante e invasa da un forte vento di scirocco che la trasforma, per il protagonista, in una sorta d’inferno dantesco.
Squarotti, nel suo saggio dedicato alla narrativa del dopoguerra così dice: una ricerca sottile e un po’ divagante di costume, tutta punteggiata di un commentare acuto ed arguto, che tende all’analisi calcolata dei dati e delle figure evocate da un’osservazione puntigliosa e, al tempo stesso, indulgente, un po’ pigra, alquanto complice nei confronti del mondo romano rappresentato.
Ma di quell’unica giornata romana di scirocco cosa avviene? Mi verrebbe da dire nulla di che, in realtà una serie di divagazioni, memorie ed episodi che segneranno l’esistenza del protagonista.
A cominciare dal ricordo che lui ha di un suo parente che, forse, molto forzosamente (siamo sempre nel 1962) non lo definisce gay ma… virtualmente, e senza saperlo, fosse affetto da una di quelle anomalie che oggi non impressionano più nessuno, può anche darsi, ma a quei tempi, e nei piccoli paesi del sud molti non sapevano neppure che esistessero anomalie del genere, e Raffaele sarebbe stato il primo a ridere, o a spaventarsene come di un cattivo scherzo, se gli avessero detto che egli era uno di quelli.
O l’episodio in cui, insieme all’amico Vituccio, con la macchina arrivano davanti a un bar dove è successo un incidente e sono costretti a portare in un Pronto Soccorso una bambina che sembra morta (in realtà lo sarà) … Non è bella come quella di Parigi, ha il viso smunto e senza colori di una ragazzina anemica di borgata, il collo già un po’ vizzo, neppure un po’ di petto, è solo bellina,
O la vicenda essenziale in cui crede che il suo amico Vituccio si sia scopato la sua amica… Se ora io sento come un dolore acuto la perdita dei miei amici, non è perché essi mi hanno fatto dei torti o io ne ho fatti ad essi, a questo potrei porre riparo, ma perché, essendosi sottratti all’attività ordinatrice e integratrice dei miti che mi ero fatto di essi, si vanno ora dissolvendo, disintegrando in un’infamia di atti, di gesti, parole, sguardi, sorrisi, smorfie, gemiti, gridi di esultanza o di paura o di brama, di ognuno dei quali io potrei dare infinite spiegazioni tutte più o meno vere e quindi tutte più o meno false. E a questa fuga dall’ordine nel caos nessun riparo è possibile.
Nemmeno la realtà infarcita di bugie, come spesso il protagonista fa, tentando di sottrarsi alla difficoltà del vivere. Un bel romanzo, come abbiamo detto all’inizio, e lo confermiamo.




L’edizione da noi considerata è:

Sandro De Feo
Gli inganni
Longanesi



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