ATTUALITA'
Adriano Angelini
'Brotherhood'. Quando trionfa un'estetica non gay.
Il film che ha vinto la 4 Edizione del Festival del Film di Roma, Brotherhood, è, a parere di chi scrive, una bellissima e intensa storia, recitata magistralmente da attori poco conosciuti e diretta da un regista danese esordiente, Nicolo Donato (che di italiano ha solo il nome e le origini della mamma) che si è espresso (per immagini e pathos raggiunto) quasi ai livelli dell'altro più celebre film omo-erotico di successo degli ultimi tempi, I segreti di Brokeback Mountain.
E' un film che è piaciuto sicuramente per l'intensità e la drammaticità della storia. Per questa anomalia venuta alla luce (e che pian piano sta venendo fuori anche nella realtà di tutti i giorni con cui i gruppi di estrema destra dovranno confrontarsi) di persone con inclinazioni omosessuali che militano dentro formazioni politiche che, in teoria, gli omosessuali non li accettano per pregiudizio. Ma è un film in cui colpisce, a un livello inconscio sicuramente, anche un'immagine diversa del 'diverso'. Parlo appositamente di omosessuali e non di gay perché il film, al di là della storia, è una sorta di trionfo di un'estetica e di un modus comportamentale agli antipodi con la cultura dominante fra i gay. Qui, in azione ci sono due maschi, non due maschi che si comportano da femmine. Qui non ci sono muscoli pompati, vocine tenui e occhioni da cerbiatte che cozzano straordinariamente fra loro e rendono la stragrande maggioranza dei gay classici una parodia del maschio. Qui ci sono fisici 'normali', muscolatura leggera e definita ma naturale, piccole imperfezioni (o grandi, come gli incisivi del protagonista, Thore Lindhart, che sembrano finestre spalancate sul vuoto della bocca), crani rasati che definiscono la scultura della testa (il militante coprotagonista David Dencik) e non si atteggiano a icona sterotipata da Castro Street (o da gay Village); qui ci sono stili di vita incentrati sul lavoro manuale (e non i soliti gay 'impegnati' o, peggio, scintillanti nel mondo della moda o della tv); qui ci sono persone che, pur nella non condivisibile scelta politica, non cercano di mettersi in mostra per un capriccio narcisistico ma a disposizione di una comunità in cui tentano di crescere mettendosi in gioco. Anche il ragazzo omosessuale che all'inizio del film viene adescato e picchiato dal branco di naziskin è parte di un mondo 'normale' (è bruttino, maschile e si verrà a sapere che fa il cassiere in un supermercato). Brotherhood ha il merito, con la sua trama, non solo di far scoppiare le contraddizioni esistenti all'interno dei gruppi della cosiddetta destra estrema (eccezionale il discorso di Lars/Thore al capo del gruppo nazista sull'omosessualità del comandante delle SA hitleriane Ernst Rohm) ma anche, tramite appunto la sua estetica iper virile, le contraddizioni all'interno di un mondo gay (di una comunità gay mondiale) che, non si sa per quale motivo, è dominata, appunto, da parodie del maschio (o della femmina, ma in quest'ultimo caso vanno bene perché fanno salire gli ascolti a Buona Domenica).
Notizia dell'ultima ora è che, prima della vittoria, il film non era stato acquistato da nessuno. Poi, fortunatamente, ci ha pensato Andrea Occhipinti con la sua Lucky Red, e, speriamo, anche il pubblico italiano potrà vederlo in sala. Perderlo sarebbe stato un vero peccato. La storia, lo ripetiamo, è sì importante (del resto, le storie di amori controversi e proibiti riusciranno sempre ad attirare l'immaginario collettivo) ma più importante sono l'occhio che la inquadra e il contesto in cui si svolge. Una Danimarca fredda, una casa in riva al mare, anonime periferie del nord Europa. Corpi tatuati da aquile, croci celtiche, numeri 88, svastiche. In questo muro di pietra, in mezzo a tutta questa durezza apparente, l'amore dei due si ritaglia uno spazio che fa implodere prima (ed esplodere poi) i contrasti: nelle famiglie, nelle istituzioni, fra i gruppi, fra le persone. E' bene che vengano fuori, che se ne discuta. Il nuovo mondo possibile ha bisogno di inclusione. Non di eterne, ormai non più accettabili, contrapposizioni. Brotherhood non è una provocazione, né il solito cinepanettone sulla tolleranza. Brotherhood fa male perché ci chiede di accettare e rispettare, a trecentosessanta gradi. L'alternativa è di sterminare e annientare. Per evitare quest'ultima sciagura, l'unica arma a disposizione che abbiamo è l'amore.
E' un film che è piaciuto sicuramente per l'intensità e la drammaticità della storia. Per questa anomalia venuta alla luce (e che pian piano sta venendo fuori anche nella realtà di tutti i giorni con cui i gruppi di estrema destra dovranno confrontarsi) di persone con inclinazioni omosessuali che militano dentro formazioni politiche che, in teoria, gli omosessuali non li accettano per pregiudizio. Ma è un film in cui colpisce, a un livello inconscio sicuramente, anche un'immagine diversa del 'diverso'. Parlo appositamente di omosessuali e non di gay perché il film, al di là della storia, è una sorta di trionfo di un'estetica e di un modus comportamentale agli antipodi con la cultura dominante fra i gay. Qui, in azione ci sono due maschi, non due maschi che si comportano da femmine. Qui non ci sono muscoli pompati, vocine tenui e occhioni da cerbiatte che cozzano straordinariamente fra loro e rendono la stragrande maggioranza dei gay classici una parodia del maschio. Qui ci sono fisici 'normali', muscolatura leggera e definita ma naturale, piccole imperfezioni (o grandi, come gli incisivi del protagonista, Thore Lindhart, che sembrano finestre spalancate sul vuoto della bocca), crani rasati che definiscono la scultura della testa (il militante coprotagonista David Dencik) e non si atteggiano a icona sterotipata da Castro Street (o da gay Village); qui ci sono stili di vita incentrati sul lavoro manuale (e non i soliti gay 'impegnati' o, peggio, scintillanti nel mondo della moda o della tv); qui ci sono persone che, pur nella non condivisibile scelta politica, non cercano di mettersi in mostra per un capriccio narcisistico ma a disposizione di una comunità in cui tentano di crescere mettendosi in gioco. Anche il ragazzo omosessuale che all'inizio del film viene adescato e picchiato dal branco di naziskin è parte di un mondo 'normale' (è bruttino, maschile e si verrà a sapere che fa il cassiere in un supermercato). Brotherhood ha il merito, con la sua trama, non solo di far scoppiare le contraddizioni esistenti all'interno dei gruppi della cosiddetta destra estrema (eccezionale il discorso di Lars/Thore al capo del gruppo nazista sull'omosessualità del comandante delle SA hitleriane Ernst Rohm) ma anche, tramite appunto la sua estetica iper virile, le contraddizioni all'interno di un mondo gay (di una comunità gay mondiale) che, non si sa per quale motivo, è dominata, appunto, da parodie del maschio (o della femmina, ma in quest'ultimo caso vanno bene perché fanno salire gli ascolti a Buona Domenica).
Notizia dell'ultima ora è che, prima della vittoria, il film non era stato acquistato da nessuno. Poi, fortunatamente, ci ha pensato Andrea Occhipinti con la sua Lucky Red, e, speriamo, anche il pubblico italiano potrà vederlo in sala. Perderlo sarebbe stato un vero peccato. La storia, lo ripetiamo, è sì importante (del resto, le storie di amori controversi e proibiti riusciranno sempre ad attirare l'immaginario collettivo) ma più importante sono l'occhio che la inquadra e il contesto in cui si svolge. Una Danimarca fredda, una casa in riva al mare, anonime periferie del nord Europa. Corpi tatuati da aquile, croci celtiche, numeri 88, svastiche. In questo muro di pietra, in mezzo a tutta questa durezza apparente, l'amore dei due si ritaglia uno spazio che fa implodere prima (ed esplodere poi) i contrasti: nelle famiglie, nelle istituzioni, fra i gruppi, fra le persone. E' bene che vengano fuori, che se ne discuta. Il nuovo mondo possibile ha bisogno di inclusione. Non di eterne, ormai non più accettabili, contrapposizioni. Brotherhood non è una provocazione, né il solito cinepanettone sulla tolleranza. Brotherhood fa male perché ci chiede di accettare e rispettare, a trecentosessanta gradi. L'alternativa è di sterminare e annientare. Per evitare quest'ultima sciagura, l'unica arma a disposizione che abbiamo è l'amore.
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