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Alfredo Ronci

I colori della resistenza e del coraggio. Due storie a confronto.

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Mi è capitato recentemente di rivedere La ragazza di Bube: il film non è una gran cosa. Anzi, mi espongo: è una delle pellicole meno felici di Luigi Comencini. Non riesce, pur nello svolgimento abbastanza rispettoso del romanzo di Cassola (premio Strega nel 1960... altro che le solitudini...), a dare un senso reale alle cose. E' vero, il regista ha volutamente 'giocato' nell'offrire un ritratto dei protagonisti già quasi maturi, rispetto alle fanciullezze iniziali del libro (ed è per questo che le smancerie leziose di una Cardinale giovincella sono ridicole ed inappropriate), ma non convince nella ricostruzione storica delle vicende, slabbrate ed affrettate, e nell'assegnazione dei ruoli agli attori. Non conosco i retroscena, ma mi chiedo chi abbia voluto come protagonista del Bube partigiano George Chakiris, già prima stella e oscar come miglior attore non protagonista per West Side Story: profilo elvisiano con mento fossettatto e chioma nazional popolare, alla Little Tony, proprio in quegli anni all'inizio di carriera.

Eppure quel volto mi colpì quand'ero bambino, quando vidi per la prima volta il film: forse ne apprezzai la bellezza stagionata e un po' tonta, da maschietto di bar di periferia, piuttosto che da militante antifascista (ma poi: che ne può sapere un infante di fascino, seduzione e fascismo? Raccoglie solo quello che trova per costruirsi un futuro).

Rivedere la pellicola mi ha convinto dell'errore (se errore di valutazione c'è stato): non solo, mi ha persuaso che La ragazza di Bube non è stata una storia d'amore, ma di rinuncia. Le convenzioni sociali dell'epoca imponevano un esito del genere, oggi mi verrebbe da dire che sarebbe segno di regressione culturale.

Ecco in sintesi la trama: Mara conosce Bube, tra i due c'è subito empatia, ma il ragazzo deve purtroppo fuggire perché ha ucciso il figlio di un maresciallo fascista. Mentre Bube è all'estero per evitare l'arresto Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui la ragazza stringe amicizia con una compaesana, Ines, che le presenta un ragazzo di nome Stefano. Dopo un anno Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca in città per un colloquio con l'amato. Durante l'incontro la ragazza si accorge che il suo amore per il ragazzo è ancora molto forte e decide, da quel momento, che sarà sempre la sua donna, nonostante la successiva condanna a quattordici anni di carcere. Tornata a Poggibonsi, si incontra con Stefano. La ragazza gli racconta quanto accaduto e gli comunica di aver preso una decisione: il suo posto è accanto a Bube.

Non è il caso qui di rintracciare le polemiche che seguirono l'uscita del romanzo, o lo scontro tra una visione meno estrema della vicenda e l'altra contrariamente marxistica. Qui, ora, ci interessa altro. Paradossalmente la figura di Mara è quella di una donna di poco coraggio. Vi è senza dubbio un errore di prospettiva: la forza del suo gesto di rimanere accanto al condannato si contrappone con altrrettanta forza alla rinuncia della passione per Stefano, che è avvertibile sia nel romanzo che nel libro. E' vero, la ragazza, nel suo processo di maturazione, è colta spesso nei suoi dubbi adolescenziali ed esistenziali e quindi nel suo sviluppo personale, ma Cassola ce la consegna alla fine troppo misurata e rinunciataria.

Vi chiederete il perché di questa tardiva disanima di un personaggio letterario: perché spesso le affinità elettive nascono da una percezione chiara degli opposti. In questo caso, il rispetto, nonostante le prese di distanza, per il film e per il libro, hanno 'richiamato', in una sorta di attrazione elettromagnetica, l'esatto contrario.

Un libro recentissimo e di buona fattura mi ha ispirato il confronto col romanzo cassoliano: Le madonne nere di Simona Dolce (1). Protagonista Marina, l'ultima, mi permetterei di dire, di una stirpe di maledetti.

Marina infatti è figlia di Rinulla, una donna mai cresciuta, violentata ripetutamente quand'era ragazza dal padre, Giustino, e andata in moglie a Giovanni, che accetta di sposarla con l'unico intento di rimanere accanto ad Alina, la madre di Rinulla, che si è innamorata di lui.

Sì, me ne rendo conto, l'intreccio è complesso e non subito salta agli occhi: ma poi i lati del 'quadrato' si ricompongono e l'intensità della tragedia la si coglie nella sua totale gravità.

Marina però di fronte agli avvenimenti è inerte, ma non inerme. La sua arma migliore è la consapevolezza dei misfatti: Quanta pietà devi possedere? Il loro passato è il recinto del tuo futuro. Rinulla la vedi identica, Rinulla la vedi al tuo fianco mentre mastica e macchia il vestito, Rinulla la vedi e la senti e la imiti adesso che la tua magrezza supera di gran lunga la sua, adesso che tua nonna dice di mangiare adesso che tuo padre Giovanni ti guarda per la prima volta quest'oggi e i suoi occhi sono talmente diversi per te, leggi l'ardore e la foga e la ferocia e il passato che per te è il recinto del futuro. (Pag. 95).

Cosa fa dunque Marina di fronte ad un dramma del genere? Fugge dal paese, ma contrariamente a quello che si possa pensare, la sua fuga è la sua vittoria, il distacco dagli inquinamenti del cuore. E' la corsa oltre il recinto. Siamo convinti che Mara, la ragazza di Bube, avrebbe fatto diversamente, perché oppressa e legata dai lacci delle consuetudini morali, tenuta da ganci immersi nella carne. Si sarebbe stagliata su uno sfondo grigiastro di mestizia.

Marina, che ha tutt'altri colori (non quelli del titolo), fugge dagli uomini: pur se la responsabilità dell'intreccio mostruoso è da addebitarsi anche alla nonna che 'inventa' il matrimonio della figlia perché vuol tenersi accanto Giovanni, i delitti più orribili sono dei maschi: Giustino che non può fare a meno dell'incesto e Giovanni che accetta supino i suggerimenti della propria, sporca, coscienza.

D'altronde, di questi, nel libro si dice: Gli uomini senza alcuna abilità, senza un'indole robusta, gli uomini assuefatti alla viltà in rari momenti sirealizzano grazie a una vivifica salvezza: assegnare agli altri la capacità diprevedere, progettare, decidere, organizzare, convincere, tutte capacità di cui accusano la mancanza e in un attimo quella mancanza diventa la più solida giustificazione per sé stesso e la più pericolosa arma di offesa (Pag. 57).

Madonne nere (ma può il colore di Marina essere nero? A questo punto direi di no, nonostante gli allacci e i 'lacci') è un libro che ti si appiccica perché quando è passato ti lascia addosso, come se fosse il fiume Nilo, una limacciosa sostanza che pensi purulenta.

Ma la pienezza e la riuscita del romanzo non mi impedisce di fare un appunto sullo 'schema' linguistico: troppo ripetitivo in quella sorta di palilalia frenetica a cui ci sottopone l'autrice. Le frasi ripetute all'infinito (coazione a ripetere?) a volte sfibrano. Ma fosse lo stesso lato della medaglia di una vicenda che tragicamente squassa?





(1) Simona Dolce – Le madonne nere – Nutrimenti – 2008 – Pag. 102 – Euro 12,00









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