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Il Paradiso degli Orchi
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Pier Paolo Di Mino

La megalomania, o di una prospettiva letteraria.

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Quando si afferma che una casa editrice può esimersi dal pubblicare letteratura, che in fondo è un concetto effimero e non catalogabile, e si aggiunge che chi, come Giulio Einaudi, elaborando un piano culturale che accordava certa preminenza proprio alla produzione di storie forti, altro non dava che segni di megalomania, si è detto qualcosa che non si può, o forse non si deve approvare, ma su cui vale la pena di riflettere, non fosse altro che perché rappresenta uno stato di fatto: in Italia, negli ultimi trenta anni, si è diffusa una certa tendenza a non produrre e consumare queste storie forti, a non elaborare e godere di metafore essenziali: a non fare, appunto, letteratura. Si potrebbero prendere anche in considerazione notevoli eccezioni, per esempio quelle esplorazioni delle gelide e morbose regioni dello spirito in cui ci porta per mano Evangelisti nella sua lunga chiosa all'ultimo canto dell'inferno dantesco; oppure la rappresentazione radicale dell'uomo nella suo incerto e allucinato cammino nel nulla così come Ferrandino lo ha immaginato. Salta all'occhio, però, che due scrittori o poco più, non fanno sistema. Allo stesso modo, salta all'occhio che, se il nostro uomo di cultura ha goduto per decenni di una solida fama di trombone, ora adegua la sua immagine personale con i contenuti della sua produzione: Tarantino può tranquillamente stimmatizzare la tipica storia italiana come quella, noiosa, di trentenni ricchi che piangono senza motivo; e va di lusso quando accendiamo, se non la fantasia, almeno la curiosità dei francesi rivelandogli, grazie a Saviano, che la Colombia è nel cuore d'Europa. Va bene, qualcuno anche a casa nostra si lamenta, preso, con evidenza, da qualche amore di patria. Ma parliamo di un uomo del valore stravagante come Claudio Magris, che in un articolo del 10 gennaio 2010 apparso sul Corriere della Sera, ripercorre la stagione che va dalla Seconda Repubblica Romana fino all'impresa fiumana: la stagione di quelle speranze spirituali e culturali in un Italia destinata, a quanto pare, a non nascere mai. Il tema è più o meno quello del gobettiano risorgimento senza eroi, un risorgimento che potrebbe prima o poi trovarli questi eroi, rinunciando, dice Magris, a un uso politico della storia. Forse addirittura alla storia stessa. Non si tratta solo dell'idea, che in sé per sé già sarebbe una ventata d'aria fresca, di una nuova letteratura patriottica, ma di un vero invito a fare mito. Se ancora oggi cerchiamo di riconoscerci nella cultura greca è perché quella cultura ha elaborato, da un probabile fatto storico elevato a fatto cosmogonico, due mitologemi essenziali, quello del puer tragico, Achille, e quello dell'uomo preso dall'anima, Odisseo. I due miti rappresentano mondi opposti e sempre vicini: insieme fanno l'uomo. Sono prototipi essenziali, e di questi, osserva Borges, se ne danno pochi nella natura umana. Sono quelli su cui lavora lo scrittore.

Ma se uno scrittore rinuncia all'elaborazione metaforica, abdica al dovere della fantasia mitologica, certo si deve essere posto sotto un'altra fantasia. Non è impossibile congetturare quale. Nella sua siderale distanza dalle realtà essenziali e prototipiche, questa deve collocarsi sotto un segno ideologico: al contrario della rappresentazione di una realtà fondamentale, ora, lo scrittore si impegna ad immaginare una realtà come dovrebbe essere, un'interpretazione che, in quanto tale, costituisce un distacco dalla realtà stessa. Siamo nel campo morboso della verità, dove, da etimo, le cose sono credute tale per atto di fede. La verità può essere creduta come assoluta, come relativa, e perfino negata così da poter affermare che se non esiste la verità, neanche questa proposizione è vera, e quindi la verità, in qualche modo esiste. Avete presente la storia del paranoico convinto di essere morto? Il medico gli chiede: "forse i morti sanguinano?", e lo punge con uno spillo, "Toh," fa il paranoico, " i morti sanguinano". Questa fantasia ideologica fa da filo rosso nell'incantato percorso che lega la nevrosi e la psicosi, e nutre una letteratura che si esprime, non importa se nell'abbondante produzione di storie vissute e cronache di malaffare, comode evasioni in altri mondi o polpettoni storici, attraverso lo sciorinamento delle proprie opinioni, nella fede nel proprio vissuto, nell'elencazione dei fatti e delle idee: nella fede in quello che si può pensare su una realtà data come oggetto clinico distante, piuttosto che nella rappresentazione di ciò che essenzialmente è. Sarebbero da rileggere certe considerazioni di Imre Kertész che si è sempre rifiutato di considerare il suo racconto sulla deportazione nei lager nazisti, realmente avvenuta, come autobiografica o come storica solo perché descritta minuziosamente con fatti a lui accorsi: la sua materia è la lingua, e questo fa sì che la sua storia parla meno di se stesso che della condizione di perdita del senso sempre aperta nella vita di ogni uomo. È un sentimento della letteratura tenace, che troviamo in Bolaño, in Benjamin, in tutti quegli scrittori che, quando siedono al tavolino, sono, almeno in maniera interinale, liberi da qualsiasi fede nella realtà come sistema.

Certo questa liberazione deve avvenire in virtù di un certo dono di megalomania.





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