RECENSIONI
Jennifer Guglielmo, Salvatore Salerno (a cura di)
Gli italiani sono bianchi?
Il Saggiatore, Pag.383 Euro 19,50
Quest'è una raccolta di saggi (relativi pure agli aspetti culturali, vedi l'esposto su Philip Lamantia poeta, p. 150 e segg.) che si occupa degli immigrati in USA "di razza italiana"; di come affrontarono lo status e l'immagine conseguente all'essere figli di Ausonia; dei loro tentativi di adire o contestare, negando o affermando la propria concorrente italianità, la "razza bianca" (omologazione avviata con la guerra d'Etiopia, e ottenuta fra i '60 e gli '80 - cfr. pp. 206-221. Catalisi: il contrasto coi neri (pp. 221, 227, 231)) ; infine, vi si referta dei rapporti non facili di "inte(g)razione" tra gli italiani e i "non bianchi" per eccellenza, i pronipoti di Cam. Rapporti complessi, esemplati dalle storie di chi ha un piede in entrambe le "two tribes" (es. l'attore Giancarlo Esposito).
Ma: prima di esserlo per gli statunitensi, gli italiani erano "bianchi" per i loro compatrioti? (p. 49) Non tutti: "in Italia, gli antropologi positivisti Cesare Lombroso, Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo (...) alla fine del XIX secolo sostenevano l'esistenza di differenze razziali tra nord e sud". (p. 128) Segnatamente - e prima dell'allucinogena neuropatìa celtica di Bossi & C. -, Lombroso le trovava nella diversa attitudine al crimine; Sergi credeva che i meridionali venissero da una razza "africana", allorché i settentrionali discendessero da una popolazione "ariana"; mentre Niceforo, più propenso a trovar cause storiche invece che biologiche, riteneva comunque i bistrattati abitanti del Sud più individualisti e (incredibile ma vero!) ""un popolo donna", in contrasto con i settentrionali, più mascolini" (riassumo da p. 70 - e vàll'a ddi' a Alex Drastico!). Però, basandosi sui loro criteri, i compilatori del Dictionary of Races and Peoples, manuale concepito per catalogare i nuovi arrivi nella terra degli uomini liberi e fieri, dichiaravano "meridionali" insino i genovesi. (p. 74)
His fretus, introdurre il discorso sul posto occupato dagli italiani nella gerarchia razziale (e razzista) negli Stati Uniti non è impresa facilissima. Oltretutto, perché l'opinione degli "americani puri" (chiunque essi fossero, in un continente per metà ispanico, che ha preso il nome da un italiano, e dove gli unici "nativi" erano e sono i cosiddetti "indiani", derive genetiche d'una migrazione dall'Asia) non era omogenea: a parte chi ci salvava in zona Cesarini per via dell'impero romano (poi dice che non serviamo a un cazzo...), insinuando dubbi nei razzisti perché "se non erano bianchi gli italiani avrebbe potuto non esserlo anche gran parte della civiltà occidentale", (p. 57) la pubblica opinione - bontà sua - sembra generalmente considerasse noi waps, dagos, greasers, guineas come bianchi, cioè né "neri non visibili", e neppure "non visibilmente neri". (p. 77 e 122-3: non ho ben capito che differenza ci passi, però). Il che non significa che ci volessero bene; ai nostri cafoni (capitale: Niù Iòrch, sive Broccolino, cfr. Fontamara) venivano appioppati tutti i difetti che troviamo negli extracomunitari (svizzeri esclusi): a cominciare da chi non ci voleva - "via questi orribili latini che contagiano la nostra razza", (p. 15) e "i diritti dei cittadini americani che amano il proprio paese e rispettano la legge sono più sacri dei diritti di un qualsiasi delinquente dago assassino che l'Onnipotente abbia creato o creerà mai"; (p. 101) passando per quelli del "sì, ma" - "vogliamo l'immigrazione fino a un certo punto, ma non vogliamo chicchessia!"; (p. 56) superando coloro i quali ci imputavano (pensa un po' che tara!) di far comunella con gli afroamericani - "essi trattavano principalmente coi negri e socializzavano con loro quasi in termini di uguaglianza" ; (p. 15, e vedi p. 149) e giungendo a tutta la pubblica opinione sbarcata poco prima di noi, che ci trovava brutti sporchi e cattivi: "il problema (...) era che i siciliani "non tengono pulite le loro abitazioni; strappano la pavimentazione di legno del marciapiede e danneggiano la reputazione della zona in molti altri modi"; (p. 50) gli "americani di origine anglosassone (...) li ritenevano pigri, inclini alla delinquenza, inferiori sul piano intellettivo ed eccessivamente sensuali" (p. 268) (chi altro vi ricorda questa descrizione?). D'altra parte, l'insita criminosità degli italici perdura nella rappresentazione collettiva nordamericana, pure se con i tratti "vagamente esotici, spesso buffoneschi e di un bianco rassicurante" dei "mafiosi della East Coast" (p. 239) e del serial tv The soprano's. (ivi)
Comunque, "anche se gli italiani soffrivano di una presunta indesiderabilità razziale in quanto italiani o italiani meridionali, godevano (...) di innumerevoli benefici per lo status derivante dall'essere di colore bianco". (p. 49) E qui (ri)comincia la metà spiacevole della storia: ovvero, la tendenza che hanno gli oppressi a scampare agli oppressori non combattendoli, ma omologandosi. Durante la guerra di Libia, alcuni sindacalisti italoamericani sostennero il diritto del Bel Paese a "civilizzare" la quarta sponda, (pp. 126-127) utilizzando i sofismi che i razzisti USA adopravano contro di loro; e trovo scritto (a p. 175 - ma vedi p. 221) "come ci eravamo trasformati (noi italiani, nota mia) da vittime perseguitate dai linciaggi a orgogliosi capibanda di linciatori assetati di sangue? Il messaggio era chiaro. Da sempre noi italiani americani cerchiamo di prender le distanze dai neri (...) per essere accettati come bianchi". Fa' la cosa giusta (p. 233) di Spike Lee (visto peraltro come successore o almeno collegato a La febbre del sabato sera), e i successivi e paralleli fatti di Bensonhurst - perché "la vita imita l'arte che imita la vita" (p. 234) - resocontano di questa involuzione. Così come - e non è secondario - l'inesausta ricerca d'integrazione e d'identità dei "diversi" posta nel presente libro e in altri che ne discorrono pone la domanda: ma chi sono gli "uguali", i "bianchi", a cui i "dago" tendono? Sono quelli che "ce l'hanno fatta"; (p. 219) è l'apertura di un supermercato Wal-mart nella "Little Italy" di Filadelfia che "segna l'ingresso definitivo degli italiani americani nel mainstream della società statunitense bianca"; (p. 221) è "la litania di politici conservatori e uomini d'affari di successo", (p. 239) che quell'ingresso garantisce e difende dalla "marea nera". E a questo punto si può sostenere che l'assurgere della comunità italiana all'immacolata "bianchezza" della casta bramina americana anticipa e prefigura l'emersione e l'esplosione del razzismo "di compensazione" in Italia - come si può individuare nell'attitudine al consumo la vera e unica identità consolidata che l'Occidente US-ificato possa offrire ai suoi: "compro, dunque sono".
Ahinoi, che brutta retorica ho tirato fuori. Ma s'impara quel che sempre si sa: Angelo Del Boca ha spiegato che, in quanto a ferocia, i nostri connazionali non sono secondi a nessuno - come certificavano già Pisa e Genova nell'Inferno. E dalla presente antologia, si desume che appena qualcuno esce dalla merda, incomincia a smerdare chi ancora ci si dibatte - e che magari lo aiutò a uscirne. E tuttavia: è sempre bene che ci sia qualcuno che mette il banale, il risaputo, nero su bianco - a futura memoria e "pe' lo intrattenemento de'li peccerìlli". Per tentare di evitare, almeno una volta, di accorgersi "che la formula (della discriminazione, nota mia) era priva di contenuto, che era assurda, falsa, ma quando (...) è già troppo tardi". (p. 147)
E siccome "un bel tacer non fu mai scritto", un cenno va in ultimo al "silenzio" di cui parla la regista Kym Ragusa, (p. 259) sul razzismo - patìto o agìto. (p. 287) Solo per rimarcare che questo del tacere è un tema che i Lettori delle nostre web-pagine hanno incontrato nell'ampio spazio dedicato a Goretti e Giartosio: lo ricordo per invitare al confronto delle situazioni e degli àmbiti, e a riflettere sulla banale considerazione che si è sempre i froci (i negri, gli ebrei, i "sudici" meridionali, i romani ladroni e michelacci) di qualcun altro.
di Marco Lanzòl
Ma: prima di esserlo per gli statunitensi, gli italiani erano "bianchi" per i loro compatrioti? (p. 49) Non tutti: "in Italia, gli antropologi positivisti Cesare Lombroso, Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo (...) alla fine del XIX secolo sostenevano l'esistenza di differenze razziali tra nord e sud". (p. 128) Segnatamente - e prima dell'allucinogena neuropatìa celtica di Bossi & C. -, Lombroso le trovava nella diversa attitudine al crimine; Sergi credeva che i meridionali venissero da una razza "africana", allorché i settentrionali discendessero da una popolazione "ariana"; mentre Niceforo, più propenso a trovar cause storiche invece che biologiche, riteneva comunque i bistrattati abitanti del Sud più individualisti e (incredibile ma vero!) ""un popolo donna", in contrasto con i settentrionali, più mascolini" (riassumo da p. 70 - e vàll'a ddi' a Alex Drastico!). Però, basandosi sui loro criteri, i compilatori del Dictionary of Races and Peoples, manuale concepito per catalogare i nuovi arrivi nella terra degli uomini liberi e fieri, dichiaravano "meridionali" insino i genovesi. (p. 74)
His fretus, introdurre il discorso sul posto occupato dagli italiani nella gerarchia razziale (e razzista) negli Stati Uniti non è impresa facilissima. Oltretutto, perché l'opinione degli "americani puri" (chiunque essi fossero, in un continente per metà ispanico, che ha preso il nome da un italiano, e dove gli unici "nativi" erano e sono i cosiddetti "indiani", derive genetiche d'una migrazione dall'Asia) non era omogenea: a parte chi ci salvava in zona Cesarini per via dell'impero romano (poi dice che non serviamo a un cazzo...), insinuando dubbi nei razzisti perché "se non erano bianchi gli italiani avrebbe potuto non esserlo anche gran parte della civiltà occidentale", (p. 57) la pubblica opinione - bontà sua - sembra generalmente considerasse noi waps, dagos, greasers, guineas come bianchi, cioè né "neri non visibili", e neppure "non visibilmente neri". (p. 77 e 122-3: non ho ben capito che differenza ci passi, però). Il che non significa che ci volessero bene; ai nostri cafoni (capitale: Niù Iòrch, sive Broccolino, cfr. Fontamara) venivano appioppati tutti i difetti che troviamo negli extracomunitari (svizzeri esclusi): a cominciare da chi non ci voleva - "via questi orribili latini che contagiano la nostra razza", (p. 15) e "i diritti dei cittadini americani che amano il proprio paese e rispettano la legge sono più sacri dei diritti di un qualsiasi delinquente dago assassino che l'Onnipotente abbia creato o creerà mai"; (p. 101) passando per quelli del "sì, ma" - "vogliamo l'immigrazione fino a un certo punto, ma non vogliamo chicchessia!"; (p. 56) superando coloro i quali ci imputavano (pensa un po' che tara!) di far comunella con gli afroamericani - "essi trattavano principalmente coi negri e socializzavano con loro quasi in termini di uguaglianza" ; (p. 15, e vedi p. 149) e giungendo a tutta la pubblica opinione sbarcata poco prima di noi, che ci trovava brutti sporchi e cattivi: "il problema (...) era che i siciliani "non tengono pulite le loro abitazioni; strappano la pavimentazione di legno del marciapiede e danneggiano la reputazione della zona in molti altri modi"; (p. 50) gli "americani di origine anglosassone (...) li ritenevano pigri, inclini alla delinquenza, inferiori sul piano intellettivo ed eccessivamente sensuali" (p. 268) (chi altro vi ricorda questa descrizione?). D'altra parte, l'insita criminosità degli italici perdura nella rappresentazione collettiva nordamericana, pure se con i tratti "vagamente esotici, spesso buffoneschi e di un bianco rassicurante" dei "mafiosi della East Coast" (p. 239) e del serial tv The soprano's. (ivi)
Comunque, "anche se gli italiani soffrivano di una presunta indesiderabilità razziale in quanto italiani o italiani meridionali, godevano (...) di innumerevoli benefici per lo status derivante dall'essere di colore bianco". (p. 49) E qui (ri)comincia la metà spiacevole della storia: ovvero, la tendenza che hanno gli oppressi a scampare agli oppressori non combattendoli, ma omologandosi. Durante la guerra di Libia, alcuni sindacalisti italoamericani sostennero il diritto del Bel Paese a "civilizzare" la quarta sponda, (pp. 126-127) utilizzando i sofismi che i razzisti USA adopravano contro di loro; e trovo scritto (a p. 175 - ma vedi p. 221) "come ci eravamo trasformati (noi italiani, nota mia) da vittime perseguitate dai linciaggi a orgogliosi capibanda di linciatori assetati di sangue? Il messaggio era chiaro. Da sempre noi italiani americani cerchiamo di prender le distanze dai neri (...) per essere accettati come bianchi". Fa' la cosa giusta (p. 233) di Spike Lee (visto peraltro come successore o almeno collegato a La febbre del sabato sera), e i successivi e paralleli fatti di Bensonhurst - perché "la vita imita l'arte che imita la vita" (p. 234) - resocontano di questa involuzione. Così come - e non è secondario - l'inesausta ricerca d'integrazione e d'identità dei "diversi" posta nel presente libro e in altri che ne discorrono pone la domanda: ma chi sono gli "uguali", i "bianchi", a cui i "dago" tendono? Sono quelli che "ce l'hanno fatta"; (p. 219) è l'apertura di un supermercato Wal-mart nella "Little Italy" di Filadelfia che "segna l'ingresso definitivo degli italiani americani nel mainstream della società statunitense bianca"; (p. 221) è "la litania di politici conservatori e uomini d'affari di successo", (p. 239) che quell'ingresso garantisce e difende dalla "marea nera". E a questo punto si può sostenere che l'assurgere della comunità italiana all'immacolata "bianchezza" della casta bramina americana anticipa e prefigura l'emersione e l'esplosione del razzismo "di compensazione" in Italia - come si può individuare nell'attitudine al consumo la vera e unica identità consolidata che l'Occidente US-ificato possa offrire ai suoi: "compro, dunque sono".
Ahinoi, che brutta retorica ho tirato fuori. Ma s'impara quel che sempre si sa: Angelo Del Boca ha spiegato che, in quanto a ferocia, i nostri connazionali non sono secondi a nessuno - come certificavano già Pisa e Genova nell'Inferno. E dalla presente antologia, si desume che appena qualcuno esce dalla merda, incomincia a smerdare chi ancora ci si dibatte - e che magari lo aiutò a uscirne. E tuttavia: è sempre bene che ci sia qualcuno che mette il banale, il risaputo, nero su bianco - a futura memoria e "pe' lo intrattenemento de'li peccerìlli". Per tentare di evitare, almeno una volta, di accorgersi "che la formula (della discriminazione, nota mia) era priva di contenuto, che era assurda, falsa, ma quando (...) è già troppo tardi". (p. 147)
E siccome "un bel tacer non fu mai scritto", un cenno va in ultimo al "silenzio" di cui parla la regista Kym Ragusa, (p. 259) sul razzismo - patìto o agìto. (p. 287) Solo per rimarcare che questo del tacere è un tema che i Lettori delle nostre web-pagine hanno incontrato nell'ampio spazio dedicato a Goretti e Giartosio: lo ricordo per invitare al confronto delle situazioni e degli àmbiti, e a riflettere sulla banale considerazione che si è sempre i froci (i negri, gli ebrei, i "sudici" meridionali, i romani ladroni e michelacci) di qualcun altro.
di Marco Lanzòl
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