ATTUALITA'
Stefano Torossi
Con la scusa del meteo
17 ottobre, ore 12. Mentre Genova spala il fango, e Parma conta i prosciutti perduti, noi ci troviamo, in una mattinata incredibilmente balsamica (maniche di camicia e brezzolina tonificante) al parco dei sepolcri della Via Latina, appena riaperto dopo una esemplare sistemazione.
Qualche moralista penserà che è ingiusto che dalle nostre parti sia ancora estate a metà ottobre, mentre lassù piove a rotta di collo, ma approfittarne non crediamo che sia peccato, e la gratificante bellezza dell’escursione funziona benissimo per allontanare ipotetici sensi di colpa.
Adagiati su una panchina sotto un aromatico pino con vista sui ruderi suggestivi e con il traffico lontano, ci viene da fare una considerazione.
Non ci sembra proprio che il clima sia cambiato tanto da mettere in pericolo la nostra sopravvivenza. Temporali e mareggiate sono le stesse da sempre; è la gente che, moltiplicandosi, ha cambiato le cose. Trecento anni fa una frana in Valsugana avrebbe fatto fuori al massimo un paio di camosci distratti. Oggi la stessa frana butta giù una seggiovia, due baite e mezza dozzina di villette, con relativi morti e feriti e dichiarazione di stato di calamità naturale.
18 ottobre. Stesso meteo. Da venti secoli fa, passiamo all’altro ieri. E ai suoi monumenti. In fondo anche un gazometro abbandonato ha la sua eleganza. Ed è lui stesso la testimonianza di un guizzo di modernità in una città come Roma che, dopo la fine dell’Impero e un medioevo catastrofico, si era addormentata fra le braccia di Santa Madre Chiesa, la quale aveva ben provveduto a tenerla costantemente sotto sedativo.
C’è un’area, cosiddetta industriale, a sud del centro storico. Cosiddetta perché, in confronto a una vera città industriale, fa la figura di un laboratorio artigianale, e pure antiquato. C’è, appunto, un gazometro, una centrale elettrica trasformata in museo, un ponte ferroviario che sembra un giocattolo e poco più. Il resto è tetti caduti, mura annerite e immondezza.
Per fortuna, da un po’ di tempo qualcuno ha deciso di dargli una ripulita: è nato un giardinetto qua, là c’è il Teatro India che spolvera un po’ di cultura sulle macerie; il nuovo ponte pedonale unisce tratti asfaltati di un Lungotevere che prima o poi si collegherà a quelli esistenti per creare una passeggiata lungo il fiume, e, perché no, per sfruttare il fascino crescente dell’archeologia industriale. Noi ci saremo.
Un Nuovo Negroni. Colpo di scena! Cachaça brasiliana (invece del gin), Martini Gran Lusso e Campari (roba italiana), una grattatina di fava tonka (dipteryx odorata, venezuelana); miscelato, lasciato riposare in botticella per tre settimane, e servito, naturalmente sul ghiaccio. Si chiama Trilusso e la sua madrina è Lela (foto), bar woman, di “Spirito”, uno speakeasy, dove siamo capitati domenica 19 per ascoltare l’amico Ettore Zeppegno al pianoforte con Sebastiano Forti, sax soprano e clarinetto.
Musica anni ’30, mentre noi mettevamo sotto i denti un buon piatto di fish‘n chips, e davamo un’impostazione etilica alla giornata con la scoperta del misterioso ma indiscutibile affiatamento del Nuovo Negroni con merluzzo fritto e patatine.
Siamo al Pigneto, una zona di Roma che, malgrado i tentativi della stampa modaiola di farne uno spicchio di città trendy, rimane a nostro parere un ex quartiere popolare poco dotato, scomodo da raggiungere, difficile da girare, impossibile da parcheggiare. In compenso il locale è bello, bene arredato e ben gestito. Speakeasy perché l’ingresso alla vera sala è mascherato da una porta nascosta, come usava ai tempi del proibizionismo in America. Una volta entrati, niente paura: buona cucina, buon servizio e un banco bar spettacoloso e ottimamente governato, appunto da Lela.
E meno male che abbiamo avuto il buon senso di limitarci a un solo assaggio, perché la tentazione era forte, la batteria di bottiglie formidabile, e la varietà delle proposte pericolosa.
L’attimo fuggente. E’ martedì 21, le previsioni per domani sono di gran vento, ma per oggi continua il caldo. E allora, passeggiata finale di stagione per rivedere quello che per noi è il restauro più geniale (e poetico) mai visto: le ultime due campate del Colosseo.
Dopo secoli di abbandono, demolizioni e furti, si decide, a inizio ‘800, di costruire un enorme sperone di mattoni per impedire che l’anello esterno si sbricioli. L’anfiteatro è un’ellisse che si regge per spinte contrapposte: togli un arco e senza più il suo sostegno, parte l’effetto domino e crolla tutto.
Normalmente il restauro di un edificio riporta le cose a un ipotetico ordine precedente, spesso arbitrario, oppure ripulisce le rovine lasciandole come sono state trovate.
In questo angolo del Colosseo, no. Qui il restauro ha magicamente bloccato l’inizio della catastrofe, con le crepe che si allargano, gli archi che collassano, i cornicioni che si incrinano, pietrificando l’attimo fuggente. Geniale. E poetico.
Qualche moralista penserà che è ingiusto che dalle nostre parti sia ancora estate a metà ottobre, mentre lassù piove a rotta di collo, ma approfittarne non crediamo che sia peccato, e la gratificante bellezza dell’escursione funziona benissimo per allontanare ipotetici sensi di colpa.
Adagiati su una panchina sotto un aromatico pino con vista sui ruderi suggestivi e con il traffico lontano, ci viene da fare una considerazione.
Non ci sembra proprio che il clima sia cambiato tanto da mettere in pericolo la nostra sopravvivenza. Temporali e mareggiate sono le stesse da sempre; è la gente che, moltiplicandosi, ha cambiato le cose. Trecento anni fa una frana in Valsugana avrebbe fatto fuori al massimo un paio di camosci distratti. Oggi la stessa frana butta giù una seggiovia, due baite e mezza dozzina di villette, con relativi morti e feriti e dichiarazione di stato di calamità naturale.
18 ottobre. Stesso meteo. Da venti secoli fa, passiamo all’altro ieri. E ai suoi monumenti. In fondo anche un gazometro abbandonato ha la sua eleganza. Ed è lui stesso la testimonianza di un guizzo di modernità in una città come Roma che, dopo la fine dell’Impero e un medioevo catastrofico, si era addormentata fra le braccia di Santa Madre Chiesa, la quale aveva ben provveduto a tenerla costantemente sotto sedativo.
C’è un’area, cosiddetta industriale, a sud del centro storico. Cosiddetta perché, in confronto a una vera città industriale, fa la figura di un laboratorio artigianale, e pure antiquato. C’è, appunto, un gazometro, una centrale elettrica trasformata in museo, un ponte ferroviario che sembra un giocattolo e poco più. Il resto è tetti caduti, mura annerite e immondezza.
Per fortuna, da un po’ di tempo qualcuno ha deciso di dargli una ripulita: è nato un giardinetto qua, là c’è il Teatro India che spolvera un po’ di cultura sulle macerie; il nuovo ponte pedonale unisce tratti asfaltati di un Lungotevere che prima o poi si collegherà a quelli esistenti per creare una passeggiata lungo il fiume, e, perché no, per sfruttare il fascino crescente dell’archeologia industriale. Noi ci saremo.
Un Nuovo Negroni. Colpo di scena! Cachaça brasiliana (invece del gin), Martini Gran Lusso e Campari (roba italiana), una grattatina di fava tonka (dipteryx odorata, venezuelana); miscelato, lasciato riposare in botticella per tre settimane, e servito, naturalmente sul ghiaccio. Si chiama Trilusso e la sua madrina è Lela (foto), bar woman, di “Spirito”, uno speakeasy, dove siamo capitati domenica 19 per ascoltare l’amico Ettore Zeppegno al pianoforte con Sebastiano Forti, sax soprano e clarinetto.
Musica anni ’30, mentre noi mettevamo sotto i denti un buon piatto di fish‘n chips, e davamo un’impostazione etilica alla giornata con la scoperta del misterioso ma indiscutibile affiatamento del Nuovo Negroni con merluzzo fritto e patatine.
Siamo al Pigneto, una zona di Roma che, malgrado i tentativi della stampa modaiola di farne uno spicchio di città trendy, rimane a nostro parere un ex quartiere popolare poco dotato, scomodo da raggiungere, difficile da girare, impossibile da parcheggiare. In compenso il locale è bello, bene arredato e ben gestito. Speakeasy perché l’ingresso alla vera sala è mascherato da una porta nascosta, come usava ai tempi del proibizionismo in America. Una volta entrati, niente paura: buona cucina, buon servizio e un banco bar spettacoloso e ottimamente governato, appunto da Lela.
E meno male che abbiamo avuto il buon senso di limitarci a un solo assaggio, perché la tentazione era forte, la batteria di bottiglie formidabile, e la varietà delle proposte pericolosa.
L’attimo fuggente. E’ martedì 21, le previsioni per domani sono di gran vento, ma per oggi continua il caldo. E allora, passeggiata finale di stagione per rivedere quello che per noi è il restauro più geniale (e poetico) mai visto: le ultime due campate del Colosseo.
Dopo secoli di abbandono, demolizioni e furti, si decide, a inizio ‘800, di costruire un enorme sperone di mattoni per impedire che l’anello esterno si sbricioli. L’anfiteatro è un’ellisse che si regge per spinte contrapposte: togli un arco e senza più il suo sostegno, parte l’effetto domino e crolla tutto.
Normalmente il restauro di un edificio riporta le cose a un ipotetico ordine precedente, spesso arbitrario, oppure ripulisce le rovine lasciandole come sono state trovate.
In questo angolo del Colosseo, no. Qui il restauro ha magicamente bloccato l’inizio della catastrofe, con le crepe che si allargano, gli archi che collassano, i cornicioni che si incrinano, pietrificando l’attimo fuggente. Geniale. E poetico.
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