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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Pier Paolo Di Mino

Esordio della collana 'La nave dei folli'. O di ciò che è essenziale.

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Allora, oggi dovremo fare un discorso che, se non è esattamente commerciale e consumista, si colloca però con saldezza nell'ambito di queste due svariate categorie: certamente le considera come premesse. In fondo questo discorso mira a decidere cosa sia meglio commerciare e consumare.

Sarà evidente, innanzitutto, che commerciare e consumare rientrano nel novero di quelle azioni definibili come belle, nel senso propriamente estetico di gesto bello: gesto bello possibile se, però, ciò che è commerciato è cosa ottima da commerciare e, quindi, consumare. In presenza di tale cosa ottima, diventano ottimi sia il commercio che il consumo.

Tanto per non essere elusivi, in questo commerciare e consumare come bel gesto diamo più di quanto guadagniamo e prendiamo. Ora, però, non possiamo limitare il nostro discorso a questa evidenza, avendo ordinatamente sottomesso il bel gesto alla condizione dell'esistenza della cosa ottima. Come potremmo definire questo oggetto? Come ciò che è inevitabilmente necessario, ossia e il cibo e il sesso e la morte? Come ciò che costituisce un'esperienza unica ed eccezionale, ossia e il cibo e il sesso e la morte? Come un'esperienza incostantemente di nutrimento e perdita, ossia e il cibo e il sesso e la morte?

Inutile moltiplicare gli esempi. Con le definizioni non arriviamo da nessuna parte. Sono utili ma non ci portano a niente. Anzi, voglio dirlo subito: non ci portano a niente perché sono utili.

Vorrei mostrare in quale modo l'utilità si pone come soffocante impaccio nelle nostre vite, prelevando un esempio, fra i tanti, nel cuore di un problema che investe ancora il romanticismo postumo della nostra epoca. Parlo della fascinosa querelle fra razionalisti e irrazionalisti, in cui il termine ragione è stato posto al centro della contrapposizione con palmare insensatezza, dal momento che entrambe le fazioni, infatti, esercitano il piacere della ragione non importa se per affermarne o negarne il valore.

Sarà chiaro che la questione è stata meglio posta a qualsiasi bambino (ho avuto la fortuna di essere uno di costoro) a cui sono state date in lettura le avventure di Viki (Viki il vichingo, di Runer Jonsson) appaiate con quelle di Odisseo: perché è qui che vive il divario fra due mondi inconciliabili.

Viki è un bambino furbo e intelligente, dai pensieri complessi, che risolve tutti i guai che la realtà gli pone dinnanzi, prima di tutto la competizione col forte, fracassone, allegro, avventuroso ed irresistibile padre, il capo villaggio: Viki vive per dimostrare al padre che i problemi si risolvono con la logica, senza doversi dare la pena di vivere. Odisseo, invece, è un uomo furbo e intelligente, dai pensieri complessi, che risolve tutti i guai che inventa da solo per se stesso. Difatti non deve livorosamente competere con nessuno, tantomeno col suo adorato padre, discendente di un dio, (l'anima stessa) il cui dispiegamento nella vita è il senso più netto del suo destino.

Insomma, in Viki c'è la quotidiana noia, la faticosa pena di ragionare per cavarsela, per spuntare qualcosa di utile dalla realtà; in Odisseo la gioia vorticosa del ragionamento come prassi del fare anima.

Bene. Quello che Odisseo mette al centro del suo ragionare è proprio la cosa ottima. La stessa che qui vorremmo invitare a commerciare e consumare.

Insomma stiamo cominciando ad immaginare questa cosa ottima come contorta e intelligente; come capace di fare anima; inutile perché essenziale e necessaria; indefinibile ma non eludibile: straordinariamente circoscritta e concreta. Penso volentieri a mantelli con piume di struzzo vivo; manufatti stupefatti e bizantini; moltissimo a monocoli e bastoni da passeggio; anche a prostitute che, alla fine, spiritosamente, si rivelano essere la Pistis Sophia.

Penso, in genere, alla Letteratura; in particolare, a quella che, con divertimento e palpitazione, gli autori di questa rivista cercano di elaborare da qualche tempo; e a quella di altri compagni i cui destini hanno finito per incrociarsi. Tanto per abusare dell'allegoria (che Melville dall'alto mi perdoni la volgarità del suo impiego), tutta gente con cui ci siamo imbarcati insieme.

Questa barca l'abbiamo chiamata La nave dei folli, ed è diventata una collana editoriale della coraggiosa casa editrice EdiLet. La EdiLet, guidata con solerte amore letterario dal poeta Marco Onofrio, in pochi anni è riuscita a raccogliere le risorse umane per mettere sul mercato, prima che un prodotto, una questione essenziale. È sul solco aperto da questa volontà, speriamo malata di grandezza più di quanto lo fosse Papini, che La nave dei folli prende il largo.

È sotto la forma di una nave di folli, infatti, che qualcuno ha visto questa nostra vita: questo bellissimo niente, avrebbe detto Angelo Silesio. Una nave che è un sogno, ma che, per essere una nave, ha pur sempre bisogno di una guida. E qualcuno deve pure avere pensato che questa guida spetti alla letteratura. Certo qui la letteratura sta per una sorta di macchina che spreme pensieri, che produce l'essenziale, l'essenza della vita. Ed accogliendo questa declinazione della parola letteratura che La nave dei folli offre ciò che è oggi difficilmente trovabile altrove: libri muti, racconti in versi, romanzi lirici, impossibili variazioni sui generi, libri di puro svago metafisico, che si riallacciano al tenace filo rosso che, dai tempi delle raffigurazioni mistiche nelle grotte di Altamira, attraverso le epopee popolari, le magnifiche concrezioni poetiche del platonismo, il Rinascimento, il Barocco, fino al Romanticismo con le sue ultime fiammate nel Dadaismo e nel Surrealismo, vivifica la certezza che la vita sia il luogo dove facciamo la nostra anima, questo vasto mare che ovunque vai non ne trovi il confine, e di cui La nave dei folli è un'avventurosa esploratrice.

Per il momento è tutto qui, perché quanto ad altra e più circoscritta conoscenza della Nave rimandiamo ai libri che da essa verranno abbandonati alla deriva.





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