ATTUALITA'
Pina D'Aria
Diario di una rosa in un giardino di gambi.
Ora sono qui. Ieri sera e l'altro ieri e per un mese ho camminato a lungo con la necessità di spostare il corpo in avanti per ingrandirlo o rimpicciolirlo, a mio piacimento, forse cercando di procurarmene uno nuovo, privo di tensioni. Oggi sono come le fotografie: sono l'ostacolo di me stesso e mi muovo come gli orologi, con un meccanismo che chiunque potrebbe fermare. La verità però è la medesima di ieri e nessuno può più fermarmi. Guardo in terra, sotto i miei piedi e intorno. Guardo oltre le finestre ed esco a prendere boccate d'aria perché ho sempre fame d'aria dalla quale mi sento espropriato appena mi torna accanto la bestia umana. Non sopporto più il contatto con qualsiasi simile. Gli umani sono pieni di difetti e io amo la perfezione. Mi accorgo che la strada è cosparsa di foglie; ho attraversato per l'ennesima volta l'umidità del crepuscolo, la nebbiolina appiccicosa di queste lande quando spira, ma è come la colla, lo scirocco. Le porte sono chiuse perché d'inverno non conta la bella giornata. I passanti sono intabarrati e gonfi; non ve n'è bisogno, eppure, indossano i piumini alla maniera dei nordici. Oggi i piumini si fanno in Romania, costano poco, sono brutti e appartengono alla moda di quelli che vanno a sciare e si vestono da sci e da dopo sci. Dalle finestre filtrano le luci come di torce. Già da oltre un secolo le case si sono trasformate in serre. Insegne e radiografie s'inseguono fino a confondersi. Interni privi d'organi. Edifici, involucri ben tenuti, tirati a lucido. Tubi...Gran parte della popolazione mondiale vive già nei tubi. Le dimore d'argento, i terrazzi di titanio e all'improvviso, soliti stupidi intonaci, crepati, cadono a pezzi insieme all'inutilità di altre e più arcaiche, antiche vestigia. Grattacieli insonni restano a guardare. Silenzio a macchie, rumori fuggenti. Poesia apparente di un discorso psichico che si spezza. Dovrò pur sedermi col fare dell'attrice che esce dalla scena e finisce, oltre i sipari, nell'enigma molto umile del camerino. Il posto lirico e urbano è la trattoria affollata in cui siedo al centro della stanza esposto alla vista dei serpenti e dei tori, circondato dalle galline e dalle iene, che si spacciano per umani e per i quali dovrei nutrire, talvolta, simpatia. Maschili e femminili fisionomie: brutti ceffi pettinati e stinti, ridisegnati. Fisionomie fallite che chiacchierano, si rivolgono salamelecchi durante la grottesca moltiplicazione delle presentazioni: uno stringersi di mani che sembra una promessa di dominio e di possesso nel rito delle pacche e dei sorrisi. Infine ammutolisco dentro e resto impietrito sebbene non sorpreso: le donne assomigliano alle muffe, pur sempre reinventate dai loro parrucchieri, aderiscono a modelli di neoarpie nel tentativo di pronunciarsi increspando gli orridi labbri, i finti labbri e le fasulle cose di cui voler parlare e neanche saperlo fare; labbra da dimenticare uguali ai labbri dei dimenticati pitali, puzzolenti. Chi bacerebbe un cacatoio? Cercasi latrina per cacatoio! Provo repulsione per i repellenti esordi del progresso sui trogloditi senza cultura. Provo repulsione per la gente famosa che crea fantocci. Provo repulsione per i fantocci e mi piace la cassiera. La cassiera agisce, conversa, riceve, dà; sembra che si vendichi coi sorrisi, infatti, li distribuisce a raffica, col ritmo di una calcolatrice mitraglietta. In un qualche luogo-specchio della ferocia, nella sua mente, sta trafiggendo il torace delle persone in fila pronte a pagare. La cassiera non sonnecchia. La cassiera conta. La cassiera ti fa vomitare il denaro, t'incastra con la master card, la cassiera ha un'altra canzone da cassiera in testa; ti prende in giro, ti governa. La cassiera è un pilota, l'aviatore e il marinaio le fanno un baffo. La cassiera fa la gatta. Brulli e tondi, d'ottone, gli occhi degli uomini fissano il vuoto, puntati in aria, fanno mostra di noncuranza dopo aver sbirciato e quasi slogato lo sguardo. Le donne mirano con decisione bang-bang da professioniste e distolgono l'attenzione con fare volpino, se ricambio con un saluto. Sanno che ho notato sia le smilze, sia gli addomi gonfi. Ho già inquadrato le depresse e le invidiose; una marea di costoro si accinge ad ignorarmi; ci riuscirà? Mi arrivano addosso le manette delle truci, ma sono solo le loro fosche pupille a farmi il ritratto, mentre le bolse piagnucolano e tutte, nell'insieme pacchiano, si affamigliano per ignoranza e malattia. Lo sanno che mi sto divertendo e ciò le mette a disagio; non fate così, mi verrebbe da dire, giocate, guarite! Credo di avere qualche medicina per voi: esprimete l'aplomb, la spontanea esigenza del corpo di fare la ballerina; il corpo, se ascoltato, sussurra semplicità, compostezza, verità, vicinanza. Il corpo, se amato, ti porta a spasso, non comanda di vivere nei tuguri del trucco. So che queste povere ragazze sanno, sento che percepiscono, addirittura vorrebbero ma se l'impediscono, perciò continuano ad usare il lessico odioso e involontario di un eterno stato di conflitto. Peccato! Vedo i loro corpi mascherati di donne semifredde, somiglianti a lame di merda congelata. Come ci si libera dal permafrost? Col calore, con l'allegria. Con l'eros, compagno di danze inventate. Immagina sorella, immaginare significa mutare e mutare significa liberazione e liberazione significa libertà e libertà significa vita e la vita non va sprecata. Dov'è la mia amica Jole? E' saltata dal sesto piano ed è morta dopo due anni d'agonia. Perché Jole si è uccisa? Jole lavorava con me in un istituto per ragazzi difficili. Era capace di ispirare affetto nell'animo di quanti le si avvicinassero, ma lei si sentiva esclusa. Diceva, la sera mi ritrovo da sola e mi faccio da quattro a dieci cicchetti; nessuno resta a dormire da me, non ho uno straccio di relazione, non trovo un vero uomo, le amiche hanno altro da fare che restare a farmi compagnia e il sabato non vado né al cinema, né in discoteca o al teatro, né a cena con gli amici e non mi piace andare a zonzo, leggere e viaggiare; per fortuna mi piace lavorare, ma lavorare stanca e non mi lascia il tempo per cercare qualcosa e qualcuno per me! Molti replicavano, sei bella, hai tutto, vedrai che la fortuna ti assisterà... Jole mi adorava, diceva che ero spanizza e che le piaceva l'idea di stare a contatto con una spanizza e che lei avrebbe desiderato essere spanizza, ma non le riusciva, pertanto io ero la spanizza che non era lei e proprio ogni giorno, lo faceva per puro diletto, si affacciava alla finestra e rivolgendosi alle altre quasi urlava, affinché la sentissi anch'io da fuori: arriva la spanizza, di febbraio, col vestitino e il giubbotto, spanizzissima, uau, senza calze e vabbè che si vede l'orlo del calzettone dallo stivale, ma brrrr, siamo a febbraio nella bassa padana e col freddo che fa, ma del resto, se una è spanizza, è spanizza sempre, se no che spanizza sarebbe? La cosa mi piaceva molto. Ero contenta di essere la spanizza! Tornavo a casa col treno della sera e quando andavo a letto, dormivo, non pensavo a Jole. Lei invece pensava a tutti quanti la ignoravano; era bella, travolgente, che altro voleva? Era un cane che non andava a passeggio, né aveva la cuccia e i suoi pensieri erano giganti della notte che la tenevano informata della morte e della paura. Arrivavo a casa ed ero pronta per uscire. Jole non telefonava per non disturbarmi perché sapeva che uscivo, o scrivevo, o ero in uno di quei posti fumosi della musica con concerti che lei definiva proibiti. Mai vi ci si era recata e ormai li considerava esperienza passata e sorpassata dagli eventi quotidiani del lavoro; se non fosse per il lavoro, ripeteva, sarei morta da un pezzo. Perché non ho saputo ascoltare il suo abbandono attraverso le parole, limpide, peraltro scelte con cura? Non sono colpevole della sua morte. Mi sono rattristata per non aver approfittato della situazione quando Jole era viva: ho perso l'occasione per affinare l'intuito e nello stesso tempo per essere d'aiuto a lei, che non piangeva, non elemosinava alcun tipo di conforto. Sembrava ricca e spavalda, non aveva quegli occhi fetenti e bui degli invidiosi, una schiatta terribile di bisognosi avidi e possessivi. Io e Jole, è vero, ridevamo di ogni cosa, ma non è servito a nulla se poi, l'unica che mi amasse in quel covo di cimici, ha deciso di volare nel vuoto e sfracellarsi. I miei maschi mi consolano, ma non trovo conforto se non nel ricordo che ridevamo e mettevamo su i dischi per creare una certa atmosfera intorno ai ragazzi definiti difficili e ballavamo il twist, per niente a la page, ma scatenatissimo e poi lo shake, lo slego, come si dice in Romagna, a Rimini, per la precisione. Che strano, tutto ha a che fare con Roma, un unico grande campo semantico direbbe Pedullà e Carpitella farebbe, sì però, la signorina è troppo creativa, brava brava, accidenti se è brava, ma troppo creativa! E' un peccato essere creativi, messer Carpitella? Bussagli Mario mi prediligeva, ma l'unico che all'università mi ha chiesto di prendere insieme una cioccolata calda in tazza, hai visto mai la cioccolata calda in carrozza, è stato Argan perché voleva capire meglio il mio punto di vista su Antonello da Messina. Ma è tutto inventato dalla signorina, replicava Carpitella e per tale motivo, invece, l'altro voleva approfondire. Antonello da Messina, uno gnostico? Chiedeva con vera modestia, egli, Argan Carlo Giulio. Tutti erano gnostici, rispondevo, se superavano i vangeli e tutti erano idolatri in quanto cristiani per coincidenze, per convenienza o per forza di cose, cristiani papalini, i cristiani della Roma incestuosa. Idolatri poi, per via della trinità e a proposito, ricordo che chiesi al prof di parlarmi di Piazza di Spagna, di Trinità dei Monti. Fui accontentata. Non l'ho rivisto e ho appreso che è stata la prima e ultima volta che entrasse nel bar della mensa degli studenti. Devo dire che non c'è guerra nella mia esistenza per ciò che concerne il rapporto con gli uomini. Mi amano e io ricambio sulla stessa modulazione di frequenza sia che si tratti di passione, sia che si tratti d'amicizia; mi sono avvantaggiata della varietà e dell'esclusività. Mi manca la furbizia delle strategie e ciò ha significato fortuna, tout court. Nessun dramma né agitazioni. Sono la rosa in un giardino di gambi; non mi considero una cima tempestosa, né la burrasca nella vita altrui. Ho già troppo da fare con la mia di vita e non m'interessa portar scompiglio nell'altrui. Se asserissi d'essere soddisfatta non sarebbe da me: non conosco la parola "soddisfazione", neanche sono una sopravvissuta. Conosco la vita e gli uomini s'attaccano come grilli in groppa e cantano, poetizzano; non sanno sganciarsi. Dovrebbero? Potrebbero ma non lo fanno. Non vogliono staccarsi, perché è bello stare con me, che sto poco con loro. Quando non ci sono, lo so, pregano, affinchè ritorni e quando torno, insegno la mia assenza: è una costante lezione d'autonomia e un po' si vergognano di non sapere cos'è la vita materiale. Sono legati, addomesticati, però io non ho chiesto tanto. Per me sono liberi e sono loro a sentirsi parte della mia vita. Un po' ne sono compiaciuta; non posso negarlo. Succede. E' bello e non aggiungo altro. Mi sento rispettata e compresa, purtroppo sono circondata dal primitivismo che guasta persino le donne più emancipate. Faccio un esempio banale per rendere l'idea; avevo pubblicato un libro a mie spese e un amico, per carineria nei miei e nei loro confronti e senza che io ne sapessi alcunchè, chiese a una libreria gestita da femmine di tenere in negozio qualche copia per la vendita e fece l'errore di lasciar loro il mio numero di telefono. Lui voleva farmi una sorpresa e sperava di aver trovato il canale giusto, il migliore, la bottega della canaglia femminile! Quelle sciagurate ebbero l'ardire di chiamarmi, Jole non l'aveva fatto neppure per affetto, costoro invece si presero la briga di farlo, dicendomi che il libro non era adatto alle loro scelte ideologiche! Evviva la censura, dunque, e scoppiai a ridere, aggiungendo che non avevo chiesto pareri, commenti e aiuti, anzi non sapevo di una bottega di robivendole. Ma quella al telefono, volle insistere, sa, fece, quell'uomo, il protagonista, è un maschilista e afferma di essere fascista e noi donne siamo antifasciste e lei parla in prima persona e... E per carità, tuonai, sappia tacere e impari a leggere! In narrativa, continuai, potrei far parlare un cane, una scema come lei e se parlo in prima persona, non è detto che parli di me, imbecille! La signora pensò di avere l'ultima parola e soggiunse, a noi il romanzetto è sembrato autobiografico! Allora l'accontentai: i cenni autobiografici sono una minima parte; il libro è partito da un'inchiesta vera e si è concluso in forma romanzata perché l'esigenza di raccontare è risultata più forte, declinando il tutto in dialogo, in cut-up e in sintesi letterarie a lei sconosciute e ora vada a farsi fottere! Conclusi con un sonoro vaffangala e in seguito seppi dal mio amico che ero ritenuta una persona da cui guardarsi per acume e veemenza e che non capivano se ero una neobeat, o una donna innamorata di un fascista. Mio dio! Non ne conosco di fascisti, ma vedo i guasti delle donne che si sono inventate la politica delle correzioni: stupide donne crescono e vivono nella paura di perdere l'identità idiota dell'appartenenza non già al femminismo, ma all'ostile mondo delle femmine incallite; addirittura, il pretesto culturale le pone su un piano doloroso di non confronto e col giudizio avvelenano un rapporto, prima che s'instauri un discorso, danno la precedenza alla censura, alla tensione, all'odio verso la sconosciuta, la non integrata. Care le mie robivendole, sarà dura per voi farvi accettare per lo schifo che avete seminato. Ora è tempo di solidarietà, di baratto e voi come molti altri volete solo vendere; finirete per farvi spaccare il didietro. Io vengo dal frikkeggio, dall'autostop, dai fiori e dal ballo, cosa ve ne frega se incontro un adorabile scimpanzè? Saranno casi splendidi miei e je v'accuse! E' stata vostra la colpa se le comuni sono saltate, molte donne erano e sono gelose, ma di costruire bellezza ancora non si convincono. Viaggio fuori e dentro casa e non sopporto le preoccupazioni femminee. Non è bello preoccuparsi e ignorare i corpi, il male che si produce con una telefonata da donna a donna. Che dico? Da iena a una ragazza come me, come Jole. Sì, il mio è un mondo di ragazze e di ragazzi! Al diavolo, uomini, donne e quel che vi attornia, la vostra amarezza, la vostra infelicità! Ho deciso di sfamare tutti e se butto via i fogli delle mie poesie, ho già trovato chi li raccoglie, chi li pubblica, chi se li legge e rilegge e li declama addirittura al mio posto! L'unica prova che do di scrivere come di esistere, è il movimento: sono una pioniera, ingenua, d'accordo, ma questa è l'immagine che ho e conservo di me, un corpo, sputnik, lanciato nelle trasformazioni, nella vita liberata dalle catene. Faccio rumore? Non è così che ci si comporta? Qual è la differenza tra le femmine che si fanno pagare il conto da un cinghiale, chiuse in questa trattoria, e le militanti superstiziose recluse nel chiostro delle convinzioni miserabili e religiose? Troppo razzismo nei miei confronti, ma chissenefrega! Contano gli amici e le serate allegre! Ora tocca a mia madre. Cara mamma, adorata signora, è la prima volta che ti scrivo una lettera solamente per dirti che non sono più tua figlia, ma un'amica a cui non puoi comandare, né consigliare. Da giovane t'avrei incenerita, ora ti guardo con amore e penso che hai sbagliato a servire i tuoi figli. Ma qui comincia il delirio, accipicchia e a me tocca rimescolare tutto e non penso che sia il caso, giacché il ritmo sostituisce l'intreccio e fila, fila come un treno.
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