Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Attualità » Dicono e odono e già son volti

Pagina dei contenuti


ATTUALITA'

Giulio Lascàris

Dicono e odono e già son volti

immagine
Questo bel tomo edito Meltemi (1) tratta un bel tema, profondo, centrale e controverso a sufficienza da generare, comunque, riflessioni mai prive d'interesse: il raporto fra linguaggio e figura, ch'è un aspetto non secondario di diatribe quali natura-cultura o arte-vita. Qui, poi, gli Autori hanno sovente fatto ricorso, per chiarire e sviluppare il portato teorico più vasto, ad "applicazioni tecniche", per così dire: si sono cioè rivolti a casi ben delimitati, a pratiche e usi, come i libretti che insegnano l'arte del vasaio o a costruire modellini di dinosauri mostrano foto e disegni "esplosi" per guidare il neofita o l'appassionato non specialista. Non fingo esempi: Lucia Casellato, nel suo "Come fare cose con le figure" (parafrasi di Austin, ovvio), tratta proprio del momento in cui la funzione comunicativa delle immagini vale quella delle parole, o almeno com'essa è strutturata. Perché l'analogia o talora la corrispondenza tra linguaggio verbale e visivo (affrontata da Claudia Cieri Via con un saggio su Warburg) è essenzialmente concettuale: almeno così suggerisce lo studio sull'apparecchio retorico di certa pittura veneziana della seconda metà del XVI sec. dovuto ad Augusto Gentili. Oltre alla propria "attrezzatura comunicante", la raffigurazione cinquecentesca dispone dei tropi e traslati linguistici, (dalla metafora all'antitesi, dalla sineddoche alla prolessi) per dire quel che deve. Un percorso se non opposto, complementare, di eredità figurale nel significar per verba è preso in considerazione da Massimo Prampolini: e ci viene da lui data la curiosa circostanza per cui è implausibile che la scrittura alfabetica abbia una derivazione iconica, (come ammette invece interessandosi di forme parlate e scritte, Grazia Basile) tranne nel "caso eccezionale" della nostra grafìa. La nostra civiltà dello scrivere si basa sull' astrazione che va dalle forme delle cose alle lettere formanti le parole: ma il medesimo processo astraente, assume ancora Prampolini (e rimandiamo alle considerazioni della Basile) è già nei suoni delle parole. Si darebbe perciò una "somiglianza di famiglia" fra l'immagine, il suono e il vocabolo scritto, modulata dalle differenze del supporto - è l'esempio che Wittgenstein traeva accomunando partitura, incisione su disco, esecuzione in concerto d'un brano musicale.

E, come nella musica, la narratività delle immagini è dovuta a una "temporalità" esplorata da Elena Tavani, partendo da Lessing per giungere a Bacon attraverso Walter Benjamin: un tempo che non solo coinvolge ma chiama in causa lo spazio, per gemellarsi con esso nel momento in cui l'immagine si fa storia.

E qui si apre un contenzioso né di poca importanza né trascurato: una storia è essenzialmente una rappresentazione che ha un rapporto complesso con la realtà, fino a negarla per statuto, essendo finzione. Ma l'immagine e la parola hanno, eccome!, un rapporto, di somiglianza o di veridizione, col reale. Il nucleo di saggi che scrutano "pli selon pli" questa trama, è inaugurato dalla dotta impostazione aristotelica dovuta a Maurizio Di Monte: dopo un lungo e limpido, malgrado la difficoltà della materia, percorso nella selva poco ricreativa della psicologia delle emozioni teorizzata dallo Stagirita, ci viene detto che provare emozioni reali per ciò che appare, fittizio, sulla scena, è legittimo siccome l'emotività non dipende dal possedere credenze su ciò che la provoca - il che, di passo, apre ad una critica dell"identificazione", almeno emotiva, col personaggio.

Vorrei intromettermi in tale esame non per criticarlo nei suoi pilastri teorici - non ne ho facoltà - , ma per esprimere un punto di vista (magari non "estremo" come quello d'una canzone di Madonna) sulla materia: ho l'idea che l'emozione autentica che si prova assistendo ad una rappresentazione falsa, non abbia a che vedere col fittizio della scena, bensì con il vero che essa contiene. Ci turbiamo con Törless per l'autenticità del turbamento, non perché sia dell'allievo, e sia quel turbamento: e restiamo indifferenti o se quella non ci convince, o se abbiamo una personalità che ha appreso a manifestare interesse per l'autentico solo quando ve n'è sociale convenienza. Il problema dunque non sarebbe nel cuore che sente, ma nel cervello che riconosce.

Al "turbamento dinanzi al reale" accenna Giorgio Nisini, a proposito delle tattiche persuasive del neorealismo letterario e cinematografico: tattiche che riposerebbero su un modello comune fatto di consapevolezza di fronte all'irrealtà (l'ultima, tragica, era quella crollata con la cartapesta fascista), l'azione per debellare l'inganno e preservarne la società (l'"impegno"), la necessità estetica d'aderire al reale. Letto in questa prospettiva, l'invito di Zavattini a narrare la realtà come fosse una storia, si rivela urgenza d'accordare parole, cose, immagini all'autentico - l'abbiamo detto prima: a quel che emoziona (il senso), a ciò che il mondo condivide con il teatro (il significato).

Lecito dunque interrogarsi sui modi di tale condivisione: interessantissimo e articolato, riguarda quest'ambito lo scritto di Michele Di Monte (l'altro è Maurizio) che se la prende, con buone ragioni, con il convenzionalismo di Goodman e Foucault, ove si vuole che l'atto percettivo sia condizionato totalmente dalla cognizione. Per i Filosofi citati, e gli altri discussi, non esiste una visione "pura": l'oggetto è "carico di teoria", e dunque noi lo vediamo attraverso gli occhiali della nostra cultura. Ha forte ragione Di Monte a opporre a tale modo di vedere una serrata critica dei suoi fondamenti, mostrandone spesso la debolezza estrema (cfr. pp. 273-286): però non mi convince quando (p. 283-5) confronta un'illustrazione per la Divina Commedia e una scientifica (il soggetto è un uccello esotico, "Steganura paradisea"), entrambe di Jacopo Ligozzi. Fosse vero, sottolinea l'Autore, che gli "schemi culturali" dell'epoca determinavano la visione, si dovrebbero rinvenire sia nel disegno delle "tre fiere" infernali che nel leggiadro ma scientificamente corretto foglio paradisiaco. Viene però da controbattere che Ligozzi possedeva schemi culturali (e di che forza e tradizione) per rappresentare gli animali della selva oscura - anzi, in un certo senso, quelle fiere erano quegli schemi, giacché Dante non era uno zoologo, né in quell'opera faceva zoologia - semmai, medievale segnatura; mentre invece nella nostra cultura niente è dato emblematicamente o in ideale della steganura. Abbandonato dalla cultura, l'occhio orfanello fa quel che può: ritrae al vero. Ed è forse attraverso questi "buchi", che passa la sollecitazione che porta al cambiamento (darwiniano, magari) del paradigma, o della cultura, determinando il passaggio da una teoria (stilistica, filosofica o scientifica): che pervengono infine i tratti che costituirano la nuova fisionomia, il nuovo paio di occhiali che renderà inutile il vecchio, e, in alcuni casi (Tolomeo vs. Copernico) incommensurabile. Il che non inficia l'impraticabilità d'un convenzionalismo puro e duro: ma nemmeno lascia inspiegato perché un nero sia un uomo per altri uomini, e per un membro del Ku Klux Klan no - immagine peraltro tanto falsa quanto carica di emotività.

E nemmeno in punto di "percezione ingenua" l'Autore riesce a convincere del tutto: sostiene (p. 293) che "l'"episteme" (forse) e le parole cambiano, ma la percezione delle cose resta la stessa", ossia che, se per assurdo la "steganura" fosse un tipo di vipera, resterebbe comunque più simile a un passero. Può darsi: ma io non sarei autorizzato a vederla come un uccello, ma come un rettile, esattamente come quando vedo una balena non vedo un pesce, ma un mammifero - vedo una somiglianza là dove i vikinghi del XII sec. (o chi per loro) vedevano un'identità (col merluzzo). Qui si gioca su un doppio livello: il quadro d'un uccello somiglia all'uccello dipinto, e a tutti gli altri uccelli, e ci siamo. Ma quando so che c'è una vipera a forma di volatile, non vedo più un uccello che somiglia a un uccello, dico "toh, guarda quella serpe come somiglia a un passero!". Sono due riconoscimenti ben diversi, e dunque presuppongono due percezioni, anche immediate, diverse - tant'è che se so che i serpenti in genere sono velenosi e i volatili no, davanti alla paradisea-vipera scappo, sto fermo e ammiro nll'occorrenza della paradisea-pennuto. (2) E se mamma mi manda nel bosco a caccia per poter cucinare polenta e osèi, io percepisco ingenuamente il passero solitario, il pettirosso della Madonna e l'uselìn de la comàre e gli sparo, e al serpe pseudoptero no.

Un fenomeno del genere si può rileggere in chiave "naturalistica", considerando l'insetto-foglia: trattasi di un animale che però ha assunto una perfetta conformazione vegetale, così da ingannare i predatori. E difatti li inganna, ché essi come tale lo percepiscono "ingenuamente" (e sono pronto a sostenere che quei pochi che lo beccano nonostante la livrea lo facciano per caso): ma comunque non frega me, che lo percepisco parente dello scarrafone e non lo faccio in insalata, malgrado ricordi molto l'organo d'una pianta e poco una blatta - dello stufato di cicalone thailandese parleremo un'altra volta.

C'è poi un tipo di riconoscimento che si basa sulla "lettura" d'un'immagine proprio come se fosse un testo, e anzi che permette di confrontare sia la dipendenza immagine/parola nell'opera, sia la dipendenza della parola del critico - dell'occhio "carico di teoria" che guarda - dall'immagine: ne parla Luca Bortolotti studiando le vicende del "Seminatore" di Jacopo Bassano. Dapprima considerato semplice scena pastorale, in seguito viene classificato come illustrazione della parabola evangelica del grano che dà buon frutto (quella di Gide in Si le grain ne meurt): e ciò analizzando i modi in cui il pittore è stato "fedele al testo" (come lo si potrebbe essere in una traduzione da lingua a lingua), e quanto sia riuscito a convogliare l'attenzione degli osservatori su particolari che costituissero gli snodi assieme della pittura e del racconto. Penso sia questo il saggio dove la questione che intitola il volume renda più corpo in quanto tale.

A coronare il dibattito, Massimo Carboni ci avvisa che esiste almeno un luogo ove un linguaggio si fa immagine: la computer graphics, nei cui pixel si ricompattano visibile e dicibile, o meglio l'informazione "logicale" espressa in stringhe di simboli si manifesta come informazione appetibile dall'occhio. Mai come altrove, il senso (significato, informazione) diviene immediatamente sensuale. Il che rilancia la possibilità del processo inverso, del senso prodotto sensualmente (Barthes) - è quel che accadenegli strumenti d'indagine o diagnostici: un'azione fisicacome l'attraversamento d'un raggio "luminoso" della soluzione posta nella cella di uno spettrofotometro genera un dato o un grafo (ad es. curva di un "plotter"), cioè una scrittura. E il cinematografo, non è "scrivere il moto" con la luce? In un certo senso, anche il "colorpiano" (3) di Scriabijn realizzava il trapasso d'informazione suddetto, materializzandolo come sinestesia. E Carboni, ricordando l'"ekphrasis" longhiana dei paesaggi acri di Cosmè Tura, irta di gutturali, ne parla come di pagine colme di "suggestioni di corréspondances sinestesiche che, prendendo preliminarmente atto dell'irriducibilità del visivo al verbale, recuperano un elemento comune ai due registri che possa garantire il passaggio analogico espressivo (ma anche intrinsecamente critico conoscitivo)". (p. 312)

Così, nelle linee che mi son parse principali, ho concluso il sommario del testo e la sua notizia. Mi rimane di sottolineare come, da esso, mi rimanga la convinzione che il legame tra figurazione e discorso stia in quell' "autentico" al quale si accennava pocanzi: ch'è come il germe d'un cristallo, e organizza con la sua cella originale l'immagine che dice, la parola che disegna. Per questa, abbiamo l'esempio alto di Carlo Emilio Gadda, che ritraeva la baroccaggine del mondo col barocco della scrittura. Per l'altra , chi credeva di non poter più rifare i suoi primi film, perché le facce dell'umanità erano cambiate - e persino i capelli dicevano cose nemiche.

Entrambi, ci insegnavano "il come" credere ai nostri occhi, "il come" credere alle nostre orecchie.



1)Maria Giuseppina Di Monte (a cura di), Immagine e scrittura, Meltemi Roma 2006;

2)per amore di brevità non considero tutte le implicazioni che potrebbero aversi considerando che gli uccelli discendono dai rettili;

3)strumento che, tramite un apparato elettromeccanico, proiettava sur uno schermo luci colorate, le cui frequenze erano in rapporto matematico-analogico con le frequenze sonore. Se non erro, il musicista lo progettò per usarlo nell'esecuzione in concerto del suo "Poema paradisiaco". Curiosità: tra i precursori di un apparecchio siffatto, c'era un progetto del pittore Arcimboldi.







CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube