ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il Negroni
Sufi Ensemble. Sabato 12 alla Sala Petrassi, Parco della Musica. Pejman Tadayon, un simpatico musicista persiano, furbissimo conduttore della serata, ci ha fatto ascoltare la musica di casa sua, ci ha fatto cantare tutti, insieme a lui, “la ilaha illa allah”, ci ha fatto guardare un gruppo di volenterose ma non proprio provette ballerine che facevano le dervisce ruotanti, e avrebbe voluto farci applaudire anche il coro Naghshbandi se non che quest’ultimo, per una ragione che non ha ritenuto di comunicarci, ha dato buca al concerto.
Ecco una circostanza in cui il Negroni è indispensabile per il suo garantito effetto rasserenante. Dopo un bicchiere, va bene tutto. Non che la faccenda non fosse gradevole, ma certo poco di più. I suonatori in bianco, come le ballerine, erano belli da vedere, forse anche bravi (non ne siamo del tutto sicuri), il tamburo illuminato dall’interno, suggestivo. Pejman, come già detto, astuto intrattenitore con il suo pittoresco accento ha tradotto per noi alcuni dei testi cantati, che, forse perché non nella lingua originale, risultavano banalissimamente pieni di cuori, amori e occhi assassini, come a Sanremo, insomma; mentre i ghirigori decorativi proiettati per accompagnare l’esecuzione ricordavano molto, troppo, i centrini della nonna.
Non mettiamo in discussione la validità della filosofia sufi, l’importanza della preghiera che si fa musica e della musica che si fa preghiera, o la capacità di raggiungere stati estatici durante queste pratiche artistiche; tanto meno il potere ipnotico di un insieme di suoni che gira intorno a un pedale fisso (in questo caso modernamente prodotto da una tastiera) senza limiti di durata né promesse di sviluppo. Il fatto è che noi poveri spettatori normali, viziati da Mozart e da Strawinskji, anche se ce la mettiamo tutta per essere politically and artistically correct, una serata come questa, davvero, se non ci fosse stato il Negroni…
Incontro con Maria Luisa Spaziani. La voglia di conoscere di persona l’ultima grande poetessa italiana, ormai novantenne: Maria Luisa Spaziani, ci ha fatti abboccare all’amo, lunedì 14 aprile, ore 16, all’Istituto Statale per i Beni Sonori e Audiovisivi di Roma, nuovo pomposo nome della Discoteca di Stato.
Saletta semivuota. Per forza, con questo orario scemo, aggravato dal consueto ritardo romanesco (mezz’ora), e vincolato da scadenza sindacale per chiusura locali (alle diciotto).
Arriva la signora Spaziani, con passo malfermo ma intelletto saldissimo. Le vengono presentate un paio di ragazze che reciteranno per noi, e lei le ammonisce: “Leggere una poesia, per un attore è un fatto di castità: bisogna mettere da parte ogni emozione”. Geniale precetto, in seguito puntualmente disatteso dalle due.
L’organizzatore sul palco sbircia continuamente l’orologio mentre ognuno dei comprimari parla e parla, rubando tempo e spazio alla star (e a noi). Le ragazze recitano a implacabili intervalli, e tutti fanno finta di interessarsi dell’ospite, ma è solo apparenza, perché, dopo uno sbrigativo omaggio al di Lei riverito nome, passano subito a raccontare quanto spesso La frequentano, com’è privilegiato il loro rapporto con Lei, e quanto Lei tiene alla loro opinione.
Manca una regia (anche una presentazione è spettacolo), quindi la faccenda si trascina faticosa e dilettantesca. Comunque la Spaziani, da vera regina, appena le mosche cortigiane che le ronzano intorno si posano un attimo, apre bocca e dice qualcosa di intelligente. Nell’insieme riusciamo a racimolare bei pensieri e osservazioni puntuali.
Peccato avere sprecato buona parte del tempo disponibile. Fortunatamente il cervello tende a cancellare le impressioni negative e a salvare quelle buone. E allora, in fondo, anche di questo pomeriggio sgangherato riusciamo a portarci a casa un bel ricordo.
Ruderi e aerei. Venerdì 18, invitati dalla giornata scintillante, ci facciamo la prima archeogita della stagione. A Ostia Antica. La brezza fa frusciare i pini e la mentuccia stuzzica il naso. Sopra questa distesa di mattoni rossi e marmi consumati si abbassano con un rombo soffice le miracolose macchine volanti che vanno a posarsi all’aeroporto. Sono meravigliose anche viste da sotto (ma come fanno a non cadere?). Giocattoloni con i motori e le code dipinti di rosso e le ruote già fuori per la pista.
Sul decumano massimo di Ostia il selciato è segnato dalle cicatrici dei carri di duemila anni fa, i mosaici spuntano dall’erba e l’edera si arrampica su ogni muro. Tutto molto quotidiano, poco monumentale, ancora quasi vivo. Ci piace così.
Ecco una circostanza in cui il Negroni è indispensabile per il suo garantito effetto rasserenante. Dopo un bicchiere, va bene tutto. Non che la faccenda non fosse gradevole, ma certo poco di più. I suonatori in bianco, come le ballerine, erano belli da vedere, forse anche bravi (non ne siamo del tutto sicuri), il tamburo illuminato dall’interno, suggestivo. Pejman, come già detto, astuto intrattenitore con il suo pittoresco accento ha tradotto per noi alcuni dei testi cantati, che, forse perché non nella lingua originale, risultavano banalissimamente pieni di cuori, amori e occhi assassini, come a Sanremo, insomma; mentre i ghirigori decorativi proiettati per accompagnare l’esecuzione ricordavano molto, troppo, i centrini della nonna.
Non mettiamo in discussione la validità della filosofia sufi, l’importanza della preghiera che si fa musica e della musica che si fa preghiera, o la capacità di raggiungere stati estatici durante queste pratiche artistiche; tanto meno il potere ipnotico di un insieme di suoni che gira intorno a un pedale fisso (in questo caso modernamente prodotto da una tastiera) senza limiti di durata né promesse di sviluppo. Il fatto è che noi poveri spettatori normali, viziati da Mozart e da Strawinskji, anche se ce la mettiamo tutta per essere politically and artistically correct, una serata come questa, davvero, se non ci fosse stato il Negroni…
Incontro con Maria Luisa Spaziani. La voglia di conoscere di persona l’ultima grande poetessa italiana, ormai novantenne: Maria Luisa Spaziani, ci ha fatti abboccare all’amo, lunedì 14 aprile, ore 16, all’Istituto Statale per i Beni Sonori e Audiovisivi di Roma, nuovo pomposo nome della Discoteca di Stato.
Saletta semivuota. Per forza, con questo orario scemo, aggravato dal consueto ritardo romanesco (mezz’ora), e vincolato da scadenza sindacale per chiusura locali (alle diciotto).
Arriva la signora Spaziani, con passo malfermo ma intelletto saldissimo. Le vengono presentate un paio di ragazze che reciteranno per noi, e lei le ammonisce: “Leggere una poesia, per un attore è un fatto di castità: bisogna mettere da parte ogni emozione”. Geniale precetto, in seguito puntualmente disatteso dalle due.
L’organizzatore sul palco sbircia continuamente l’orologio mentre ognuno dei comprimari parla e parla, rubando tempo e spazio alla star (e a noi). Le ragazze recitano a implacabili intervalli, e tutti fanno finta di interessarsi dell’ospite, ma è solo apparenza, perché, dopo uno sbrigativo omaggio al di Lei riverito nome, passano subito a raccontare quanto spesso La frequentano, com’è privilegiato il loro rapporto con Lei, e quanto Lei tiene alla loro opinione.
Manca una regia (anche una presentazione è spettacolo), quindi la faccenda si trascina faticosa e dilettantesca. Comunque la Spaziani, da vera regina, appena le mosche cortigiane che le ronzano intorno si posano un attimo, apre bocca e dice qualcosa di intelligente. Nell’insieme riusciamo a racimolare bei pensieri e osservazioni puntuali.
Peccato avere sprecato buona parte del tempo disponibile. Fortunatamente il cervello tende a cancellare le impressioni negative e a salvare quelle buone. E allora, in fondo, anche di questo pomeriggio sgangherato riusciamo a portarci a casa un bel ricordo.
Ruderi e aerei. Venerdì 18, invitati dalla giornata scintillante, ci facciamo la prima archeogita della stagione. A Ostia Antica. La brezza fa frusciare i pini e la mentuccia stuzzica il naso. Sopra questa distesa di mattoni rossi e marmi consumati si abbassano con un rombo soffice le miracolose macchine volanti che vanno a posarsi all’aeroporto. Sono meravigliose anche viste da sotto (ma come fanno a non cadere?). Giocattoloni con i motori e le code dipinti di rosso e le ruote già fuori per la pista.
Sul decumano massimo di Ostia il selciato è segnato dalle cicatrici dei carri di duemila anni fa, i mosaici spuntano dall’erba e l’edera si arrampica su ogni muro. Tutto molto quotidiano, poco monumentale, ancora quasi vivo. Ci piace così.
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