ATTUALITA'
Stefano Torossi
Granitica certezza.
Johann Sebastian Bach. La nostra granitica certezza. Da sempre. La musica di Bach la puoi frullare, tostare, tritare, sempre commestibile rimane. Dalla toccata e fuga per organo trasferita all’orchestra in Fantasia di Disney, alle versioni jazzate di Jacques Lussier, Swingle Singers, Uri Caine, alla sigla di Piero Angela; è sempre lui, il monumento che si mantiene immacolato nella sua equilibrata perfezione, come il Marcaurelio, anche coperto da cacche di piccione.
Traumatica scoperta venerdì 9 maggio al Goethe Institut, dove ci siamo recati, spinti dalla temeraria audacia di voler confermare ancora una volta questa nostra certezza. La colpa è tutta di uno sconsiderato, a nome Denis Patkovic, giovane di origine slava, fra l’altro titolare della cattedra dello strumento di cui stiamo per parlare, al conservatorio di Tokio.
Tagliamo corto con la suspense. Il giovanotto aveva in mente di somministrarci le Variazioni Goldberg, e lo ha fatto eseguendole lui stesso alla fisarmonica.
Nulla di scandaloso, naturalmente. Dopo aver dichiarato che Bach resiste a tutto, sarebbe stato da bacchettoni contestare un “Bach all’accordeon”, no?
No, sarebbe stato da saggi. Perché è proprio in questa occasione che il granito della nostra certezza si è screpolato. Come si sa le Variazioni Goldberg sono quasi tutte in tre quarti, un tempo che, sul cembalo di Bach, o magari con Glenn Gould al pianoforte, o ancora su un grand’organo può trasmettere la più sublime delle raffinatezze o l’imponente maestà di una cattedrale, ma che (per esempio nella prima variazione) alla fisarmonica diventa il zum-pa-pa di una mazurka da festa sull’aia.
Proprio perché il suono di questo strumento, non c’è niente da fare, è associato alla balera popolare. E ancora peggio accade con l’esposizione del tema iniziale da cui derivano le variazioni. Con tutta la sua pensosa sobrietà, suonato dalla fisarmonica si trasforma nel sottofondo di un bivacco di alpini sul Monte Grappa.
Forse siamo davvero bacchettoni, ma non abbiamo resistito e ce ne siamo andati. Con tante scuse agli amici fisarmonicisti.
Venti polari. Quelli che soffiavano mercoledì 14 (maggio, mica dicembre) verso le diciannove, mentre il sole tramontava dietro minacciosi nuvoloni. Insieme ad altri quattro stravolti sedevamo sulle gelide gradinate della cavea del Parco della Musica in attesa di un’annunciata performance propedeutica alla mostra di Francesco Fonassi.
Dopo il consueto ritardo romanesco (minimo mezz’ora), dagli altoparlanti piazzati ai fianchi dei suddetti stravolti è cominciato a uscire un rombo profondo come di motori, con ogni tanto qualche impennata del volume. Dieci minuti di questo pretenzioso nulla, mentre la tormenta infuriava, sono stati abbastanza per convincerci a puntare verso il bar e il terapeutico Negroni.
“Il lavoro di Fonassi si focalizza sulle dinamiche dell’ascolto e sui meccanismi della percezione uditiva, testandone limiti e potenzialità in termini intersoggettivi.” Questo brano della presentazione, scritto in squisita prosa artistichese, vuol dire, per i semplicioni come noi e forse anche voi, che il suono parte alto o basso dall’altoparlante e arriva all’orecchio di uno che lo sente troppo forte o di un altro che lo sente troppo piano. Niente di più.
Gli altri, intellettuali duri e puri (c’erano anche alcuni anziani, probabilmente professori, accompagnati da graziose, pigolanti studentesse) congelati sul marmo. Voto zero alla performance. Ci siamo spostati allo Spazio Arte dove proseguiva la mostra vera e propria, e dobbiamo confermare il giudizio. Si trattava della proiezione di un filmato, commentato dalla stessa musica di prima, girato con grande, monotona ripetizione di inquadrature, tagli, luci, (probabilmente in altra sede gabellata per audace nonconformismo) dentro una cava di marmo. Movimenti della camera verticali-orizzontali-diagonali seguendo le fessure della pietra, o rotatori sui segni della sega circolare. Mah.
Il Parco della Musica è uno straordinario luogo di aggregazione; e anche quelle volte che non succede niente di speciale, ci permette di trovarci in mezzo a facce di artisti, serie, buffe, forse supponenti, ma di sicuro meno inquietanti e minacciose di quelle che si incontrano a un raduno di tifosi, o fra la folla dei ragazzotti ubriachi di Campo de’ Fiori.
E poi, a portata di mano, anzi di bar, c’è sempre il già citato Negroni.
PS. Fighetta Salsiccia. Il Cavalier Serpente vuole fare le sue più sincere congratulazioni alla donna barbuta che ha vinto l’Eurovision Song Contest. Non tanto per la canzone, un pezzo commerciale niente male, quanto per lo spirito con cui ha scelto il proprio nome d’arte, bisex e multinazionale: Conchita Wurst.
In Sudamerica “concha” vuol dire conchiglia, ma anche vulva, e il suo diminutivo conchita, oltre che per Concettina, sta per fighetta. In tedesco ”wurst” significa salsiccia (anche salame, tanto per non farci mancare niente), come dovrebbero sapere tutti quelli a cui piacciono gli insaccati. I riferimenti ci sembrano trasparenti.
Conchita Wurst, ovvero Fighetta Salsiccia. Geniale.
Traumatica scoperta venerdì 9 maggio al Goethe Institut, dove ci siamo recati, spinti dalla temeraria audacia di voler confermare ancora una volta questa nostra certezza. La colpa è tutta di uno sconsiderato, a nome Denis Patkovic, giovane di origine slava, fra l’altro titolare della cattedra dello strumento di cui stiamo per parlare, al conservatorio di Tokio.
Tagliamo corto con la suspense. Il giovanotto aveva in mente di somministrarci le Variazioni Goldberg, e lo ha fatto eseguendole lui stesso alla fisarmonica.
Nulla di scandaloso, naturalmente. Dopo aver dichiarato che Bach resiste a tutto, sarebbe stato da bacchettoni contestare un “Bach all’accordeon”, no?
No, sarebbe stato da saggi. Perché è proprio in questa occasione che il granito della nostra certezza si è screpolato. Come si sa le Variazioni Goldberg sono quasi tutte in tre quarti, un tempo che, sul cembalo di Bach, o magari con Glenn Gould al pianoforte, o ancora su un grand’organo può trasmettere la più sublime delle raffinatezze o l’imponente maestà di una cattedrale, ma che (per esempio nella prima variazione) alla fisarmonica diventa il zum-pa-pa di una mazurka da festa sull’aia.
Proprio perché il suono di questo strumento, non c’è niente da fare, è associato alla balera popolare. E ancora peggio accade con l’esposizione del tema iniziale da cui derivano le variazioni. Con tutta la sua pensosa sobrietà, suonato dalla fisarmonica si trasforma nel sottofondo di un bivacco di alpini sul Monte Grappa.
Forse siamo davvero bacchettoni, ma non abbiamo resistito e ce ne siamo andati. Con tante scuse agli amici fisarmonicisti.
Venti polari. Quelli che soffiavano mercoledì 14 (maggio, mica dicembre) verso le diciannove, mentre il sole tramontava dietro minacciosi nuvoloni. Insieme ad altri quattro stravolti sedevamo sulle gelide gradinate della cavea del Parco della Musica in attesa di un’annunciata performance propedeutica alla mostra di Francesco Fonassi.
Dopo il consueto ritardo romanesco (minimo mezz’ora), dagli altoparlanti piazzati ai fianchi dei suddetti stravolti è cominciato a uscire un rombo profondo come di motori, con ogni tanto qualche impennata del volume. Dieci minuti di questo pretenzioso nulla, mentre la tormenta infuriava, sono stati abbastanza per convincerci a puntare verso il bar e il terapeutico Negroni.
“Il lavoro di Fonassi si focalizza sulle dinamiche dell’ascolto e sui meccanismi della percezione uditiva, testandone limiti e potenzialità in termini intersoggettivi.” Questo brano della presentazione, scritto in squisita prosa artistichese, vuol dire, per i semplicioni come noi e forse anche voi, che il suono parte alto o basso dall’altoparlante e arriva all’orecchio di uno che lo sente troppo forte o di un altro che lo sente troppo piano. Niente di più.
Gli altri, intellettuali duri e puri (c’erano anche alcuni anziani, probabilmente professori, accompagnati da graziose, pigolanti studentesse) congelati sul marmo. Voto zero alla performance. Ci siamo spostati allo Spazio Arte dove proseguiva la mostra vera e propria, e dobbiamo confermare il giudizio. Si trattava della proiezione di un filmato, commentato dalla stessa musica di prima, girato con grande, monotona ripetizione di inquadrature, tagli, luci, (probabilmente in altra sede gabellata per audace nonconformismo) dentro una cava di marmo. Movimenti della camera verticali-orizzontali-diagonali seguendo le fessure della pietra, o rotatori sui segni della sega circolare. Mah.
Il Parco della Musica è uno straordinario luogo di aggregazione; e anche quelle volte che non succede niente di speciale, ci permette di trovarci in mezzo a facce di artisti, serie, buffe, forse supponenti, ma di sicuro meno inquietanti e minacciose di quelle che si incontrano a un raduno di tifosi, o fra la folla dei ragazzotti ubriachi di Campo de’ Fiori.
E poi, a portata di mano, anzi di bar, c’è sempre il già citato Negroni.
PS. Fighetta Salsiccia. Il Cavalier Serpente vuole fare le sue più sincere congratulazioni alla donna barbuta che ha vinto l’Eurovision Song Contest. Non tanto per la canzone, un pezzo commerciale niente male, quanto per lo spirito con cui ha scelto il proprio nome d’arte, bisex e multinazionale: Conchita Wurst.
In Sudamerica “concha” vuol dire conchiglia, ma anche vulva, e il suo diminutivo conchita, oltre che per Concettina, sta per fighetta. In tedesco ”wurst” significa salsiccia (anche salame, tanto per non farci mancare niente), come dovrebbero sapere tutti quelli a cui piacciono gli insaccati. I riferimenti ci sembrano trasparenti.
Conchita Wurst, ovvero Fighetta Salsiccia. Geniale.
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