ATTUALITA'
Adriano Angelini
Festa o Festival, è il cinema il grande assente
Nel clima di pseudo austerità imposto dalla neo giunta comunale di centro-destra, si è chiusa la terza edizione della Festa del cinema di Roma, quest'anno ribattezzata Festival Internazionale del Film. Nonostante le fanfare iniziali, è stata probabilmente la peggiore edizione. A cominciare, purtroppo, dalla qualità dei film selezionati, soprattutto quelli in concorso. Passando, come al solito, per la solita (dis) organizzazione. (Accrediti a 30 e 50 euro che non ti assicurano la visione di un bel niente a meno che, al mattino, non ci si presenti ai botteghini alle nove per fare minimo un'ora e mezza di fila e cercare di prendere i biglietti per quei film che si vorrebbero vedere). Per concludere, ciliegina finale, con tappeti rossi decisamente sotto tono (se si eccettuano l'allegra brigata dei ragazzini festanti per i divi di High School Musical, la Bellucci sempre più mannequin che attrice e un Colin Farrell con capello lungo stile Bruno Conti mondiali di Spagna '82). E tanta, solita retorica sul cinema italiano.
Il patron Gian Luigi Rondi, bontà sua, patron almeno nominale di questo nuovo corso del Festival, si era detto entusiasta perché proprio nella sua città si sarebbe dovuto ridare lustro al povero cinema nostrano, così assediato dai cattivi mostri hollywoodiani. Francamente, se il risultato è questo, stiamo messi male, ma del resto lo sapevamo già. Una delle note più stonate infatti di questo Festival è stata la scarsa qualità dei film italiani. E la cosa più sconcertante a cui si è potuto assistere è stato il premio assegnato dal pubblico. Proprio a un film italiano. Quest'anno infatti, il Marc'Aurelio d'Oro era suddiviso fra la giuria degli spettatori e quella dei critici. Gli spettatori votavano, alla fine delle proiezioni dei film in concorso, con una tesserina magnetica. La loro preferenza è andata a Resolution 819 di Giacomo Battiato. La pellicola prometteva di essere il lavoro più impegnativo del regista. La trama da leccarsi i baffi. Il massacro dei musulmani a Srebrenica durante le guerre balcaniche anni'90, la storia dell'uomo che è riuscito a consegnare alla giustizia i due massacratori Mladic e Karadzic. Finalmente un Denis Tanovic anche in Italia? Macché. Il risultato è stato un anonimo film TV. Con un susseguirsi di scene di massa mal strutturate, il punto di vista della macchina rimasto sempre lo stesso, e le inquadrature ripetute uguali una dietro l'altra; nessun guizzo creativo, nessun coinvolgimento emotivo, seppur davanti ai nostri occhi passavano immagini di orrore e vera tragedia. La vittoria di Battiato è la sconfitta del cinema e l'affermazione definitiva del gusto televisivo fra il pubblico.
Non è di certo andato meglio il premio della critica. I giurati hanno scelto un film che si voleva 'diverso'. Opium War, di Siddiq Barmak, che in vita sua deve aver visto un po' troppo Fellini: è la storia di due piloti americani che precipitano con l'elicottero sulle montagne sperdute dell'Afghanistan e si perdono fra le coltivazioni di oppio. La pellicola voleva essere in principio una commedia (i due attori in realtà ricordavano a mala pena Franco e Ciccio dei tempi d'oro) e in seguito una metafora sulla cattiva pratica di mascherare la difesa degli interessi americani dietro la guerra per esportare la democrazia. Bella la fotografia (ma con simili paesaggi!), imbarazzante la sceneggiatura. Incomprensibile il tentativo di far interagire i due con le comunità locali di contadini, composte da bambini festanti, talebani mascherati da donne col burqa, irritanti vecchie in perenne litigio fra loro e inebriati fumatori d'oppio.
Per tornare in casa nostra. A nulla sono valse le strombazzate celebrazione mediatiche delle (solite) famiglie del cinema italiano: il dovuto omaggio a Gil Rossellini recentemente scomparso, la parata nazional popolare dei De Sica (il figlio Brando a dirigere papà Christian in Parlami di me, sceneggiato nientepopodimeno che dal 'giovane' talento Maurizio Costanzo), la poco conosciuta Maria Sole Tognazzi, la cui prima del suo film L'uomo che ama, che ha inaugurato la sezione dei film in concorso, la si ricorda più per il luccicante parterre politico culturale bipartisan che per le emozioni lasciate. Le pellicole saranno, ahinoi, presto dimenticate. Già archiviato invece il film dell'illustre sconosciuto Matteo Rovere, 25enne regista che con Gioco da ragazze ammicca al bullismo e alla dissennatezza borghese stavolta dalla parte di quattro fanciulle annoiate e 'cattive' (un Moccia più pretenzioso, insomma). Verrebbe da chiedere, con una buona dose di populismo, perché i nostri soldi (il film è prodotto Rai) devono finire nelle tasche di questi personaggi a dir poco sostenuti da chissà quali opportune amicizie. E perché quasi la maggior parte dei lungometraggi italiani selezionati esca appunto dalle cantine di Mamma Rai, in un monopolio sfrontato che non ha lasciato nessuno, e dico nessuno spazio al cinema indipendente.
Direte, possibile un tale sfacelo? No, bè. Se volete c'è stato il filmino con Claudio Bisio, tanto acclamato dal pubblico. Si può fare, una commedia dolce amara di Giulio Manfredonia che in altri tempi (quando nei Festival ci andava gente come Bertolucci) sarebbe uscito al massimo come film di Natale. Oppure la pellicola che è sembrata tanto un'operazione per voler accontentare la nuova giunta capitolina, quel Sangue dei Vinti, tratto dal romanzo di Giampaolo Pansa, diretto dall'iper televisivo Michele Soavi e interpretato dall'immancabile Michele Placido, in cui si è voluto dare voce a "quei vinti (i repubblichini) che combatterono dalla parte 'sbagliata' e caddero senza neppure il sollievo della sepoltura". Uniche, e sottolineo, uniche note positive che hanno dato un minimo risalto al cinema italiano: la straordinaria interpretazione di Donatella Finocchiaro (giustamente premiata come miglior attrice) nel film di Edoardo Winspeare Galantuomini (una storia di Sacra Corona Unita, amicizie tradite e tossicodipendenza) e il bellissimo, e ripeto, bellissimo film di Daniele Vicari, regista romano alla terza prova, stavolta tratta dal romanzo di Gianrico Carofiglio Il passato è una terra straniera. Una vicenda di amicizia nel mondo del poker clandestino fra due ragazzi di estrazione sociale diversa. Importanti le interpretazioni dei due protagonisti Elio Germano e Michele Riondino. Affascinante la Puglia descritta dal regista che si conferma uno dei migliori talenti di questo sventurato mondo.
Dall'Italia all'estero passando da una sala all'altra. Niente di particolarmente indimenticabile. Niente che si possa neppure lontanamente paragonare ai capolavori che sono passati lo scorso anno su questi schermi (ne ricordiamo tre su tutti: Nelle terre selvagge di Sean Pean; Onora il padre e la madre di Sidney Lumet e Juno, di Jason Reitman). Qualche nota di merito si può ascrivere a La banda Baader-Meinhof, di Uli Edel, la storia del gruppo terroristico anni'70 tedesco conosciuto con l'acronimo RAF, un film abbastanza spiazzante che ha lasciato intendere come la disputa stato-gruppi estremisti, con i suoi strascichi di sangue e risentimenti, in Germania, ad oggi, sia tutt'altro che conclusa. E poi il brasiliano Meu nome não é Johnny, di Mauro Lima, campione d'incassi in patria. La storia, vera, di un ricco ragazzo della borghesia carioca che si trasforma in spacciatore (e dipendente) di cocaina per divertimento e rimarrà coinvolto in traffici più grandi di lui che lo porteranno fin dentro le terribili carceri di Rio. Grande pubblico ha attirato il film di Guy Ritchie, Rocknrolla, un evento speciale che presto sarà anche nelle nostre sale.
Non ci sembra di aver dimenticato qualcosa, o qualcuno. Forse, per dovere di cronaca, è bene ricordare gli altri premi assegnati. Premio Alice nelle città (categoria 8 - 12 anni) Magique! di Philippe Muyl, premio Alice nelle città (categoria 13 – 17 anni) Summer di Kenneth Glenaan. I premi alla carriera sono andati a Gina Lollobrigida e all'Actor Studio, ritirato quest'ultimo da uno splendido Al Pacino, che ha aperto giovedì 22 ottobre l'edizione e che ha mostrato il suo bellissimo e intenso volto da anziano che sa invecchiare senza un solo spillo di lifting, ma con tutte e proprio tutte le rughe al loro posto. Ultima e non meno importante pecca. Ma perché la Casina delle Rose, che ha il monopolio del Catering durante il Festival, fa pagare un caffé 1,50 euro? Per giunta servito in simil tazze di plastica che inquinano? Le sa queste cose il neo-sindaco taglia sprechi ed eccessi?
p.s. Ma Uolter dov'è? Perché non torna nel settore che più gli compete, il cinema appunto?
Il patron Gian Luigi Rondi, bontà sua, patron almeno nominale di questo nuovo corso del Festival, si era detto entusiasta perché proprio nella sua città si sarebbe dovuto ridare lustro al povero cinema nostrano, così assediato dai cattivi mostri hollywoodiani. Francamente, se il risultato è questo, stiamo messi male, ma del resto lo sapevamo già. Una delle note più stonate infatti di questo Festival è stata la scarsa qualità dei film italiani. E la cosa più sconcertante a cui si è potuto assistere è stato il premio assegnato dal pubblico. Proprio a un film italiano. Quest'anno infatti, il Marc'Aurelio d'Oro era suddiviso fra la giuria degli spettatori e quella dei critici. Gli spettatori votavano, alla fine delle proiezioni dei film in concorso, con una tesserina magnetica. La loro preferenza è andata a Resolution 819 di Giacomo Battiato. La pellicola prometteva di essere il lavoro più impegnativo del regista. La trama da leccarsi i baffi. Il massacro dei musulmani a Srebrenica durante le guerre balcaniche anni'90, la storia dell'uomo che è riuscito a consegnare alla giustizia i due massacratori Mladic e Karadzic. Finalmente un Denis Tanovic anche in Italia? Macché. Il risultato è stato un anonimo film TV. Con un susseguirsi di scene di massa mal strutturate, il punto di vista della macchina rimasto sempre lo stesso, e le inquadrature ripetute uguali una dietro l'altra; nessun guizzo creativo, nessun coinvolgimento emotivo, seppur davanti ai nostri occhi passavano immagini di orrore e vera tragedia. La vittoria di Battiato è la sconfitta del cinema e l'affermazione definitiva del gusto televisivo fra il pubblico.
Non è di certo andato meglio il premio della critica. I giurati hanno scelto un film che si voleva 'diverso'. Opium War, di Siddiq Barmak, che in vita sua deve aver visto un po' troppo Fellini: è la storia di due piloti americani che precipitano con l'elicottero sulle montagne sperdute dell'Afghanistan e si perdono fra le coltivazioni di oppio. La pellicola voleva essere in principio una commedia (i due attori in realtà ricordavano a mala pena Franco e Ciccio dei tempi d'oro) e in seguito una metafora sulla cattiva pratica di mascherare la difesa degli interessi americani dietro la guerra per esportare la democrazia. Bella la fotografia (ma con simili paesaggi!), imbarazzante la sceneggiatura. Incomprensibile il tentativo di far interagire i due con le comunità locali di contadini, composte da bambini festanti, talebani mascherati da donne col burqa, irritanti vecchie in perenne litigio fra loro e inebriati fumatori d'oppio.
Per tornare in casa nostra. A nulla sono valse le strombazzate celebrazione mediatiche delle (solite) famiglie del cinema italiano: il dovuto omaggio a Gil Rossellini recentemente scomparso, la parata nazional popolare dei De Sica (il figlio Brando a dirigere papà Christian in Parlami di me, sceneggiato nientepopodimeno che dal 'giovane' talento Maurizio Costanzo), la poco conosciuta Maria Sole Tognazzi, la cui prima del suo film L'uomo che ama, che ha inaugurato la sezione dei film in concorso, la si ricorda più per il luccicante parterre politico culturale bipartisan che per le emozioni lasciate. Le pellicole saranno, ahinoi, presto dimenticate. Già archiviato invece il film dell'illustre sconosciuto Matteo Rovere, 25enne regista che con Gioco da ragazze ammicca al bullismo e alla dissennatezza borghese stavolta dalla parte di quattro fanciulle annoiate e 'cattive' (un Moccia più pretenzioso, insomma). Verrebbe da chiedere, con una buona dose di populismo, perché i nostri soldi (il film è prodotto Rai) devono finire nelle tasche di questi personaggi a dir poco sostenuti da chissà quali opportune amicizie. E perché quasi la maggior parte dei lungometraggi italiani selezionati esca appunto dalle cantine di Mamma Rai, in un monopolio sfrontato che non ha lasciato nessuno, e dico nessuno spazio al cinema indipendente.
Direte, possibile un tale sfacelo? No, bè. Se volete c'è stato il filmino con Claudio Bisio, tanto acclamato dal pubblico. Si può fare, una commedia dolce amara di Giulio Manfredonia che in altri tempi (quando nei Festival ci andava gente come Bertolucci) sarebbe uscito al massimo come film di Natale. Oppure la pellicola che è sembrata tanto un'operazione per voler accontentare la nuova giunta capitolina, quel Sangue dei Vinti, tratto dal romanzo di Giampaolo Pansa, diretto dall'iper televisivo Michele Soavi e interpretato dall'immancabile Michele Placido, in cui si è voluto dare voce a "quei vinti (i repubblichini) che combatterono dalla parte 'sbagliata' e caddero senza neppure il sollievo della sepoltura". Uniche, e sottolineo, uniche note positive che hanno dato un minimo risalto al cinema italiano: la straordinaria interpretazione di Donatella Finocchiaro (giustamente premiata come miglior attrice) nel film di Edoardo Winspeare Galantuomini (una storia di Sacra Corona Unita, amicizie tradite e tossicodipendenza) e il bellissimo, e ripeto, bellissimo film di Daniele Vicari, regista romano alla terza prova, stavolta tratta dal romanzo di Gianrico Carofiglio Il passato è una terra straniera. Una vicenda di amicizia nel mondo del poker clandestino fra due ragazzi di estrazione sociale diversa. Importanti le interpretazioni dei due protagonisti Elio Germano e Michele Riondino. Affascinante la Puglia descritta dal regista che si conferma uno dei migliori talenti di questo sventurato mondo.
Dall'Italia all'estero passando da una sala all'altra. Niente di particolarmente indimenticabile. Niente che si possa neppure lontanamente paragonare ai capolavori che sono passati lo scorso anno su questi schermi (ne ricordiamo tre su tutti: Nelle terre selvagge di Sean Pean; Onora il padre e la madre di Sidney Lumet e Juno, di Jason Reitman). Qualche nota di merito si può ascrivere a La banda Baader-Meinhof, di Uli Edel, la storia del gruppo terroristico anni'70 tedesco conosciuto con l'acronimo RAF, un film abbastanza spiazzante che ha lasciato intendere come la disputa stato-gruppi estremisti, con i suoi strascichi di sangue e risentimenti, in Germania, ad oggi, sia tutt'altro che conclusa. E poi il brasiliano Meu nome não é Johnny, di Mauro Lima, campione d'incassi in patria. La storia, vera, di un ricco ragazzo della borghesia carioca che si trasforma in spacciatore (e dipendente) di cocaina per divertimento e rimarrà coinvolto in traffici più grandi di lui che lo porteranno fin dentro le terribili carceri di Rio. Grande pubblico ha attirato il film di Guy Ritchie, Rocknrolla, un evento speciale che presto sarà anche nelle nostre sale.
Non ci sembra di aver dimenticato qualcosa, o qualcuno. Forse, per dovere di cronaca, è bene ricordare gli altri premi assegnati. Premio Alice nelle città (categoria 8 - 12 anni) Magique! di Philippe Muyl, premio Alice nelle città (categoria 13 – 17 anni) Summer di Kenneth Glenaan. I premi alla carriera sono andati a Gina Lollobrigida e all'Actor Studio, ritirato quest'ultimo da uno splendido Al Pacino, che ha aperto giovedì 22 ottobre l'edizione e che ha mostrato il suo bellissimo e intenso volto da anziano che sa invecchiare senza un solo spillo di lifting, ma con tutte e proprio tutte le rughe al loro posto. Ultima e non meno importante pecca. Ma perché la Casina delle Rose, che ha il monopolio del Catering durante il Festival, fa pagare un caffé 1,50 euro? Per giunta servito in simil tazze di plastica che inquinano? Le sa queste cose il neo-sindaco taglia sprechi ed eccessi?
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