ATTUALITA'
Pier Paolo Di Mino
Ci vorrebbe una letteratura popolare.
Ci vorrebbe una letteratura popolare: ma chiunque potrebbe obiettare che, prima, bisognerebbe inventarsi un popolo.
L'obiezione sembrerebbe valida, perché, in effetti, è evidente, che, oggi più che mai, nessuno di noi si sognerebbe di sentirsi uno del popolo: questo, di fatto, perché viviamo piuttosto nella condizione di pubblico.
Non è fuori da ogni congettura operare validamente questa distinzione fra popolo e pubblico.
Gli individui che si riconoscono in un popolo tendono ad aderire a un racconto collettivo, ampio e instabile come si addice a una certa religione istintiva e profonda della civiltà. Insomma, il loro essere persone sociali, ossia uomini, passa necessariamente attraverso una sofisticata e naturale elaborazione culturale, viva in un dialogo costante con gli altri, e che ha ampio corso in una tradizione.
Un pubblico, diversamente, non ha bisogno di nessuna tradizione, di nessun dialogo, di nessuna elaborazione culturale, né sofisticata né naturale. Il pubblico ha bisogno di una teologia che si riduca, in maniera sostanzialmente stabile, al dogma del consumo e dello sfogo di sentimenti e opinioni. Sentimenti ed opinioni che vanno, in un gioco di sponda fra determinismo e caso, di volta in volta gestiti e imposti. La figura preposta a questo servizio, largamente inteso nelle sue diverse applicazioni tecniche, è una sorta di addetto stampa, di pubblicista, che ha sostituito la figura del narratore, del poeta, del musicista, dell'artista, e via declinando. Insomma, un tecnico esperto di mode, gusti, share. È un mestiere questo, che pur nello squallore del suo monotono commercio quotidiano, mantiene gli aspetti di una vivace messa in opera della creatività: intercettare i gusti è, di fatto, un aspetto minoritario (quasi uno scacco) del più importante lavoro di crearli e imporli.
Lo sviluppo di questa creatività, e dei mezzi per dispiegarla (i potenti mezzi di corruzione delle coscienze libere contro i quali ci avvertiva Sandro Pertini) è, del resto, il reale oggetto della nostra storia sociale e politica. E affonda in radici relativamente lontane.
Una figura di questo genere; la riduzione della poesia a pubblicità, della letteratura e dell'arte a pubblicistica; insomma, del popolo a pubblico, non sarebbe, infatti, pensabile prima dell'ascesa della borghesia. Per arrivare dal dialogo platonico all'intervista sul quotidiano, è stato necessario instaurare una visione della realtà ascetica e concretistica in cui ogni cosa può e deve essere ricondotta molto meno alla sua idea che al suo costo. La letteratura, mettiamo con un Daniel Defoe (un bel caso di psicopatologia: morto giurando, in nome della realtà dei fatti e della deontologia giornalistica, che Robinson Crusoe era esistito realmente), diventa la descrizione della realtà così come piace a dei committenti che sulla realtà concreta, e sul suo sfruttamento, hanno fondato il loro successo. Defoe scrive per un pubblico: aderisce a una nascente teologia. La natura di questa teologia la indovina molto più in là Stevenson, in America, dove, pur di non aderirvi, rifiuta grossi compensi in denaro dagli editori. Ma Stevenson, appunto, è un narratore popolare, come Dostoevskij o Conrad: muovono grandi storie, e le muovono per masse concettuali, sintattiche; sforzano figure e parole a beneficio dell'immaginazione dei loro lettori. Un lavoro differente da chi deve soddisfare l'esigenza di un pubblico che, non so, ha l'esigenza di conoscere come vivono i poveri (e troviamo uno Zola che ci ha spiegato che vivono così male da diventare, talvolta, cattivi); o come si stava nelle altre epoche (la caterva di romanzi storici scritti da pornografi della documentazione e costumisti falliti); o che ha l'esigenza di sentirsi migliore e più arcano (e vai con i decadenti e i simbolisti); più buono (Tolstoj lo hanno inventato per questa bisogna). Lo scrittore ora serve a fornire trame, cronache, ideologie: manuali per ogni evenienza. E qui in Italia, dove si fa sempre avanguardia, troviamo un De Amicis che ci erudisce sul fatto che il suo mestiere (così scriveva a Treves) consiste nello spremere il cuore ai giovani italiani: a quei giovani italiani che, educati alla solidarietà fra classi sulle pagine di Cuore, avrebbero dato vita al fascismo. Ed è sempre in Italia che, con sdegnosa reazione a D'Annunzio, che restaurava una lingua antica per farla diventare una moderna lingua di popolo, che un Gozzano dichiarava obsoleta la poesia, e, quindi, i futuristi si davano a intonare i rumori della nascente modernità, del suo totalitarismo. Il poeta e il narratore non servono più: abbiamo lo scrittore (uno che scrive), un addetto alla diffusione dei gusti e delle idee in un mercato ben sezionato, in cui il pubblico può trovare i più disparati oggetti per la soddisfazione della sua esigenza di essere pubblico. Oggi come oggi, per fare un esempio: dai romanzi rosa di un Moccia (per chi ha bisogno di scoprire i veri sentimenti) al chiacchiericcio post-mistico di un Milo De Angelis (per chi deve accordare la propria intelligenza a certo bon ton da upper class).
Detto questo, allora, si potrebbe dire che ci vorrebbe una letteratura popolare, proprio per avere un popolo; per potersi riconoscere in una collettività civile; per possedere una tradizione e una cultura attraverso la quale diventare individui liberi e coscienti. Parliamo di popolo, sia chiaro, solo in questo senso, come una collettività di individui; un dialogo costante fra uomini: qualcuno potrebbe indovinarvi la suggestione di coniugare Platone e la democrazia. E sia.
Detto questo, procediamo.
Ora, se per fare un popolo, ci vuole una letteratura popolare, quest'ultima ha la necessità evidente di essere eseguita da narratori e poeti popolari. O meglio: da poeti punto e basta. Da qualcuno che si adoperi in un'azione essenziale, quale è appunto la poesia.
Abbiamo bisogno di qualcosa che smetta di distrarci, che ci riporti vigili alle nostre vite: abbiamo bisogno di essere nutriti nella nostra immaginazione per acquistare il peso appropriato, necessario a mettere i piedi ben piantati a terra. Abbiamo bisogno, tipo, dei dialoghi ben pettinati di Platone, di cui tutta la nostra civiltà è una chiosa: poesia, essenziale per scoprire che, malgrado ogni nostro possibile accumulo, siamo poveri, e questa povertà è il gran bene che ci stimola alla filosofia. Abbiamo bisogno di tutte le grandi storie capaci di guidarci nella vita con coraggio: da Omero a Virgilio. E delle storie in cui agiscono le grandi iniziazioni ai manifesti segreti della vita: da Apuleio a Dante, fino a Melville. Abbiamo bisogno, nel tramestio dei nostri fantasiosi affanni quotidiani congegnati apposta per un lettino psicanalitico, di scoprire di nuovo che la vita è un racconto, e non saperla raccontare porta alla morte: per questo ci servono le Mille e una notte, Boccaccio e Potocki. Ci servono Conrad, Stevenson, Dostoevskij, la Morante, Morselli, Bolaño, Ferrandino, ma, finiamola qui con i cataloghi: ci serve qualcosa di grande.
Immagino che questo qualcosa si prepari.
Magari molti, stanchi del tran tran coscienzioso dei reading; delle scommesse imprecazioni speranze rancori da Premio Strega; dello zelo impiegatizio speso sui rendiconti delle vendite e i messaggi di google alert; delle presentazioncine nel posto adeguato; dei salottini del madonnavrolescarpebuone; della scalata al successo su facebook; di questa pena quotidiana per i cinque minuti di successo, cara buona cosa di cattivo gusto; magari tantissimi, questo qualcosa di grande già lo preparano.
L'obiezione sembrerebbe valida, perché, in effetti, è evidente, che, oggi più che mai, nessuno di noi si sognerebbe di sentirsi uno del popolo: questo, di fatto, perché viviamo piuttosto nella condizione di pubblico.
Non è fuori da ogni congettura operare validamente questa distinzione fra popolo e pubblico.
Gli individui che si riconoscono in un popolo tendono ad aderire a un racconto collettivo, ampio e instabile come si addice a una certa religione istintiva e profonda della civiltà. Insomma, il loro essere persone sociali, ossia uomini, passa necessariamente attraverso una sofisticata e naturale elaborazione culturale, viva in un dialogo costante con gli altri, e che ha ampio corso in una tradizione.
Un pubblico, diversamente, non ha bisogno di nessuna tradizione, di nessun dialogo, di nessuna elaborazione culturale, né sofisticata né naturale. Il pubblico ha bisogno di una teologia che si riduca, in maniera sostanzialmente stabile, al dogma del consumo e dello sfogo di sentimenti e opinioni. Sentimenti ed opinioni che vanno, in un gioco di sponda fra determinismo e caso, di volta in volta gestiti e imposti. La figura preposta a questo servizio, largamente inteso nelle sue diverse applicazioni tecniche, è una sorta di addetto stampa, di pubblicista, che ha sostituito la figura del narratore, del poeta, del musicista, dell'artista, e via declinando. Insomma, un tecnico esperto di mode, gusti, share. È un mestiere questo, che pur nello squallore del suo monotono commercio quotidiano, mantiene gli aspetti di una vivace messa in opera della creatività: intercettare i gusti è, di fatto, un aspetto minoritario (quasi uno scacco) del più importante lavoro di crearli e imporli.
Lo sviluppo di questa creatività, e dei mezzi per dispiegarla (i potenti mezzi di corruzione delle coscienze libere contro i quali ci avvertiva Sandro Pertini) è, del resto, il reale oggetto della nostra storia sociale e politica. E affonda in radici relativamente lontane.
Una figura di questo genere; la riduzione della poesia a pubblicità, della letteratura e dell'arte a pubblicistica; insomma, del popolo a pubblico, non sarebbe, infatti, pensabile prima dell'ascesa della borghesia. Per arrivare dal dialogo platonico all'intervista sul quotidiano, è stato necessario instaurare una visione della realtà ascetica e concretistica in cui ogni cosa può e deve essere ricondotta molto meno alla sua idea che al suo costo. La letteratura, mettiamo con un Daniel Defoe (un bel caso di psicopatologia: morto giurando, in nome della realtà dei fatti e della deontologia giornalistica, che Robinson Crusoe era esistito realmente), diventa la descrizione della realtà così come piace a dei committenti che sulla realtà concreta, e sul suo sfruttamento, hanno fondato il loro successo. Defoe scrive per un pubblico: aderisce a una nascente teologia. La natura di questa teologia la indovina molto più in là Stevenson, in America, dove, pur di non aderirvi, rifiuta grossi compensi in denaro dagli editori. Ma Stevenson, appunto, è un narratore popolare, come Dostoevskij o Conrad: muovono grandi storie, e le muovono per masse concettuali, sintattiche; sforzano figure e parole a beneficio dell'immaginazione dei loro lettori. Un lavoro differente da chi deve soddisfare l'esigenza di un pubblico che, non so, ha l'esigenza di conoscere come vivono i poveri (e troviamo uno Zola che ci ha spiegato che vivono così male da diventare, talvolta, cattivi); o come si stava nelle altre epoche (la caterva di romanzi storici scritti da pornografi della documentazione e costumisti falliti); o che ha l'esigenza di sentirsi migliore e più arcano (e vai con i decadenti e i simbolisti); più buono (Tolstoj lo hanno inventato per questa bisogna). Lo scrittore ora serve a fornire trame, cronache, ideologie: manuali per ogni evenienza. E qui in Italia, dove si fa sempre avanguardia, troviamo un De Amicis che ci erudisce sul fatto che il suo mestiere (così scriveva a Treves) consiste nello spremere il cuore ai giovani italiani: a quei giovani italiani che, educati alla solidarietà fra classi sulle pagine di Cuore, avrebbero dato vita al fascismo. Ed è sempre in Italia che, con sdegnosa reazione a D'Annunzio, che restaurava una lingua antica per farla diventare una moderna lingua di popolo, che un Gozzano dichiarava obsoleta la poesia, e, quindi, i futuristi si davano a intonare i rumori della nascente modernità, del suo totalitarismo. Il poeta e il narratore non servono più: abbiamo lo scrittore (uno che scrive), un addetto alla diffusione dei gusti e delle idee in un mercato ben sezionato, in cui il pubblico può trovare i più disparati oggetti per la soddisfazione della sua esigenza di essere pubblico. Oggi come oggi, per fare un esempio: dai romanzi rosa di un Moccia (per chi ha bisogno di scoprire i veri sentimenti) al chiacchiericcio post-mistico di un Milo De Angelis (per chi deve accordare la propria intelligenza a certo bon ton da upper class).
Detto questo, allora, si potrebbe dire che ci vorrebbe una letteratura popolare, proprio per avere un popolo; per potersi riconoscere in una collettività civile; per possedere una tradizione e una cultura attraverso la quale diventare individui liberi e coscienti. Parliamo di popolo, sia chiaro, solo in questo senso, come una collettività di individui; un dialogo costante fra uomini: qualcuno potrebbe indovinarvi la suggestione di coniugare Platone e la democrazia. E sia.
Detto questo, procediamo.
Ora, se per fare un popolo, ci vuole una letteratura popolare, quest'ultima ha la necessità evidente di essere eseguita da narratori e poeti popolari. O meglio: da poeti punto e basta. Da qualcuno che si adoperi in un'azione essenziale, quale è appunto la poesia.
Abbiamo bisogno di qualcosa che smetta di distrarci, che ci riporti vigili alle nostre vite: abbiamo bisogno di essere nutriti nella nostra immaginazione per acquistare il peso appropriato, necessario a mettere i piedi ben piantati a terra. Abbiamo bisogno, tipo, dei dialoghi ben pettinati di Platone, di cui tutta la nostra civiltà è una chiosa: poesia, essenziale per scoprire che, malgrado ogni nostro possibile accumulo, siamo poveri, e questa povertà è il gran bene che ci stimola alla filosofia. Abbiamo bisogno di tutte le grandi storie capaci di guidarci nella vita con coraggio: da Omero a Virgilio. E delle storie in cui agiscono le grandi iniziazioni ai manifesti segreti della vita: da Apuleio a Dante, fino a Melville. Abbiamo bisogno, nel tramestio dei nostri fantasiosi affanni quotidiani congegnati apposta per un lettino psicanalitico, di scoprire di nuovo che la vita è un racconto, e non saperla raccontare porta alla morte: per questo ci servono le Mille e una notte, Boccaccio e Potocki. Ci servono Conrad, Stevenson, Dostoevskij, la Morante, Morselli, Bolaño, Ferrandino, ma, finiamola qui con i cataloghi: ci serve qualcosa di grande.
Immagino che questo qualcosa si prepari.
Magari molti, stanchi del tran tran coscienzioso dei reading; delle scommesse imprecazioni speranze rancori da Premio Strega; dello zelo impiegatizio speso sui rendiconti delle vendite e i messaggi di google alert; delle presentazioncine nel posto adeguato; dei salottini del madonnavrolescarpebuone; della scalata al successo su facebook; di questa pena quotidiana per i cinque minuti di successo, cara buona cosa di cattivo gusto; magari tantissimi, questo qualcosa di grande già lo preparano.
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