ATTUALITA'
Marco Lanzòl
Cose da pas! Cicoria - un fatto teatrale, come e perché - e altre cosucce evocative del Pier Paolo n(onr)azionale.
...ov'è voce, è corpo...
Leonardo
Ci sono diversi modi di avere a che fare con Pier Paolo Pasolini - sul quale ritorniamo sempre volentieri, non fosse altro per la spiccata caratteristica delle sue opere di essere, seppur italiane, ben poco italiote. Italiane come gli scritti di don Milani, come i film di Moretti, e a differenza di quelle d'Autori che hanno creduto che l'elencare un menù di frequentazioni estere, citando Questo, Quello, Tal de' Tali, Tizio, Caio, Petrolini, sei poeti dozzinali, quattro geni e tre cretini - purché nati oltre Chiasso - volesse dire sprovincializzarsi. Mentre invece lo si fa rinunciando alla sempiterna italietta dello scata-fascio, e denunciandola - o almeno, guardando il mondo con uno sguardo diverso da quello d'un parrucchiere del centro finalmente invitato a una convènscion a Locarno.
Dicevamo: per misurarsi col P.P.P. (magari misurandosi il pipì - ma di ciò, dopo), ci sono diverse maniere. La prima la illustra, e non per dire, Il diaframma di Pasolini: (1) catalogo d'una mostra, Angelo Novi fotografo di scena - la poesia dell'immagine, tenutasi al Centro Taviani per il trentennale della morte del poeta. Si raccolgono le foto - e le riproduzioni di manifesti che le incorporano - realizzate da Novi e da altri (vedi elenco a p. 32 - qui e d'ora in avanti, il numero di pagina è relativo al testo in discussione), accompagnati da saggi e memorie - e la memoria va anche ad Angelus Novus, il film di Pasquale Misuraca. (2) Fra i quali spicca tra pari il breve e lucido intervento di Francesco Galluzzi, intitolato La lingua delle immagini: vi si analizza la nozione di "stile" come "congiunzione non contraddittoria di una lingua non letteraria (...) intrinseca al mondo dei parlanti (...) e della sensibilità raffinatamente intellettuale che di tale mondo voleva rispecchiare la coscienza nel momento stesso in cui vi aderiva in modo visceralmente passionale". (p. 162) Quando viene a mancare, per l'omologazione, il primo termine, Pasolini si rivolge alla "lingua delle immagini", ad un "nuovo stile atto a restituire il linguaggio di quei corpi che (...) non riescono più a trasmettere attraverso la lingua la peculiarità di un'identità". (p. 163) La citazione pittorica e il riferimento culto prenderanno, nella nuova lingua, il posto dello stylo sublime, sì da ricreare la dialettica forma-coscienza - che, letta per chiasmo, "si rivela come l'estremo tentativo della disperata vitalità pasoliniana di radicare ancora la pericolosità della poesia nella lingua di un corpo". (p. 165) In sintesi: il modo di vita altro (dal borghese) produceva una lingua "mai scritta", dunque assolutamente vitale e pezzo (tranche) e forma di vita, legata a quel luogo, situazione, contesto, corpo. L'omologazione omogeneizza la lingua, così da far rimanere corpi e luoghi "afoni". Allora saranno questi a parlare tramite loro stessi, con la "presenza", (3) l'assieme di tecniche attoriali che consentono di attirare l'attenzione semplicemente "essendoci". Quando il Palazzo ghermirà anche la fisicità umana e il suo contesto, finirà questa infinita "performance": alla trilogia della vita potrà dunque seguire quella della morte - una morte definitiva, opposta alla "morte" arcaica, prodroma di rinascita e di "infinita semiosi", cioè di realtà/lingua - e le architetture del passato, come il "bestione papalino" dell' Idroscalo, non potranno più essere comprese.
Ecco allora che l'interesse per le immagini e l'immaginario pasoliniano si concretizza come percorso visuale per meglio conoscere e approfondire il percorso intellettuale dell'Autore: nel saggio Pasolini tra cinema e pittura, De Santi rende ragione del suo "disegnare con la macchina da presa", e dell'artigianale realizzazione dei costumi di fantasia (p. 146 e segg.), come di momenti in cui "la stimmung dei disegni e delle inquadrature è la stessa", entrambi riempiti di "sostanza viva". (p. 145)
L'elemento vitale e di (rap)presentazione della vita è il secondo possibile recupero dell'opera di Pasolini: rileggerlo e integrarlo può dar modo all'interprete - direi soprattutto teatrale o performativo, là dove cioè il corpo e la voce sono immediatamente in gioco - di realizzare uno spettacolo autonomo, valido in sé, e insieme atto d'un discorso che si continua e si rinnova. Ciò avviene in Cicoria, (4) antologia di scritti che riguardano la pièce omonima, recitata da Ascanio Celestini e Gaetano Ventriglia nelle stagioni dal 1998 al 2000. Il breve dialogo è la storia d'un viaggio, da Foggia a Roma, d'un padre e d'un figlio. Solo che il primo (Celestini), dialettalmente romanesco, è morto; e il secondo (Ventriglia), che si esprime in foggiano, morirà alla fine dell'itinerario. Ma la morte che lo attende non è quella borghese, definitiva uscita dalla produzione-riproduzione-consumo: (5) è quella arcaica, contadina, del ciclo nascita-morte-rinascita, oppure quella magico-infantile sottoproletaria, per cui si passa da morte a morte, e dunque "di là" si starà come "di qua"- un sentimento che s'incontra pure nei romaneschi del Belli, per i quali gli uomini "so' stati morti prima d'esse' vivi". (6)
Ma ciò che è interessante in Celestini (7) è che, al di là d'un primo evidente livello di consonanza fra il suo "esserci" teatrale burìno (8) e la presenza pasoliniana, è che questa è assicurata da meccanismi narrativi e prossemici relativi a livelli più profondi e dunque più leganti. Nel testo, i due cicoriari si sfogano a citazioni - basti ricordare l'"ah, mo' sto bene" (p. 74) ch'è l'ironico saluto alla vita di Accattone morente; e anche l'atto di misurarsi il pisello (ne accennavamo all'inizio) afferisce a "un'offerta sessuale" che è "quasi un contatto omosessuale, che alla fine si conclude invece con una serie di insulti oltraggiosi e violenti", (p. 101) campione del tipo di omosessualità "mascolina" di Pasolini, come il viaggio narrato allegorizza il tragitto umano dello stesso cineasta e scrittore.
Ma se, da queste superficiali resultanze, si passa a considerare come lo spettacolo si coordini su strutture meno immediate, si nota che i due Cicoria sono personaggi non in cerca d'autore, ma che la morte dell'Autore ha fornito d'autonomia: così come, verrebbe da dire, ha fatto con i Citti buonanima, Ninetto Davoli, perfino Vincenzo Cerami. Si ribadisce il ciclo della rinascita, ribattuto però su un ferro soggiacente al metallo di scena, e dunque con armonici diversi: la morte del padre dà vita ai figli, ma vita e morte sono intercambiabili, dunque dà morte - Laio deve uccidere Edipo, (9) ma Edipo rinasce e lo uccide, per poi uccidersi simbolicamente, privandosi della possibilità di vedere, di quello sguardo esterno che è la diegesi. Il narratore difatti racconta a noi ciò di cui è stato, o pretende di essere, testimone (testis è anche "testicoli") oculare. Dalla vista viene la parola, e "ov'è lingua è corpo": acciecarsi dunque è assieme castrarsi per punirsi dell'atto orroroso della generazione con la madre, e uccidersi infine, privandosi del "corpo sociale", la parola - e abbiamo rimarcato quanto perdere la parola, il significato, il senso, sia l'autentica morte del "non venir compreso". Viceversa, è quasi banale dire che parlare di qualcuno implica dargli visibilità, renderlo riconoscibile, produrgli un'identità nel discorso sociale. Meglio: far sì che il suo discorso sia accettato tra quelli "dicibili", che la sua fisionomia sia inclusa tra le "riconoscibili"- a meno d'omologazione, ovvero coi suoi tratti specifici e come prima fra pari.
Questa sostanziale e primitiva unità visione-parola, con la visione che genera parole, e col linguaggio che diventa "arte della vista", è ribadita da Celestini persino a livello microfisico: "Durante le proprie performances Ascanio assume tutta una serie di posizioni ed atteggiamenti corporei fondati sullo spreco dell'energia fisica, che (...) gli permettono di acquisire un carisma scenico capace di catalizzare l'attenzione dell'uditorio". (p. 146) Tali dinamiche si realizzano per opposizione e miniaturizzazione, e portano lo spettatore "ad una fruizione attiva che si espleta nella necessità di trasporre le parole della narrazione in una sorta di sequenza filmico-visiva". (p. 147) Aridàje! Riecco il legame tra il corpo che realizza e dà senso alla storia "con mezzi propri" e reali, e l'immagine così sensata (sensuata, sensuale) ch'è qui un linguaggio d'altra e più alta natura, stante la sua superiore elaborazione. Si ha il solito "ricalaggio" - per dare al décalage un contrario - per cui il corpo dà sostanza, senso, alla parola, completandola: e la parola completa a sua volta il senso, rendendolo dicibile. Così: la frontalità delle pale d'altare serve a sacralizzare Accattone e compagni di balordaggine, assicurandone la dicibilità sociale, "l'entrata in società"; e nello stesso tempo reinventandosi come linguaggio possibile - non aulico ma neanche falsamente o mimeticamente "popolaresco" - come linguaggio "di vita", col suo portato trasgressivo. (10) Assicurando perciò alla tradizione nuova linfa, e approfondendo la vita ricollegandola al passato, (11) che diviene "forza rivoluzionaria" in virtù della sua inadulterazione, e non orpello alla "quando i mulini erano bianchi..."; peraltro, la stessa drammaturgia di Celestini e Ventriglia, e di simili affabulatori, è "pasolinismo realizzato", giacché cerca di re(i)stituire una "arcaica civiltà del racconto" (p. 175) - che è poi "la cosa" raccontata - in quanto "mezzo per restaurare in forma performativa la coltre antropologica delle pratiche orali". (ivi - ma vedi anche, per una problematizzazione, le pp. 156 e segg.) Inoltre, essendo la "memoria del passato (...) esperienza del presente", (p. 157) "l'atto di ricordare è un'azione che si produce nel tempo attuale e di questa attualità pretende di essere uno strumento di comprensione e di interpretazione". (p. 158) Così, escono i "narr-attori" e il loro nume famigliare dall'equivoco della "nostalgia": famoso è il chiarimento che Pasolini fece del termine in quella che sarebbe stata la sua ultima intervista, (12) ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire - oltre di chi è sordo veramente ("Freak" Antoni).
Ultima occasione per ritrovarsi in gioco con P.P.P., è anche quella più tradizionale: la discussione fra interpreti. Vede e provvede un volume collettaneo di saggi, dal sesquipedale titolo Pier Paolo Pasolini intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico. (13) L'editore è voce della Pro Civitate Christiana, con cui l'Autore ebbe ottimi rapporti, in particolar modo trovandosi a realizzare Il vangelo secondo Matteo. Così come si è felici di scoprire intelligenza di cose divine in scrittori o polemisti altrove impegnati, ci pare sempre un ottimo segno quando i cattolici, o i credenti in genere, si occupano di laici che però nel loro lavoro sono tanto e tanto profondamente turbati dal problema religioso. Dico "turbati", ripigliando da un'espressione in don Milani (14) che mi pare appropriata a descrivere il travaglio di chi, pur non accettandone le forme, comprende nella propria vita una sostanza spirituale o trascendente, oppure riconosce a questa sostanza un ruolo primario culturale e antropologico, e addirittura iconico.
Un primo collegamento fra i testi detti e désso, lo si ritrova nell'analisi comparativa che la Curatrice dedica a Medea, intesa come barbara "vittima ultima del passaggio di civiltà": (p. 163) in quanto Potnia, è la Gran Dea, la Madre Terra, custode del "ciclo contadino" (pp. 151, 181), in cui la semina è morte del seme, e assieme vita del grano, ove cioè la morte è sospesa come un canto. Ma essa viene in conflitto, e perde, con la nuova società razionale in cui "il culto si separa dalla produzione". (p. 153) Vorrei far notare come, in questo passaggio, si transiti dall'inconsumabile al consumabile: dall'età del pane, ove tutto è necessario, e dove non c'è consumo poiché la morte prelude alla rigenerazione, e ogni cosa è dunque riciclo, all'età della ragione, desacralizzata, dove la morte prende il suo aspetto unicamente distruttivo - e perciò genera qualcosa di inutilizzabile, il rifiuto (in senso materiale e in senso sociale e allegorico). Ma una società del rifiuto è una società dell'assolutamente inutile - cioè del superfluo. Allora, l'unica strada per vincere concettualmente l'ideologia che la permea, quella del consumo e della razionalità, è ricreare l'inconsumabile e le forme dell' irrazionale non compromesse con le (a torto o ragione) destrorse. Rileva Walter Siti: "si pensi al caso dell'aborto; le posizioni che Pasolini sostiene sono le posizioni del PCI contro i radicali, quindi nemmeno tanto scandalose. Però ne parla con questa tinta dell'omosessuale legato all'immagine del ventre materno (...) che naturalmente ne fa tutt'un'altra cosa". (15) Infatti: senza l'alone mistico-creaturale, apodittico e ipercalìttico, il suo discorso sarebbe stato preciso quel che Pasolini non voleva che fosse: "rationally correct", dunque di facile condivisione, sfonda-porte (e culi) golosamente aperti, assimilabile e utilizzabile dalla cerchia intellettuale e politica, e, via via, fino al tàcchesciò e alle pomeridiane. E' l'atteggiamento che don Milani impiegherà - sui generis e per motivi diversi - per non farsi includere: "Se non avessi puntato i piedi a quest'ora sarei un prete da salotto zitto in un cantuccio a sentire le opinioni di decine di imbecilli". (16) E' una strategia di lotta, quella d'er Pàsola, non rimminchionimento nostalgico-senile o peggio caldàne eroto-sadik-diabolik-meprudelakappe'. (17) Non a caso Marco Marchi nel suo scandaglio sulle forme poetiche pasoliniane chiama il Nostro "mistico lucidissimo", dopo averne sottolineato "l'impiego contestativo dell'ubbidienza" (p. 72) - ulteriore caratteristica che lo avvicina al maestro di Barbiana - e aver puntualizzato con l'elaborazione maggiore che si deve al tecnico e docente di cose letterarie, quanto abbiamo appena fatto nostro: "E' la riconfermata fuoriuscita dai codici linguistici mass-mediologici, la sostanziale indisponibilità a mercificare i frutti del proprio acume, stornandoli (...) dagli indirizzi pseudoinformativi e consumistici previsti dal sistema". (p. 71) E ci si potrebbe chiedere quanto il cinema di Ciprì e Maresco - e lo stile "cannibale" più avvertito - non siano anche elementi del corpo culturale che esso corpo avvertano come fagocitante, dunque cercando di non venire da questo inglobato.
Abbiamo molto parlato del "ciclo contadino", della non-morte: ci pare che offra, ora che stiamo per finire, un'occasione ulteriore d'avvicinarsi ad uno dei modi della creatività pasoliniana. Scrive Amelio: "la celebre boutade di Jean Cocteau "il cinema è la morte al lavoro sugli attori" (...) sarà pure una frase ad effetto (...) ma è vero che ogni volta si rinnova sullo schermo il miracolo della resurrezione. (...) La macchina da presa ha catturato una volta per sempre i loro (degli attori, n.d.R.) corpi, e, come una macchina del tempo, ce li riporta intatti a ogni visione". (18) Non v'ha chi non veda che il cinema, che per ogni regista - bravo come lo si voglia - è mestiere o arte, nel caso di Pasolini possiede il valore aggiunto di farsi occasione autentica di ricongiunzione con la struttura arcaica della realtà (d'altronde, in quanto "sogno", è correlato alle strutture arcaiche cerebrali), indi vera "forza del passato". E, se quella "umile" è la realtà, contrapposta all'irreale borghese, ecco che il cinema diviene, anche per questo rispetto,"lingua del reale".
Siamo giunti , dilungandoci, alla fine d'uno dei mille possibili percorsi nell'opera d'un artista ch'ebbe l'ambizione smisurata di misurarsi col Tempo e con lo Spazio. Con una civiltà intera - anzi, due. Con la Storia e con la Preistoria, e con la Nuova Preistoria. Solo questo, lo pone d'una testa sopra i contemporanei - per non dire degli stitici seguenti. Ma non con un'invettiva vogliamo congedarci da lui: ricordando, invece, che fu spensierato tra come lui disperati. E che, se c'è un dio dell'amore, si sia ricordato di lui: e ora lo lasci andare in bicicletta, portando in canna un cenciosetto implume, sulla Tuscolana o sull'Appia come un pazzo arrazzato, verso un futuro aprile, in culo ai borghesi. Free at last, free at last, thanks God (and Marx) free at last.
1) a cura di Pier Marco De Santi e Andrea Mancini. Titivillus Edizioni, Corazzano (Pisa) 2005. Avvertiamo che il diaframma in questione non è un anticoncezionale, siccome contronatura;
2) Con Domenico Pesce, Tomaso Ricordy, Stefano Valoppi. Italia, 1986;
3) La parola "presenza", con un significato affine, è usata dall'Autore parlando di sua madre: "La sua "presenza" fisica, il suo modo di essere, di parlare, la sua discrezione e la sua dolcezza soggiogarono tutta la mia infanzia". In Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 20;
4) a cura di Simone Soriani. Titivillus Edizioni, Corazzano (Pisa) 2005;
5) ben la descrive Luciano Bianciardi ne La vita agra. Nell' edizione Bompiani (Milano 1999) il brano occupa le pp. 148-155;
6) sonetto er cimiterio de la morte. Il transito come passaggio "dallo stesso allo stesso" viene anatomizzato da Mario Perniola nel suo Transiti (Castelvecchi, Roma 1998);
7) il testo curato da Soriani si sofferma ad analizzare anche la produzione successiva dei due performer;
8) per chi non fosse addentro al vernacolo tiberino, sappia che a Roma si indicano come burìni gli abitanti dell'intorno urbano, in particolare dell'Agro e del Frusinate - e, per estensione, i non romani, o (raramente) chi abita nell'Urbe e non vi è nato. La parola vale anche "maleducato, rozzo". In Alì dagli occhi azzurri Pasolini incorpora una storia burìna - e molte dei "cartoni" romaneschi raffigurano i campioni d'umanità che ritroviamo in Cicoria;
9) Edipo buonanima caratterizzò il discorso artistico della Mostra di Venezia '67, testimoniando della rilevanza dell'intuizione pasoliniana, e dunque del suo portato non esclusivamente individuale, ma politico. Ne fa fede il n. 258 (ottobre 1967) della rivista Sipario;
10) ho già discusso questo nel Paradiso, in una "sinagoga" dal titolo Pasolini era frocio per davvero;
11) "Tching // wrote MAKE IT NEW /on his bathtub. / Day by day make it new / cut underbrush/ pile the logs / keep it growing". Così in Ezra Pound;
12) "Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. (...) E' un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato?". In Furio Colombo, Gian Carlo Ferretti, L'ultima intervista di Pasolini, Avagliano, Roma 2005, pp. 59 e 63;
13) curato da Francesca Tuscano, per Cittadella Editrice, Assisi 2005;
14) "L'esperienza (...) ci dice che quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione (...). Il problema si riduce a turbargli l'anima verso i problemi religiosi". Da Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1974, p. 51;
15) ne Il Paradiso degli orchi (cartaceo), anno VI, n. 23, p. 39;
16) Lorenzo Milani Comparetti, Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1998(5) p. 274;
17) Difatti, quando il conte Pasolini vuol parlare un linguaggio malgrado tutto condivisibile, s'affida ai distinguo: "un giovane romano è il cadavere di sé stesso, che vive ancora biologicamente ed è in uno stato di imponderabilità tra gli antichi valori della sua cultura popolare romana e i nuovi valori piccolo borghesi che gli sono stati imposti". Vedi Opera Omnia - Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano 2001, p. 3027;
18) da Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004, p. 229. A p. 201 del medesimo si trova la battuta (da Orphée) nella sua interezza.
Leonardo
Ci sono diversi modi di avere a che fare con Pier Paolo Pasolini - sul quale ritorniamo sempre volentieri, non fosse altro per la spiccata caratteristica delle sue opere di essere, seppur italiane, ben poco italiote. Italiane come gli scritti di don Milani, come i film di Moretti, e a differenza di quelle d'Autori che hanno creduto che l'elencare un menù di frequentazioni estere, citando Questo, Quello, Tal de' Tali, Tizio, Caio, Petrolini, sei poeti dozzinali, quattro geni e tre cretini - purché nati oltre Chiasso - volesse dire sprovincializzarsi. Mentre invece lo si fa rinunciando alla sempiterna italietta dello scata-fascio, e denunciandola - o almeno, guardando il mondo con uno sguardo diverso da quello d'un parrucchiere del centro finalmente invitato a una convènscion a Locarno.
Dicevamo: per misurarsi col P.P.P. (magari misurandosi il pipì - ma di ciò, dopo), ci sono diverse maniere. La prima la illustra, e non per dire, Il diaframma di Pasolini: (1) catalogo d'una mostra, Angelo Novi fotografo di scena - la poesia dell'immagine, tenutasi al Centro Taviani per il trentennale della morte del poeta. Si raccolgono le foto - e le riproduzioni di manifesti che le incorporano - realizzate da Novi e da altri (vedi elenco a p. 32 - qui e d'ora in avanti, il numero di pagina è relativo al testo in discussione), accompagnati da saggi e memorie - e la memoria va anche ad Angelus Novus, il film di Pasquale Misuraca. (2) Fra i quali spicca tra pari il breve e lucido intervento di Francesco Galluzzi, intitolato La lingua delle immagini: vi si analizza la nozione di "stile" come "congiunzione non contraddittoria di una lingua non letteraria (...) intrinseca al mondo dei parlanti (...) e della sensibilità raffinatamente intellettuale che di tale mondo voleva rispecchiare la coscienza nel momento stesso in cui vi aderiva in modo visceralmente passionale". (p. 162) Quando viene a mancare, per l'omologazione, il primo termine, Pasolini si rivolge alla "lingua delle immagini", ad un "nuovo stile atto a restituire il linguaggio di quei corpi che (...) non riescono più a trasmettere attraverso la lingua la peculiarità di un'identità". (p. 163) La citazione pittorica e il riferimento culto prenderanno, nella nuova lingua, il posto dello stylo sublime, sì da ricreare la dialettica forma-coscienza - che, letta per chiasmo, "si rivela come l'estremo tentativo della disperata vitalità pasoliniana di radicare ancora la pericolosità della poesia nella lingua di un corpo". (p. 165) In sintesi: il modo di vita altro (dal borghese) produceva una lingua "mai scritta", dunque assolutamente vitale e pezzo (tranche) e forma di vita, legata a quel luogo, situazione, contesto, corpo. L'omologazione omogeneizza la lingua, così da far rimanere corpi e luoghi "afoni". Allora saranno questi a parlare tramite loro stessi, con la "presenza", (3) l'assieme di tecniche attoriali che consentono di attirare l'attenzione semplicemente "essendoci". Quando il Palazzo ghermirà anche la fisicità umana e il suo contesto, finirà questa infinita "performance": alla trilogia della vita potrà dunque seguire quella della morte - una morte definitiva, opposta alla "morte" arcaica, prodroma di rinascita e di "infinita semiosi", cioè di realtà/lingua - e le architetture del passato, come il "bestione papalino" dell' Idroscalo, non potranno più essere comprese.
Ecco allora che l'interesse per le immagini e l'immaginario pasoliniano si concretizza come percorso visuale per meglio conoscere e approfondire il percorso intellettuale dell'Autore: nel saggio Pasolini tra cinema e pittura, De Santi rende ragione del suo "disegnare con la macchina da presa", e dell'artigianale realizzazione dei costumi di fantasia (p. 146 e segg.), come di momenti in cui "la stimmung dei disegni e delle inquadrature è la stessa", entrambi riempiti di "sostanza viva". (p. 145)
L'elemento vitale e di (rap)presentazione della vita è il secondo possibile recupero dell'opera di Pasolini: rileggerlo e integrarlo può dar modo all'interprete - direi soprattutto teatrale o performativo, là dove cioè il corpo e la voce sono immediatamente in gioco - di realizzare uno spettacolo autonomo, valido in sé, e insieme atto d'un discorso che si continua e si rinnova. Ciò avviene in Cicoria, (4) antologia di scritti che riguardano la pièce omonima, recitata da Ascanio Celestini e Gaetano Ventriglia nelle stagioni dal 1998 al 2000. Il breve dialogo è la storia d'un viaggio, da Foggia a Roma, d'un padre e d'un figlio. Solo che il primo (Celestini), dialettalmente romanesco, è morto; e il secondo (Ventriglia), che si esprime in foggiano, morirà alla fine dell'itinerario. Ma la morte che lo attende non è quella borghese, definitiva uscita dalla produzione-riproduzione-consumo: (5) è quella arcaica, contadina, del ciclo nascita-morte-rinascita, oppure quella magico-infantile sottoproletaria, per cui si passa da morte a morte, e dunque "di là" si starà come "di qua"- un sentimento che s'incontra pure nei romaneschi del Belli, per i quali gli uomini "so' stati morti prima d'esse' vivi". (6)
Ma ciò che è interessante in Celestini (7) è che, al di là d'un primo evidente livello di consonanza fra il suo "esserci" teatrale burìno (8) e la presenza pasoliniana, è che questa è assicurata da meccanismi narrativi e prossemici relativi a livelli più profondi e dunque più leganti. Nel testo, i due cicoriari si sfogano a citazioni - basti ricordare l'"ah, mo' sto bene" (p. 74) ch'è l'ironico saluto alla vita di Accattone morente; e anche l'atto di misurarsi il pisello (ne accennavamo all'inizio) afferisce a "un'offerta sessuale" che è "quasi un contatto omosessuale, che alla fine si conclude invece con una serie di insulti oltraggiosi e violenti", (p. 101) campione del tipo di omosessualità "mascolina" di Pasolini, come il viaggio narrato allegorizza il tragitto umano dello stesso cineasta e scrittore.
Ma se, da queste superficiali resultanze, si passa a considerare come lo spettacolo si coordini su strutture meno immediate, si nota che i due Cicoria sono personaggi non in cerca d'autore, ma che la morte dell'Autore ha fornito d'autonomia: così come, verrebbe da dire, ha fatto con i Citti buonanima, Ninetto Davoli, perfino Vincenzo Cerami. Si ribadisce il ciclo della rinascita, ribattuto però su un ferro soggiacente al metallo di scena, e dunque con armonici diversi: la morte del padre dà vita ai figli, ma vita e morte sono intercambiabili, dunque dà morte - Laio deve uccidere Edipo, (9) ma Edipo rinasce e lo uccide, per poi uccidersi simbolicamente, privandosi della possibilità di vedere, di quello sguardo esterno che è la diegesi. Il narratore difatti racconta a noi ciò di cui è stato, o pretende di essere, testimone (testis è anche "testicoli") oculare. Dalla vista viene la parola, e "ov'è lingua è corpo": acciecarsi dunque è assieme castrarsi per punirsi dell'atto orroroso della generazione con la madre, e uccidersi infine, privandosi del "corpo sociale", la parola - e abbiamo rimarcato quanto perdere la parola, il significato, il senso, sia l'autentica morte del "non venir compreso". Viceversa, è quasi banale dire che parlare di qualcuno implica dargli visibilità, renderlo riconoscibile, produrgli un'identità nel discorso sociale. Meglio: far sì che il suo discorso sia accettato tra quelli "dicibili", che la sua fisionomia sia inclusa tra le "riconoscibili"- a meno d'omologazione, ovvero coi suoi tratti specifici e come prima fra pari.
Questa sostanziale e primitiva unità visione-parola, con la visione che genera parole, e col linguaggio che diventa "arte della vista", è ribadita da Celestini persino a livello microfisico: "Durante le proprie performances Ascanio assume tutta una serie di posizioni ed atteggiamenti corporei fondati sullo spreco dell'energia fisica, che (...) gli permettono di acquisire un carisma scenico capace di catalizzare l'attenzione dell'uditorio". (p. 146) Tali dinamiche si realizzano per opposizione e miniaturizzazione, e portano lo spettatore "ad una fruizione attiva che si espleta nella necessità di trasporre le parole della narrazione in una sorta di sequenza filmico-visiva". (p. 147) Aridàje! Riecco il legame tra il corpo che realizza e dà senso alla storia "con mezzi propri" e reali, e l'immagine così sensata (sensuata, sensuale) ch'è qui un linguaggio d'altra e più alta natura, stante la sua superiore elaborazione. Si ha il solito "ricalaggio" - per dare al décalage un contrario - per cui il corpo dà sostanza, senso, alla parola, completandola: e la parola completa a sua volta il senso, rendendolo dicibile. Così: la frontalità delle pale d'altare serve a sacralizzare Accattone e compagni di balordaggine, assicurandone la dicibilità sociale, "l'entrata in società"; e nello stesso tempo reinventandosi come linguaggio possibile - non aulico ma neanche falsamente o mimeticamente "popolaresco" - come linguaggio "di vita", col suo portato trasgressivo. (10) Assicurando perciò alla tradizione nuova linfa, e approfondendo la vita ricollegandola al passato, (11) che diviene "forza rivoluzionaria" in virtù della sua inadulterazione, e non orpello alla "quando i mulini erano bianchi..."; peraltro, la stessa drammaturgia di Celestini e Ventriglia, e di simili affabulatori, è "pasolinismo realizzato", giacché cerca di re(i)stituire una "arcaica civiltà del racconto" (p. 175) - che è poi "la cosa" raccontata - in quanto "mezzo per restaurare in forma performativa la coltre antropologica delle pratiche orali". (ivi - ma vedi anche, per una problematizzazione, le pp. 156 e segg.) Inoltre, essendo la "memoria del passato (...) esperienza del presente", (p. 157) "l'atto di ricordare è un'azione che si produce nel tempo attuale e di questa attualità pretende di essere uno strumento di comprensione e di interpretazione". (p. 158) Così, escono i "narr-attori" e il loro nume famigliare dall'equivoco della "nostalgia": famoso è il chiarimento che Pasolini fece del termine in quella che sarebbe stata la sua ultima intervista, (12) ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire - oltre di chi è sordo veramente ("Freak" Antoni).
Ultima occasione per ritrovarsi in gioco con P.P.P., è anche quella più tradizionale: la discussione fra interpreti. Vede e provvede un volume collettaneo di saggi, dal sesquipedale titolo Pier Paolo Pasolini intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico. (13) L'editore è voce della Pro Civitate Christiana, con cui l'Autore ebbe ottimi rapporti, in particolar modo trovandosi a realizzare Il vangelo secondo Matteo. Così come si è felici di scoprire intelligenza di cose divine in scrittori o polemisti altrove impegnati, ci pare sempre un ottimo segno quando i cattolici, o i credenti in genere, si occupano di laici che però nel loro lavoro sono tanto e tanto profondamente turbati dal problema religioso. Dico "turbati", ripigliando da un'espressione in don Milani (14) che mi pare appropriata a descrivere il travaglio di chi, pur non accettandone le forme, comprende nella propria vita una sostanza spirituale o trascendente, oppure riconosce a questa sostanza un ruolo primario culturale e antropologico, e addirittura iconico.
Un primo collegamento fra i testi detti e désso, lo si ritrova nell'analisi comparativa che la Curatrice dedica a Medea, intesa come barbara "vittima ultima del passaggio di civiltà": (p. 163) in quanto Potnia, è la Gran Dea, la Madre Terra, custode del "ciclo contadino" (pp. 151, 181), in cui la semina è morte del seme, e assieme vita del grano, ove cioè la morte è sospesa come un canto. Ma essa viene in conflitto, e perde, con la nuova società razionale in cui "il culto si separa dalla produzione". (p. 153) Vorrei far notare come, in questo passaggio, si transiti dall'inconsumabile al consumabile: dall'età del pane, ove tutto è necessario, e dove non c'è consumo poiché la morte prelude alla rigenerazione, e ogni cosa è dunque riciclo, all'età della ragione, desacralizzata, dove la morte prende il suo aspetto unicamente distruttivo - e perciò genera qualcosa di inutilizzabile, il rifiuto (in senso materiale e in senso sociale e allegorico). Ma una società del rifiuto è una società dell'assolutamente inutile - cioè del superfluo. Allora, l'unica strada per vincere concettualmente l'ideologia che la permea, quella del consumo e della razionalità, è ricreare l'inconsumabile e le forme dell' irrazionale non compromesse con le (a torto o ragione) destrorse. Rileva Walter Siti: "si pensi al caso dell'aborto; le posizioni che Pasolini sostiene sono le posizioni del PCI contro i radicali, quindi nemmeno tanto scandalose. Però ne parla con questa tinta dell'omosessuale legato all'immagine del ventre materno (...) che naturalmente ne fa tutt'un'altra cosa". (15) Infatti: senza l'alone mistico-creaturale, apodittico e ipercalìttico, il suo discorso sarebbe stato preciso quel che Pasolini non voleva che fosse: "rationally correct", dunque di facile condivisione, sfonda-porte (e culi) golosamente aperti, assimilabile e utilizzabile dalla cerchia intellettuale e politica, e, via via, fino al tàcchesciò e alle pomeridiane. E' l'atteggiamento che don Milani impiegherà - sui generis e per motivi diversi - per non farsi includere: "Se non avessi puntato i piedi a quest'ora sarei un prete da salotto zitto in un cantuccio a sentire le opinioni di decine di imbecilli". (16) E' una strategia di lotta, quella d'er Pàsola, non rimminchionimento nostalgico-senile o peggio caldàne eroto-sadik-diabolik-meprudelakappe'. (17) Non a caso Marco Marchi nel suo scandaglio sulle forme poetiche pasoliniane chiama il Nostro "mistico lucidissimo", dopo averne sottolineato "l'impiego contestativo dell'ubbidienza" (p. 72) - ulteriore caratteristica che lo avvicina al maestro di Barbiana - e aver puntualizzato con l'elaborazione maggiore che si deve al tecnico e docente di cose letterarie, quanto abbiamo appena fatto nostro: "E' la riconfermata fuoriuscita dai codici linguistici mass-mediologici, la sostanziale indisponibilità a mercificare i frutti del proprio acume, stornandoli (...) dagli indirizzi pseudoinformativi e consumistici previsti dal sistema". (p. 71) E ci si potrebbe chiedere quanto il cinema di Ciprì e Maresco - e lo stile "cannibale" più avvertito - non siano anche elementi del corpo culturale che esso corpo avvertano come fagocitante, dunque cercando di non venire da questo inglobato.
Abbiamo molto parlato del "ciclo contadino", della non-morte: ci pare che offra, ora che stiamo per finire, un'occasione ulteriore d'avvicinarsi ad uno dei modi della creatività pasoliniana. Scrive Amelio: "la celebre boutade di Jean Cocteau "il cinema è la morte al lavoro sugli attori" (...) sarà pure una frase ad effetto (...) ma è vero che ogni volta si rinnova sullo schermo il miracolo della resurrezione. (...) La macchina da presa ha catturato una volta per sempre i loro (degli attori, n.d.R.) corpi, e, come una macchina del tempo, ce li riporta intatti a ogni visione". (18) Non v'ha chi non veda che il cinema, che per ogni regista - bravo come lo si voglia - è mestiere o arte, nel caso di Pasolini possiede il valore aggiunto di farsi occasione autentica di ricongiunzione con la struttura arcaica della realtà (d'altronde, in quanto "sogno", è correlato alle strutture arcaiche cerebrali), indi vera "forza del passato". E, se quella "umile" è la realtà, contrapposta all'irreale borghese, ecco che il cinema diviene, anche per questo rispetto,"lingua del reale".
Siamo giunti , dilungandoci, alla fine d'uno dei mille possibili percorsi nell'opera d'un artista ch'ebbe l'ambizione smisurata di misurarsi col Tempo e con lo Spazio. Con una civiltà intera - anzi, due. Con la Storia e con la Preistoria, e con la Nuova Preistoria. Solo questo, lo pone d'una testa sopra i contemporanei - per non dire degli stitici seguenti. Ma non con un'invettiva vogliamo congedarci da lui: ricordando, invece, che fu spensierato tra come lui disperati. E che, se c'è un dio dell'amore, si sia ricordato di lui: e ora lo lasci andare in bicicletta, portando in canna un cenciosetto implume, sulla Tuscolana o sull'Appia come un pazzo arrazzato, verso un futuro aprile, in culo ai borghesi. Free at last, free at last, thanks God (and Marx) free at last.
1) a cura di Pier Marco De Santi e Andrea Mancini. Titivillus Edizioni, Corazzano (Pisa) 2005. Avvertiamo che il diaframma in questione non è un anticoncezionale, siccome contronatura;
2) Con Domenico Pesce, Tomaso Ricordy, Stefano Valoppi. Italia, 1986;
3) La parola "presenza", con un significato affine, è usata dall'Autore parlando di sua madre: "La sua "presenza" fisica, il suo modo di essere, di parlare, la sua discrezione e la sua dolcezza soggiogarono tutta la mia infanzia". In Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 20;
4) a cura di Simone Soriani. Titivillus Edizioni, Corazzano (Pisa) 2005;
5) ben la descrive Luciano Bianciardi ne La vita agra. Nell' edizione Bompiani (Milano 1999) il brano occupa le pp. 148-155;
6) sonetto er cimiterio de la morte. Il transito come passaggio "dallo stesso allo stesso" viene anatomizzato da Mario Perniola nel suo Transiti (Castelvecchi, Roma 1998);
7) il testo curato da Soriani si sofferma ad analizzare anche la produzione successiva dei due performer;
8) per chi non fosse addentro al vernacolo tiberino, sappia che a Roma si indicano come burìni gli abitanti dell'intorno urbano, in particolare dell'Agro e del Frusinate - e, per estensione, i non romani, o (raramente) chi abita nell'Urbe e non vi è nato. La parola vale anche "maleducato, rozzo". In Alì dagli occhi azzurri Pasolini incorpora una storia burìna - e molte dei "cartoni" romaneschi raffigurano i campioni d'umanità che ritroviamo in Cicoria;
9) Edipo buonanima caratterizzò il discorso artistico della Mostra di Venezia '67, testimoniando della rilevanza dell'intuizione pasoliniana, e dunque del suo portato non esclusivamente individuale, ma politico. Ne fa fede il n. 258 (ottobre 1967) della rivista Sipario;
10) ho già discusso questo nel Paradiso, in una "sinagoga" dal titolo Pasolini era frocio per davvero;
11) "Tching // wrote MAKE IT NEW /on his bathtub. / Day by day make it new / cut underbrush/ pile the logs / keep it growing". Così in Ezra Pound;
12) "Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. (...) E' un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato?". In Furio Colombo, Gian Carlo Ferretti, L'ultima intervista di Pasolini, Avagliano, Roma 2005, pp. 59 e 63;
13) curato da Francesca Tuscano, per Cittadella Editrice, Assisi 2005;
14) "L'esperienza (...) ci dice che quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione (...). Il problema si riduce a turbargli l'anima verso i problemi religiosi". Da Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1974, p. 51;
15) ne Il Paradiso degli orchi (cartaceo), anno VI, n. 23, p. 39;
16) Lorenzo Milani Comparetti, Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1998(5) p. 274;
17) Difatti, quando il conte Pasolini vuol parlare un linguaggio malgrado tutto condivisibile, s'affida ai distinguo: "un giovane romano è il cadavere di sé stesso, che vive ancora biologicamente ed è in uno stato di imponderabilità tra gli antichi valori della sua cultura popolare romana e i nuovi valori piccolo borghesi che gli sono stati imposti". Vedi Opera Omnia - Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano 2001, p. 3027;
18) da Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004, p. 229. A p. 201 del medesimo si trova la battuta (da Orphée) nella sua interezza.
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