ATTUALITA'
Stefano Torossi
I cent'anni di Nino Rota. L'Immacolata e la coppia Fiorello/Benigni.
Cent'anni dalla nascita di Nino Rota. E' un'occasione (anche se non siamo certo gli unici a occuparci di questo argomento) per farci una perplessa domanda su quell'ultimo gradino che è mancato a un dignitosissimo musicista come Nino Rota per arrivare in cima alla scala e diventare una star, tipo, da una parte, Puccini o Lloyd Webber, e dall'altra, per dire, Henry Mancini.
Perché è chiaro che qualcosa è mancato. L'accoppiata con un regista come Fellini, avrebbe dovuto essere più che sufficiente per innalzare questo suo collaboratore sulle vette, invece non è suc-cesso (magari, come dice qualcuno, è proprio colpa di Fellini). Certo, tutti si ricordano la marcetta di Otto e mezzo, o la filastrocca di Gian Burrasca ma a nessuno viene da togliersi il cappello davanti a queste trovate, per carità, perfettamente funzionali alle immagini, come dev'essere una musica di commento per il cinema. Mentre invece ci piacerebbe incontrare una sola persona che non sia caduta nell'incantesimo ascoltando un tema, scritto anche questo per un film, ma evidentemente di un altro livello, come 'Moon River'.
Con la musica seria (non condividiamo la definizione, ma tanto per capirci) poi, l'ultimo scalino risulta ancora più ripido. Nell'opera buffa di Rota "Il cappello di paglia di Firenze", naturalmente ben congegnata e orchestrata impeccabilmente non c'è neanche una romanza, un'aria, insomma qualcosa che inchiodi la musica alle orecchie e al cuore del pubblico. Non crediamo che ci sia bisogno di tirare fuori 'Un bel dì vedremo', o 'Don't cry for me Argentina' per far capire cosa intendiamo. Questa opera è come una di quelle commedie brillanti francesi fine ottocento, o anche un Goldoni, costruita su uno schema super collaudato, ma puramente meccanico, senza un tocco di genio. Anche Paisiello o Rossini scrivevano opere brillanti, ma dentro c'erano fior di arie e ouverture, o colpi di scena così azzeccati da essere ancora oggi assolutamente moderni.
E il suo concerto per archi, per citare l'altra sua composizione conosciuta, ha lo stesso sapore. Una veste formalmente brillante, una realizzazione tecnicamente perfetta, un uso corretto degli strumenti e come risultato, poco più di un "è tutto qui?".
E' il solito problema. Se la storia seppellisce un'opera, un quadro, un libro (per esempio il libro-fenomeno Orcynus Orca di qualche anno fa, o i quadri di Guttuso) vorrà pur dire qualcosa. Il genio vero poteva rimanere misconosciuto per qualche tempo quando non c'era ancora un'informazione vasta, veloce e completa come oggi. Per uscire Van Gogh ci ha messo meno di mezzo secolo, Bach, più indietro nel tempo, quasi due, ma nel Duemila se qualcosa scompare è perché non funziona e basta.
E invece, guarda un po', proprio il pomeriggio di giovedì 8 dicembre, festa dell'Immacolata, attraversato il formicaio brulicante di maniaci dello shopping, siamo capitati a S. Giacomo in Augu-sta per una messa con organo e coro. E qui siamo stati testimoni del sobrio, eccellente lavoro pieno di fede di una coppia di amici musicisti, Flavio e Silvia Colusso, i quali da anni animano con la loro formazione corale-strumentale (immaginiamo senza essere contaminati dal vil denaro, ma di sicuro con una sincera energia spirituale) una ricca serie di funzioni religiose in varie chiese della città.
Abbiamo assistito all'intera messa, cosa che non ci capitava da tempo, condita di letture di discutibili e fantasiosi episodi delle scritture, come la storia della mela nel paradiso terrestre. Con Dio che chiede ad Adamo se ha assaggiato il frutto proibito. Si, risponde lui, ma è la donna che me l'ha offerto. E alla donna? Lo ha suggerito il serpente. Conclusione: il serpente sia maledetto per l'eternità e condannato a strisciare sul ventre e a essere calpestato. La donna, si sa, è tentatrice, quindi la colpa è anche, anzi quasi del tutto sua, mentre quel bambacione di Adamo se la cava meglio perché in fondo ha solo ceduto alla tentazione.
Per fortuna questa messa (in scena) ha avuto molti intermezzi soprattutto corali. Musica che si srotola suggestiva, sobria, pensosa, spesso malinconica. Finché arriva il Maggiore! Che naturalmente non è un militare. Gli amici musicisti hanno di sicuro capito a cosa mi riferisco. Per gli altri, spiegazione terra terra. Quando un brano di musica trasmette una sensazione di malinconia, tristezza, costrizione, vuol dire che è scritto nel modo minore, una scala in cui le sette note sono separate da distanze particolari che danno per l'appunto la sensazione di malinconia. Senonchè, e crediamo che questo sia un saggio trucco che Santa Madre Chiesa ha imposto ai suoi compositori per rallegrare gli animi dei fedeli, dopo averli ben bene spaventati, molte musiche liturgiche, nell'amen finale, passano al modo maggiore. La terza nota della scala va su di un semitono (ovvero, cambia l'ordine degli intervalli che separano le note) e in un attimo tutto è diverso: si aprono i cuori, la malinconia scompare, e con lei le miserie terrene.
PS. perplesso. Venti milioni di spettatori, picco storico di audience, mezza Italia televisiva a guardare due bambinoni, Benigni e Fiorello, in giacca di lamé e chitarra i quali, sul palcoscenico con licenza di dire cacca e culo cantano insieme il famoso inno del corpo sciolto: "Ci si pulisce il culo dopo aver cacato", "Noi siamo quelli che han cacato di sicuro", e ancora "Viva la merda e chi ha voglia di cacare".
Quaranta milioni di orecchie, share alle stelle, mezza Italia che ride. Proprio non capiamo...
Perché è chiaro che qualcosa è mancato. L'accoppiata con un regista come Fellini, avrebbe dovuto essere più che sufficiente per innalzare questo suo collaboratore sulle vette, invece non è suc-cesso (magari, come dice qualcuno, è proprio colpa di Fellini). Certo, tutti si ricordano la marcetta di Otto e mezzo, o la filastrocca di Gian Burrasca ma a nessuno viene da togliersi il cappello davanti a queste trovate, per carità, perfettamente funzionali alle immagini, come dev'essere una musica di commento per il cinema. Mentre invece ci piacerebbe incontrare una sola persona che non sia caduta nell'incantesimo ascoltando un tema, scritto anche questo per un film, ma evidentemente di un altro livello, come 'Moon River'.
Con la musica seria (non condividiamo la definizione, ma tanto per capirci) poi, l'ultimo scalino risulta ancora più ripido. Nell'opera buffa di Rota "Il cappello di paglia di Firenze", naturalmente ben congegnata e orchestrata impeccabilmente non c'è neanche una romanza, un'aria, insomma qualcosa che inchiodi la musica alle orecchie e al cuore del pubblico. Non crediamo che ci sia bisogno di tirare fuori 'Un bel dì vedremo', o 'Don't cry for me Argentina' per far capire cosa intendiamo. Questa opera è come una di quelle commedie brillanti francesi fine ottocento, o anche un Goldoni, costruita su uno schema super collaudato, ma puramente meccanico, senza un tocco di genio. Anche Paisiello o Rossini scrivevano opere brillanti, ma dentro c'erano fior di arie e ouverture, o colpi di scena così azzeccati da essere ancora oggi assolutamente moderni.
E il suo concerto per archi, per citare l'altra sua composizione conosciuta, ha lo stesso sapore. Una veste formalmente brillante, una realizzazione tecnicamente perfetta, un uso corretto degli strumenti e come risultato, poco più di un "è tutto qui?".
E' il solito problema. Se la storia seppellisce un'opera, un quadro, un libro (per esempio il libro-fenomeno Orcynus Orca di qualche anno fa, o i quadri di Guttuso) vorrà pur dire qualcosa. Il genio vero poteva rimanere misconosciuto per qualche tempo quando non c'era ancora un'informazione vasta, veloce e completa come oggi. Per uscire Van Gogh ci ha messo meno di mezzo secolo, Bach, più indietro nel tempo, quasi due, ma nel Duemila se qualcosa scompare è perché non funziona e basta.
E invece, guarda un po', proprio il pomeriggio di giovedì 8 dicembre, festa dell'Immacolata, attraversato il formicaio brulicante di maniaci dello shopping, siamo capitati a S. Giacomo in Augu-sta per una messa con organo e coro. E qui siamo stati testimoni del sobrio, eccellente lavoro pieno di fede di una coppia di amici musicisti, Flavio e Silvia Colusso, i quali da anni animano con la loro formazione corale-strumentale (immaginiamo senza essere contaminati dal vil denaro, ma di sicuro con una sincera energia spirituale) una ricca serie di funzioni religiose in varie chiese della città.
Abbiamo assistito all'intera messa, cosa che non ci capitava da tempo, condita di letture di discutibili e fantasiosi episodi delle scritture, come la storia della mela nel paradiso terrestre. Con Dio che chiede ad Adamo se ha assaggiato il frutto proibito. Si, risponde lui, ma è la donna che me l'ha offerto. E alla donna? Lo ha suggerito il serpente. Conclusione: il serpente sia maledetto per l'eternità e condannato a strisciare sul ventre e a essere calpestato. La donna, si sa, è tentatrice, quindi la colpa è anche, anzi quasi del tutto sua, mentre quel bambacione di Adamo se la cava meglio perché in fondo ha solo ceduto alla tentazione.
Per fortuna questa messa (in scena) ha avuto molti intermezzi soprattutto corali. Musica che si srotola suggestiva, sobria, pensosa, spesso malinconica. Finché arriva il Maggiore! Che naturalmente non è un militare. Gli amici musicisti hanno di sicuro capito a cosa mi riferisco. Per gli altri, spiegazione terra terra. Quando un brano di musica trasmette una sensazione di malinconia, tristezza, costrizione, vuol dire che è scritto nel modo minore, una scala in cui le sette note sono separate da distanze particolari che danno per l'appunto la sensazione di malinconia. Senonchè, e crediamo che questo sia un saggio trucco che Santa Madre Chiesa ha imposto ai suoi compositori per rallegrare gli animi dei fedeli, dopo averli ben bene spaventati, molte musiche liturgiche, nell'amen finale, passano al modo maggiore. La terza nota della scala va su di un semitono (ovvero, cambia l'ordine degli intervalli che separano le note) e in un attimo tutto è diverso: si aprono i cuori, la malinconia scompare, e con lei le miserie terrene.
PS. perplesso. Venti milioni di spettatori, picco storico di audience, mezza Italia televisiva a guardare due bambinoni, Benigni e Fiorello, in giacca di lamé e chitarra i quali, sul palcoscenico con licenza di dire cacca e culo cantano insieme il famoso inno del corpo sciolto: "Ci si pulisce il culo dopo aver cacato", "Noi siamo quelli che han cacato di sicuro", e ancora "Viva la merda e chi ha voglia di cacare".
Quaranta milioni di orecchie, share alle stelle, mezza Italia che ride. Proprio non capiamo...
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