ATTUALITA'
Michele Lupo
E non ci sono nemmeno più i divi di una volta.
E non ci sono nemmeno più i divi di una volta. Quelli che il carisma non sai bene cos'è – anche perché va bene il paese che non ha bisogno di eroi, ma il democraticismo della sinistra ha preteso infine di piallare persino l'avvenenza -, quelli che andavi al cinema e ti costringevano a chiederti cosa ci fosse dentro quegli occhi, in quel modo di tenere la sigaretta (dio!, la sigaretta! in galera!).
Se ne scrive nel numero 22 ("Divismo/Antidivismo") della rivista di Estetica "Àgalma" diretta da Mario Perniola, filosofo fra i pochissimi davvero interessanti della cultura italiana, del quale abbiamo più volte parlato sul Paradiso (e intervistato). I saggi sparsi nel periodico (è un semestrale, edito da Mimesis) ruotano soprattutto intorno al mondo del cinema, e si capisce, peraltro con un pendant politico che si spiega e giusitifica almeno dai tempi di Ronald Reagan.
L'assunto dell'editoriale di Perniola sollecita tangenzialmente la lettura delle brevi ricerche ivi contenute, tirando le somme di un processo argomentativo partito da Marx, il quale agognava un mondo in cui la sparizione della divisione del lavoro avrebbe favorito la possibilità di essere artisti tutti – e, meno pacifico il suo caso, di Lautréamont, poeta agli albori del simbolismo, secondo cui "la poesia deve essere fatta da tutti non da uno". Così passando per Dada, Andy Warhol e i social network, siamo giunti, scrive il filosofo, "nell'ultima fase del populismo, quella divistica".
Il che vuol dire sostanzialmente che divo può esserlo chiunque e perciò più nessuno nel senso classico cui ci aveva abituati il '900 (diciamo fino agli anni Settanta). A ciò non è estraneo il trionfo dell'anti-intellettualismo (a tal punto che è di moda fra molti che scrivono-pubblicano il facile esercizio retorico di dichiararsi anti-intellettuali). Che consiste in un atteggiamento di sufficienza verso i saperi più organizzati e legittimati da uno studio approfondito e dalla qualità della ricerca. In Italia (e varrebbe la pena di leggersi il volumetto che Perniola gli ha dedicato recentemente, Berlusconi o il '68 realizzato, presso lo stesso editore) "la confusione fra autoritarismo e autorevolezza, l'individualismo senza freni, l'ostilità verso la vera grandezza", ossia le non troppo parallele convergenze fra l'incultura del capo di Mediaset e il fallimentare lascito del ribellismo fine a se stesso, hanno portato fra l'altro non a un acuirsi estremo del senso critico, ma a innescare in ognuno di noi la domanda fatidica "perché lui sì e io no?". Scompaginando alla cieca ogni criterio per, non diciamo misurare, ma approssimare il vero valore di una cosa, in nome di una malintesa uguaglianza e del diritto di "essere qualcuno" anche non sapendo essere/fare alcunché: in luogo di una Marilyn che non c'è più, va bene una qualunque sgallettata purtroppo uscita viva dall'isola dei famosi imbecilli.
Il fatto è che tutti "si esprimono", da noi, cioè tutti spremono dalle proprie cavità il lavorio delle proprie interiora, convinti che gli altri non vedano l'ora di rallegrarsene – e non si capisce perché. Gli italiani sono un popolo di attori, diceva Orson Welles, uno che se ne intendeva, ma conoscere il mestiere – fosse anche quello indecidibile di affascinare il mondo - oggi è un'aggravante, per cui, diamogli dentro con le patacche. Ora, è proprio questo esito avvilente a problematizzare il punto di vista dell'articolo iniziale, a opera di Veronica Pravadelli, teso a ribaltare la vecchia prospettiva di Morin e Marcuse per i quali il divismo sarebbe solo il risultato di un lavoro industriale costruito su misura. Se in alcuni casi il carisma di queste divinità moderne è stato in grado di produrre mito per forza intrinseca, è difficile confermarlo per le nullità da prima serata raiset. Dalla fascinosa Clara Bow a Sabrina Ferilli. Da Gary Cooper (articolo di Maria Paola Pierini che mostra come l'elusivo attore si svincolasse dalle immagini che la Paramount tentava di cucirgli addosso) Favino, uno che aggrava la sua posizione ogni volta che apre bocca. Così, latitando il fascino di attori e attrici, la si butta in politica – al solito, gli italiani sentendo il bisogno di seguire gli americani nel peggio (e la nostra storia dovremmo conoscerla). Ma se l'appeal di Obama lo hanno a suo tempo fabbricato sui modi e il passo di Denzel Washington, il vecchietto di Arcore chi s'è dato come modello? Se stesso, ovvio, giusta la teoria della star strategy rievocata nel saggio di Cristina Jandelli: è la marca che si trasforma in star. Berlusconi avrebbe potuto chiamare le sue aziende con il proprio nome, non gli avrebbe nociuto neanche un po'. Perché Berlusconi è stato la sua azienda. E la sua azienda quella che ha eletto la mediocrità a sistema, che ha permesso ai mediocri orgogliosi di esserlo, di "esprimersi". Di farsi divi di se stessi e dei propri simili persino migliori d loro. A ogni epoca, le star che merita.
Se ne scrive nel numero 22 ("Divismo/Antidivismo") della rivista di Estetica "Àgalma" diretta da Mario Perniola, filosofo fra i pochissimi davvero interessanti della cultura italiana, del quale abbiamo più volte parlato sul Paradiso (e intervistato). I saggi sparsi nel periodico (è un semestrale, edito da Mimesis) ruotano soprattutto intorno al mondo del cinema, e si capisce, peraltro con un pendant politico che si spiega e giusitifica almeno dai tempi di Ronald Reagan.
L'assunto dell'editoriale di Perniola sollecita tangenzialmente la lettura delle brevi ricerche ivi contenute, tirando le somme di un processo argomentativo partito da Marx, il quale agognava un mondo in cui la sparizione della divisione del lavoro avrebbe favorito la possibilità di essere artisti tutti – e, meno pacifico il suo caso, di Lautréamont, poeta agli albori del simbolismo, secondo cui "la poesia deve essere fatta da tutti non da uno". Così passando per Dada, Andy Warhol e i social network, siamo giunti, scrive il filosofo, "nell'ultima fase del populismo, quella divistica".
Il che vuol dire sostanzialmente che divo può esserlo chiunque e perciò più nessuno nel senso classico cui ci aveva abituati il '900 (diciamo fino agli anni Settanta). A ciò non è estraneo il trionfo dell'anti-intellettualismo (a tal punto che è di moda fra molti che scrivono-pubblicano il facile esercizio retorico di dichiararsi anti-intellettuali). Che consiste in un atteggiamento di sufficienza verso i saperi più organizzati e legittimati da uno studio approfondito e dalla qualità della ricerca. In Italia (e varrebbe la pena di leggersi il volumetto che Perniola gli ha dedicato recentemente, Berlusconi o il '68 realizzato, presso lo stesso editore) "la confusione fra autoritarismo e autorevolezza, l'individualismo senza freni, l'ostilità verso la vera grandezza", ossia le non troppo parallele convergenze fra l'incultura del capo di Mediaset e il fallimentare lascito del ribellismo fine a se stesso, hanno portato fra l'altro non a un acuirsi estremo del senso critico, ma a innescare in ognuno di noi la domanda fatidica "perché lui sì e io no?". Scompaginando alla cieca ogni criterio per, non diciamo misurare, ma approssimare il vero valore di una cosa, in nome di una malintesa uguaglianza e del diritto di "essere qualcuno" anche non sapendo essere/fare alcunché: in luogo di una Marilyn che non c'è più, va bene una qualunque sgallettata purtroppo uscita viva dall'isola dei famosi imbecilli.
Il fatto è che tutti "si esprimono", da noi, cioè tutti spremono dalle proprie cavità il lavorio delle proprie interiora, convinti che gli altri non vedano l'ora di rallegrarsene – e non si capisce perché. Gli italiani sono un popolo di attori, diceva Orson Welles, uno che se ne intendeva, ma conoscere il mestiere – fosse anche quello indecidibile di affascinare il mondo - oggi è un'aggravante, per cui, diamogli dentro con le patacche. Ora, è proprio questo esito avvilente a problematizzare il punto di vista dell'articolo iniziale, a opera di Veronica Pravadelli, teso a ribaltare la vecchia prospettiva di Morin e Marcuse per i quali il divismo sarebbe solo il risultato di un lavoro industriale costruito su misura. Se in alcuni casi il carisma di queste divinità moderne è stato in grado di produrre mito per forza intrinseca, è difficile confermarlo per le nullità da prima serata raiset. Dalla fascinosa Clara Bow a Sabrina Ferilli. Da Gary Cooper (articolo di Maria Paola Pierini che mostra come l'elusivo attore si svincolasse dalle immagini che la Paramount tentava di cucirgli addosso) Favino, uno che aggrava la sua posizione ogni volta che apre bocca. Così, latitando il fascino di attori e attrici, la si butta in politica – al solito, gli italiani sentendo il bisogno di seguire gli americani nel peggio (e la nostra storia dovremmo conoscerla). Ma se l'appeal di Obama lo hanno a suo tempo fabbricato sui modi e il passo di Denzel Washington, il vecchietto di Arcore chi s'è dato come modello? Se stesso, ovvio, giusta la teoria della star strategy rievocata nel saggio di Cristina Jandelli: è la marca che si trasforma in star. Berlusconi avrebbe potuto chiamare le sue aziende con il proprio nome, non gli avrebbe nociuto neanche un po'. Perché Berlusconi è stato la sua azienda. E la sua azienda quella che ha eletto la mediocrità a sistema, che ha permesso ai mediocri orgogliosi di esserlo, di "esprimersi". Di farsi divi di se stessi e dei propri simili persino migliori d loro. A ogni epoca, le star che merita.
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