ATTUALITA'
Stefano Torossi
Azzardiamo un parallelo.
27 aprile, prima giornata veramente balsamica della stagione. Si inaugura a Villa Adriana a Tivoli la mostra "Antinoo, il fascino della bellezza". Andiamo. Su due ruote naturalmente, ma la via Tiburtina è un inferno. Traffico congestionato in cui si intrecciano i camion carichi di travertino delle cave e i malati immaginari che vanno alle sorgenti solforose delle Acque Albule. Arrivati alla zona archeologica, hanno cambiato la viabilità, con molte direzioni vietate e ovviamente nessuna indicazione precisa, quindi ci si perde un po' nei viottoli della borgata circostante, ma insomma, poi si arriva. Molti bus zeppi di scolaresche, il cui divertimento in queste occasioni sembra essere principalmente urlare e darsi spintoni. Non vogliamo fare i brontoloni, ma ci colpisce anche il contrasto fra la bellezza solenne delle rovine dove camminiamo e l'orribile panorama di edilizia povera e insensata che ci si affaccia di fronte dal colle di Tivoli. Le robinie sono fiorite e profumano, gli uccellini cinguettano, l'unico bar accanto alla biglietteria naturalmente é chiuso e i bagni del ristorante di fronte, è ovvio, sono in manutenzione da più di un anno. Si tratta della abituale noncuranza italiana per l'arte, che fa dire agli stranieri il solito "Molto pitoresko!"
Perché i posti sono talmente belli che inefficienze e conseguenti indignazioni sembrano perfino esagerate. Ah, c'è da aggiungere che nel trionfalistico annuncio della mostra che stiamo andando a vedere era inserita anche la promessa di un nuovo itinerario di visita alla tomba-tempio del giovane favorito. Che naturalmente risulta inaccessibile. A proposito di serietà, avete notato quanto stupore (e quante risatine, anche) provoca in qualsiasi straniero la nostra diffidenza, sacrosanta, di italiani per tutto ciò che è pubblico. Gli orologi per strada. Ce ne fossero due che segnano la stessa ora. Che comunque sarebbe sbagliata. Le paline elettroniche alle fermate dei mezzi. Corse ipotetiche, frequenze facoltative. Come la puntualità dei treni, degli aerei, degli eventi, e comunque tutto quello che dovrebbe rappresentare la civile comunicazione fra il pubblico e il privato.
La mostra è costruita su Antinoo, il grande amore dell'imperatore Adriano. Ritratto come Osi-ride, come efebo, come Apollo, e sempre bellissimo e giovane e puro. Bronzi, marmi, cammei. L'arte di questi ritratti raggiunge livelli talmente stratosferici che dopo duemila anni ci lascia basiti dall'assoluta emozione. Che dolore immaginare l'indigestione di bellezza che dovevano provocare i tanti capolavori della villa. Tutto saccheggiato; nel medio evo solo qualche frammento a caso per costruirci catapecchie e stalle. Di altro i poveri pastori della zona non avevano bisogno. Ma dal rinascimento in poi, complici gli ordini religiosi proprietari dei terreni, la chiesa ha sbranato quel luogo di magia per riutilizzare marmi, statue, perfino mattoni, e il resto se l'è venduto al migliore offerente. Solo una cosa buona hanno lasciato: centinaia di ulivi. Tronchi che hanno quattrocento anni. Sono alberi lenti, ma se gli diamo una crescita di almeno un centimetro l'anno, fanno quattro metri di circonferenza. Monumenti.
Certo, venti secoli fa erano tempi diversi; le donne, anzi le mogli, specialmente a quelle altezze sociali non erano altro che clausole di contratti. Nessun coinvolgimento amoroso. L'ambivalenza sessuale era assolutamente normale, e qualunque uomo di una qualche importanza aveva oltre alla moglie anche il ragazzo. Ma che un imperatore arrivasse a piangere "come una donnicciola" la morte del suo amatissimo giovane schiavo, e a fargli costruire templi, statue, addirittura divinizzarlo, questo dev'essere stato un bello scandalo. Non tanto, appunto, per l'omosessualità, per la passione, per l'impazzimento, quanto per il fatto che l'uomo più potente del mondo anteponesse al ruolo politico il capriccio per un ragazzino.
Saltiamo i duemila anni e abbassiamo il livello. Di molto. Azzardiamo un parallelo fra il divino Antinoo e una certa Ruby Rubacuori. Anche qui, sempre con le dovute proporzioni, abbiamo un riccone, vittima di sé stesso che mette a rischio la faccia (e alla fine, non essendo un imperatore romano, la perde) per una poveraccia, che naturalmente non ha colpa di essere oggetto di cupidigia. Bugie, abusi, improntitudine; nessun rispetto per la dignità, sua e del suo ruolo.
Forse noi siamo fissati sul concetto di stile, che ci pare un elemento indispensabile per dare dignità alle nostre azioni. Sarà, ma riconosceteci che proprio da questo nostro parallelo azzardato emerge l'abisso che separa i marmi meravigliosi che raccontano la favola di Antinoo, dalle foto in discoteca che nutrono il gossip sulla mezzacalzetta. Questa è la squallida differenza.
Perché i posti sono talmente belli che inefficienze e conseguenti indignazioni sembrano perfino esagerate. Ah, c'è da aggiungere che nel trionfalistico annuncio della mostra che stiamo andando a vedere era inserita anche la promessa di un nuovo itinerario di visita alla tomba-tempio del giovane favorito. Che naturalmente risulta inaccessibile. A proposito di serietà, avete notato quanto stupore (e quante risatine, anche) provoca in qualsiasi straniero la nostra diffidenza, sacrosanta, di italiani per tutto ciò che è pubblico. Gli orologi per strada. Ce ne fossero due che segnano la stessa ora. Che comunque sarebbe sbagliata. Le paline elettroniche alle fermate dei mezzi. Corse ipotetiche, frequenze facoltative. Come la puntualità dei treni, degli aerei, degli eventi, e comunque tutto quello che dovrebbe rappresentare la civile comunicazione fra il pubblico e il privato.
La mostra è costruita su Antinoo, il grande amore dell'imperatore Adriano. Ritratto come Osi-ride, come efebo, come Apollo, e sempre bellissimo e giovane e puro. Bronzi, marmi, cammei. L'arte di questi ritratti raggiunge livelli talmente stratosferici che dopo duemila anni ci lascia basiti dall'assoluta emozione. Che dolore immaginare l'indigestione di bellezza che dovevano provocare i tanti capolavori della villa. Tutto saccheggiato; nel medio evo solo qualche frammento a caso per costruirci catapecchie e stalle. Di altro i poveri pastori della zona non avevano bisogno. Ma dal rinascimento in poi, complici gli ordini religiosi proprietari dei terreni, la chiesa ha sbranato quel luogo di magia per riutilizzare marmi, statue, perfino mattoni, e il resto se l'è venduto al migliore offerente. Solo una cosa buona hanno lasciato: centinaia di ulivi. Tronchi che hanno quattrocento anni. Sono alberi lenti, ma se gli diamo una crescita di almeno un centimetro l'anno, fanno quattro metri di circonferenza. Monumenti.
Certo, venti secoli fa erano tempi diversi; le donne, anzi le mogli, specialmente a quelle altezze sociali non erano altro che clausole di contratti. Nessun coinvolgimento amoroso. L'ambivalenza sessuale era assolutamente normale, e qualunque uomo di una qualche importanza aveva oltre alla moglie anche il ragazzo. Ma che un imperatore arrivasse a piangere "come una donnicciola" la morte del suo amatissimo giovane schiavo, e a fargli costruire templi, statue, addirittura divinizzarlo, questo dev'essere stato un bello scandalo. Non tanto, appunto, per l'omosessualità, per la passione, per l'impazzimento, quanto per il fatto che l'uomo più potente del mondo anteponesse al ruolo politico il capriccio per un ragazzino.
Saltiamo i duemila anni e abbassiamo il livello. Di molto. Azzardiamo un parallelo fra il divino Antinoo e una certa Ruby Rubacuori. Anche qui, sempre con le dovute proporzioni, abbiamo un riccone, vittima di sé stesso che mette a rischio la faccia (e alla fine, non essendo un imperatore romano, la perde) per una poveraccia, che naturalmente non ha colpa di essere oggetto di cupidigia. Bugie, abusi, improntitudine; nessun rispetto per la dignità, sua e del suo ruolo.
Forse noi siamo fissati sul concetto di stile, che ci pare un elemento indispensabile per dare dignità alle nostre azioni. Sarà, ma riconosceteci che proprio da questo nostro parallelo azzardato emerge l'abisso che separa i marmi meravigliosi che raccontano la favola di Antinoo, dalle foto in discoteca che nutrono il gossip sulla mezzacalzetta. Questa è la squallida differenza.
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