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Alfredo Ronci

I nazisti divenuti ebrei. Max Schulz e Elfriede Lina Rinkel tra finzione e realtà.

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Giovedì 21 settembre su Repubblica è apparso un articolo "Elfriede, la Ss che visse da ebrea" firmato da Vittorio Zucconi, in cui si narra la vicenda di una cittadina tedesca che durante il nazismo si era volontariamente arruolata come sorvegliante in un lager (la sua specialità era aizzare i cani contro il gregge delle prigioniere tremanti per tenerle buone, in riga, disciplinate verso la "soluzione finale") e che, dopo la guerra, nel 1959 sposa in Germania un americano ebreo che le da la possibilità di emigrare negli Usa e sistemarsi a San Francisco. Lì condurrà un'esistenza da perfetta casalinga ed "ebrea" fino a meritare, superando le obiezioni dei rabbini e dei responsabili del camposanto che abitualmente si opponevano alla sepoltura di "gentili", di non ebrei, nella terra sacra, un loculo insieme al marito.

Vicenda "esemplare" (come esempio di comportamento al di là di ogni decenza) che, se Zucconi lo avesse saputo lo avrebbe citato, ricorda in modo impressionante le vicende del romanzo dello scrittore tedesco Edgar Hilsenrath Il nazista & il barbiere (Marcos y Marcos).

Andiamo con ordine.

Scriveva Hannah Arendt su La banalità del male (Feltrinelli) a proposito del processo a Eichmann e della sua ultima dichiarazione prima della condanna: ...lui non aveva mai odiato gli ebrei, non aveva mai voluto lo sterminio di essere umani. La sua colpa veniva dall'obbedienza che è sempre stata esaltata come una virtù. Di questa sua virtù i capi nazisti avevano abusato, ma lui non aveva mai fatto parte della cricca al potere, era una vittima, e solo i capi meritavano di essere puniti.(pag.254).

Vecchia storia: Padre Feletti, uno degli artefici del rapimento Mortara (ricordate il bambino ebreo battezzato cristianamente perché creduto morente e poi sottratto da PioXI ai genitori e mai restituito? ), di fronte ad un tribunale civile che gli chiedeva il perché della sua azione rispondeva d'essere stato semplice esecutore di disposizioni venute dall'alto. Centoventi anni dopo,Priebke, ad una domanda simile, avrebbe risposto allo stesso modo.

Uniformità dunque di fronte a delitti inenarrabili.

Max Schulz, ariano, occhi da rospo, naso a becco, figlio di padre ignoto, protagonista del romanzo Il nazista & il barbiere di Hilsenrath, ha un'idea del delitto del tutto diversa. In lui non si scorge il tentativo di deresponsabilizzarsi, anzi, confermerà fino alla fine, in una sorta di delirium onnicomprensivo, la sua colpevolezza.L'uomo, amico d'infanzia di una famiglia ebrea che gli aveva dato lavoro come barbiere, durante gli anni del potere di Hitler si iscrive alle SS e partecipa attivamente allo sterminio degli ebrei ("Quanti ne hai ammazzati con le tue mani, Max?" "Non lo so esattamente. Non li ho contati" "All'incirca, Max" "All'incirca diecimila. Ma potrebbero essere stati di più), ma quando l'esercito nazista è alla disfatta si rifugia in un vecchio casolare nella foresta polacca e dopo qualche tempo rientra in Germania assumendo le generalità dell'amico ebreo, Itzig Finkelstein.

Da questo momento assistiamo ad una sorta di trasformazione stevensoniana: da carnefice dal cinismo aberrante (Si è messo in testa che gli apostoli di Hitler abbiano fatto sapone di sua moglie e dei suoi cinque figli. Da buon barbiere mi sarebbe piaciuto moltissimo domandargli: Che tipo di sapone? Perché tutti sanno che esistono tanti tipi diversi di sapone. Ma poi ho ritenuto più consigliabile tacere.) a vero e proprio paladino della questione ebraica (rinserrerà le file del terrorismo sionista contro la presenza in terra santa dell'esercito inglese).

In tutto questo bailamme di avvenimenti però Max Schulz (o l'alter ego Itzig Finkelstein) non apporrà alla sua difesa argomenti di estraneità, anzi. Oddio, un tentativo maldestro e finale di corresponsabilità lo saggia (Io seguivo la corrente! Seguivo semplicemente la corrente! Anche gli altri seguivano la corrente. A quel tempo era legale.), ma è solo un singulto, perché a sopravvivere in lui non è un'autodifesa da sbarra, ma la convinzione che i propri ideali debbano, di necessità, correre parallelamente alla sua bramosia di riscatto personale e alla sua ricerca "personale" di una vita da vivere.

Ci chiediamo: è peggio uno sterminatore che per placare la propria coscienza chiama al comune peso i propri superiori o un simile che per puro spirito di sopravvivenza (anche quando Max Schulz opta per il terrorismo sionista non scorgiamo un'ideale raggiunto, ma una mistificazione dei propri sentimenti libertari) si adatta, come un perfetto camaleonte, alle trasformazioni più imprevedibili?

Edgar Hilsenrath, che ha vissuto personalmente la condizione di ebreo durante il nazismo, le deportazioni, il viaggio apparentemente salvifico in terra di Palestina, ha costruito un personaggio originale ed alienato. Ha aggiunto un tassello fondamentale nella ricostruzione di un periodo aberrante della storia moderna (si affaccia in lui, quasi timidamente, ma per vie davvero traverse, la denuncia ferma e sicura della Arendt a proposito della corresponsabilità delle associazioni ebraiche nel rastrellamento nei ghetti) e ci consegna un uomo difficilmente etichettabile se non nell'incomprensibilità feroce della guerra. Un personaggio "finto" talmente inetichettabile da avere il suo perfetto contraltare nella realtà: Elfriede Lina Rinkel.



Edgar Hilsenrath

Il nazista & il barbiere

Marcos y Marcos

Pag.388 Euro 16,00







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