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ATTUALITA'

Alfredo Ronci

E-sordi d'autore. Sull'ipocusia della giovane letteratura.

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Credete che esista un incubo peggiore di quello di vedere ogni giorno il volto di Berlusconi su tutte le tv e su tutti i giornali (come puntualmente avviene da quindici anni a questa parte)?

Esiste: è la pubblicità del canale 'Current' di Sky, dove un popolo intero ha la faccia dell'autore di Gomorra. Titolo? Saviano racconta Saviano.

Già intuisco l'angoscia di quei pochi che sono riusciti a sopravvivere all'invadenza di questo evento monstre: contorcimenti di budella e conati di vomito con rigetto finale (altro che l'horror di Federico Zampaglione!).

Non è cosa unica e peculiare: in occasione della 'tre giorni' all'Auditorium di Roma con tema 'Come si scrive un libro' l'editoria nostrana ha letteralmente (come potrebbe essere di no, visto che trattiamo di letteratura?) invaso le pagine culturali con consigli (presi dal discount della porta accanto) di scrittori affermati agli eventuali – e sprovveduti – emergenti.

Un profluvio d'imbecillità, un 'mare nostrum (e spesso anche acque agitate di lidi lontani) di castronerie da far accapponare la pelle. Appunto, un altro incubo!

Yehoshua (tanto perché non solo il 'mare nostrum' produce procellose minchionerie) suggerisce ai pargoli di narrativa di rispettare i personaggi, di non sintetizzare i loro drammi e di lavorare con lentezza. Nicola Lagioia (è solo un caso che, accanto ad un nome che pur sproloquiando ha una certa dignità, io inserisca il sopravvalutato autore romano-barese che alla tre giorni s'è pure permesso di rimproverare l'editor Fazi per non aver compreso il suo 'capolavoro' Riportando tutto a casa, che il sottoscritto ha abbandonato dopo aver letto ottanta pagine, poi pubblicato dal 'prestigioso' catalogo Einaudi) c'informa che lui lavora otto ore al giorno, compreso domeniche e Capodanno e che durante la stesura di un libro rilegge i suoi autori preferiti e prende appunti. Cioè, come dice lui, 'piccoli furti di tecnica letteraria' (pensa che originalità!). Erri De Luca confessa che gli capita spesso di commuoversi quando rilegge le sue cose (credo che sia l'unico in Italia, perché se i risultati sono come quelli di Il giorno prima della felicità...). La Simona Vinci, quella della racchetta in culo (qualcuno dirà: perché ricordarla per un episodio goliardico agli inizi di carriera? Semplice: perché agli inizi di carrierà c'è gente che produce capolavori , vedi il Busi di Seminario sulla gioventù, lettura obbligata per chi voglia capire come e perché bisogna scrivere, e altri producono carta igienica con incomprensibili geroglifici stampati sopra) ammette che quando un libro è concluso lo leggo ad alta voce al mio editor Severino Cesari (che sospettiamo sordo). Solo allora capisco se è interessante o una fesseria. (Molto probabile la seconda ipotesi).

Senza insistere su dichiarazioni irresponsabili e tristissime, la verità è un'altra: non c'è una regola per scrivere un libro, perché le regole le fanno gli altri non gli scrittori. Dice Tim Parks, in un articolo pubblicato sull'inserto libri della domenica de Il sole 24 ore: Nessuno è in grado di dare consigli. E' perfettamente possibile che qualche bel libro non troverà mai un editore. La predestinazione non c'entra. L'apprendistato sì, invece.

Direi che Parks è saggio ma ingenuo in pari misura: farsi il culo conta, ma conta di più darlo. E le forme di sodomia (in quale corpo decidete voi, parafrasando un altro grande libro di Busi) sono varie. Si va dal rapporto anale col 'politicotto' di turno, all'ascesi poco spirituale delle scuole di scrittura, alla perseveranza del mignottismo generazionale.

Scriveva qualche tempo fa il nostro Michele Lupo su queste 'pagine': Il nemico dichiarato è l'ideologia del presente, quella che schiaccia anche la letteratura (industriale) in una penosa rincorsa all'attualità coi suoi sbrindellati corollari: l'informazione, la velocità, la Giovinezza come mito soffocante che non distingue fra gli infanti e i cinquantenni, e sul versante espressivo la "facilità pop", la rinuncia a uno specifico letterario e la rincorsa all'audiovisivo, il postmodern che assomiglia a un postmortem – e ancora, il bambinismo del politicamente corretto, la spettacolarizzazione senza conoscenza di un Ammaniti, la mitologia del plot, il dolorismo furbo di una Mazzantini.

Non ce n'è: non si esce da questo inferno dantesco (nella tre giorni c'è stato qualche editore che s'è anche vantato di questo approccio 'mercificante'). Basta leggere le dichiarazioni di Stefano Tettamanti dell'agenzia 'Grandi&Associati' su Il venerdi di Repubblica del 19 marzo per capire l'antifona: Siamo in contatto con le scuole di scrittura e con le case editrici, che spesso ci girano manoscritti, magari non adatti alla loro linea editoriale (...) Quanto agli esordienti, nelle ultime stagioni ci sono stati molti casi fortunati: Paolo Giordano, Mariolina Venezia, ora Alessandro D'Avenia... (per inciso: l'autore di Bianca come il latte rossa come il sangue, già da qualcuno considerato l'erede di Giordano. Capito no? Un ventiseienne che ha già un erede? Cioè la merducola che produce merducola) senza nulla togliere al talento, credo che i loro libri siano best-seller anche per un fatto di marketing.

Viva la faccia, almeno si dice pane al pane e quello che segue (anche se poi lo stesso Tettamanti in qualche modo si contraddice quando afferma che non è vero che questa letteratura sia di plastica. Mi chiedo cos'altro potrebbe essere se la si valuta al di là del talento e spesso e volentieri è solo un fatto di marketing). Perché il contraltare (se lo è davvero) è l'esilarante fregnaccia di Antonio Franchini, editor della Mondadori che alla domanda (sempre sul Venerdi) se è vero che s'inventano gli autori riscrivendoli (c'è in giro il gossip che il 'fondamentale' La solitudine dei numeri primi sia stato riscritto ben 6 volte... ma non si sa da chi), risponde che ovviamente non è vero, ma confessa d'aver cambiato il titolo al 'successone' di Paolo Giordano (da schiantarsi dal ridere).

Qualcuno dirà, leggendoci, che sputiamo contro perché invidiosi dei successi degli altri. Può anche essere vero: personalmente non ho mai creduto al dogma decoubertiano di partecipare soltanto. Mi rode il chiccherone se conscio dei miei mezzi non riesco ad emergere, ma non mi sento nemmeno di 'benedire' Giulio Mozzi che , sulle pagine de Il Sole 24 ore, tuonando contro Filippo Tuena e Diego Marani che hanno anche loro sputato contro la mediocrità di molti scrittori emergenti, ha dichiarato che sarebbe il caso di smettere di provare disprezzo per chi scrive e per le opere che vengono pubblicate fino a provare veramente disgusto per la scrittura, per l'oggetto-libro così lontano dall'immagine idealizzata.

Inveire non è uno sport nazionale, è una stretta necessità. E qui non si idealizza nulla, caso mai si chiede decenza. Quando, e faccio nomi, un autore mediocre come Christian Frascella dopo nemmeno un anno dal suo evitabilissimo Mia sorella è una foca monaca, ci presenta il nuovo Sette piccoli sospetti (ora che non è più opera d'esordio è possibile pretendere una maturità espressiva o siamo sempre in attesa che questi 'nani' della letteratura nostrana diventino giganti?) significa che il mercato, sordo alle richieste d'aiuto di chi non crede più al mito soffocante della Giovinezza e ai riti di passaggio (ma basta!), riproduce se stesso in un circolo vizioso di paure e assenza totale di coraggio.

Ho sempre detto che chi fotografa non fotografa mai, interpreta. Non vedo perché chi scrive dovrebbe solo scrivere e non interpretare. Beati monoculi in terra caecorum. Ma qui si rischia che oltre ad aver a che fare coi ciechi ci sia da battagliare anche coi sordi. Perché non c'è peggior sordo di questi e-sordi letterari giovanili. (Tiè, beccateve pure il gioco di parole finale!).







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