ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il cavalier serpente
L’altro giorno, per puro caso, abbiamo ripescato sui selezionati scaffali della nostra libreria, in un’edizione del 1964 i “Racconti ed Episodi Morali” di quel finissimo predicatore che fu San Bernardino da Siena. Ci siamo messi a leggere con grande diletto gli aneddoti istruttivi, scritti nella prima metà del quattrocento, e cosa abbiamo trovato in testa o in coda alle battute più vivaci? “Doh!” quasi a ogni pagina. “Doh, guarda colui quanta crudeltà…”, “Doh! Io mi ricordo…”, “…non debbo io sapere come m’è lecito? Doh, doh!”
Allora (nel quattrocento, ovvio, ma anche nel ’64) non esisteva ancora Homer Simpson, a noi caro, oltre che per la genialità del personaggio, anche per i “Doh!” che spara a ogni occasione (rimasti uguali nell’originale inglese e nella traduzione italiana).
Homer Simpson e San Bernardino da Siena abbinati da una coincidenza linguistica?
Mah! Anzi, Doh!
Siamo seri.
Festival di Letteratura e Cultura Ebraica, lunedì 15 al Ghetto. Antonio Monda tenta di indurre alla parola Ennio Morricone, il quale è insensibile alle moine sempre in agguato sulla lingua degli intervistatori. Se non sente bene una domanda, e questo è successo diverse volte, un po’ forse per difetti nell’impianto di amplificazione del Palazzo della Cultura, un po’ probabilmente per difetti nell’impianto di ascolto del Maestro stesso (che va verso i novanta), se la fa ripetere senza imbarazzo. E si guarda bene dal farsi incastrare dal giornalista, o dal seguirlo se la domanda non gli garba. Va per la sua strada senza cercare di fare il simpatico.
Perché Morricone al Ghetto? ci siamo chiesti. Poi è uscito l’ovvio: protagonista di “C’era una volta in America” è la comunità ebraica del Lower East Side di New York.
Abbiamo visto qualche sequenza. Sappiamo tutti che film è. E poi c’è la sua musica, così ricca di temi che neanche Puccini…
Poche parole del maestro sulla cautela nell’uso della musica a supporto, anzi a servizio delle immagini; perché questo è il suo compito: integrare nell’orecchio il flusso drammatico, senza rubare niente all’occhio. Tanto è vero che, se serve, è ancora più efficace il silenzio. A sostegno di quest’ultima teoria ci hanno ammannito la lunga scena della violenza in auto. Vari minuti, appunto senza una nota. Francamente inutile; il concetto ci era arrivato. Un po’ come se a una degustazione ad alto livello, ti facessero bere un bicchiere di Tavernello, e poi ti chiedessero: “Hai capito?”
Martedì 16, stesso Festival; dalla cultura alla culinaria. Tavole all’aperto nei giardini della sinagoga. Piatti poveri della cucina romanesco giudaica, ottimo vino, tutto rigorosamente kosher. Noi non sappiamo fare neanche due spaghetti, il vino in compenso ci interessa. Quindi abbiamo cercato di approfondire la vinificazione kosher. O per le spiegazioni insufficienti, o per nostra disabilità mentale, o perché di quell’ottimo vino forse ne avevamo bevuto troppo, crediamo di essere riusciti a capire solo un paio di regole fondamentali: che tutti gli impianti devono essere lavati e rilavati a ogni uso, e questo non c’è neanche bisogno di dirlo. E che in alcune fasi della lavorazione è permesso intervenire solo a ebrei ortodossi sorvegliati da un rabbino, e questo non ci sembra altrettanto chiaro, a meno che l’ortodossia di cui sopra sia obbligatoriamente accompagnata da un buon diploma di enologo. Ma non ce l’ha confermato nessuno.
Prima di arrivare al banchetto, ci siamo affacciati all’inaugurazione dello Spazio Guidi, una magnifica ex tipografia bonificata e imbiancata, a pochi metri da lì. Tutta la mondanità galleristica di Roma era presente in modo così esagerato da provocare temperature da svenimento e da obliterare completamente le opere esposte, di cui non sapremmo niente se non avessimo in mano il programma (e non sarebbe una gran perdita). Però il fine ultimo e trionfale di questi eventi era raggiunto: l’opera non è più quella appesa al muro, ma la galleria stessa. E i suoi visitatori.
Pink Carpet, mercoledì 17. In anticipo di mezz’ora a un appuntamento al Parco della Musica, ci siamo spalmati per il tempo che ci avanzava (ma avremmo voluto rimanere anche di più) sulle transenne a sbirciare il pink carpet. Festival della Fiction, non del Cinema: il carpet è pink, non red. Un po’ meno colorato e importante, insomma.
Storditi da una musica inutilmente tracotante tenuta a un volume esagerato, abbiamo visto sfilare attrici e attricette unificate da un trucco pesante ma non abbastanza da coprire la stolida vacuità delle espressioni, con minigonne inopportune, e a rischio caduta per la scarsa padronanza del tacco. Identiche alle ragazze del pubblico, altrettanto stolido e vacuo, che applaudiva. Due mondi gemelli e paralleli che nella vita vera non si incontreranno mai.
E per finire, alla presentazione della stagione del Teatro Lo Spazio. Bel programma, annunciato da Roberto Herlitzka con un intervento breve e poche, misurate e umili parole (l’Amleto è uno spettacolo che si fa da sé, ha detto).
In sala, funzionante prima, nell’intervallo e dopo gli spettacoli, un bar che abbiamo subito messo alla prova.
E promosso. Ottimo Negroni.
Allora (nel quattrocento, ovvio, ma anche nel ’64) non esisteva ancora Homer Simpson, a noi caro, oltre che per la genialità del personaggio, anche per i “Doh!” che spara a ogni occasione (rimasti uguali nell’originale inglese e nella traduzione italiana).
Homer Simpson e San Bernardino da Siena abbinati da una coincidenza linguistica?
Mah! Anzi, Doh!
Siamo seri.
Festival di Letteratura e Cultura Ebraica, lunedì 15 al Ghetto. Antonio Monda tenta di indurre alla parola Ennio Morricone, il quale è insensibile alle moine sempre in agguato sulla lingua degli intervistatori. Se non sente bene una domanda, e questo è successo diverse volte, un po’ forse per difetti nell’impianto di amplificazione del Palazzo della Cultura, un po’ probabilmente per difetti nell’impianto di ascolto del Maestro stesso (che va verso i novanta), se la fa ripetere senza imbarazzo. E si guarda bene dal farsi incastrare dal giornalista, o dal seguirlo se la domanda non gli garba. Va per la sua strada senza cercare di fare il simpatico.
Perché Morricone al Ghetto? ci siamo chiesti. Poi è uscito l’ovvio: protagonista di “C’era una volta in America” è la comunità ebraica del Lower East Side di New York.
Abbiamo visto qualche sequenza. Sappiamo tutti che film è. E poi c’è la sua musica, così ricca di temi che neanche Puccini…
Poche parole del maestro sulla cautela nell’uso della musica a supporto, anzi a servizio delle immagini; perché questo è il suo compito: integrare nell’orecchio il flusso drammatico, senza rubare niente all’occhio. Tanto è vero che, se serve, è ancora più efficace il silenzio. A sostegno di quest’ultima teoria ci hanno ammannito la lunga scena della violenza in auto. Vari minuti, appunto senza una nota. Francamente inutile; il concetto ci era arrivato. Un po’ come se a una degustazione ad alto livello, ti facessero bere un bicchiere di Tavernello, e poi ti chiedessero: “Hai capito?”
Martedì 16, stesso Festival; dalla cultura alla culinaria. Tavole all’aperto nei giardini della sinagoga. Piatti poveri della cucina romanesco giudaica, ottimo vino, tutto rigorosamente kosher. Noi non sappiamo fare neanche due spaghetti, il vino in compenso ci interessa. Quindi abbiamo cercato di approfondire la vinificazione kosher. O per le spiegazioni insufficienti, o per nostra disabilità mentale, o perché di quell’ottimo vino forse ne avevamo bevuto troppo, crediamo di essere riusciti a capire solo un paio di regole fondamentali: che tutti gli impianti devono essere lavati e rilavati a ogni uso, e questo non c’è neanche bisogno di dirlo. E che in alcune fasi della lavorazione è permesso intervenire solo a ebrei ortodossi sorvegliati da un rabbino, e questo non ci sembra altrettanto chiaro, a meno che l’ortodossia di cui sopra sia obbligatoriamente accompagnata da un buon diploma di enologo. Ma non ce l’ha confermato nessuno.
Prima di arrivare al banchetto, ci siamo affacciati all’inaugurazione dello Spazio Guidi, una magnifica ex tipografia bonificata e imbiancata, a pochi metri da lì. Tutta la mondanità galleristica di Roma era presente in modo così esagerato da provocare temperature da svenimento e da obliterare completamente le opere esposte, di cui non sapremmo niente se non avessimo in mano il programma (e non sarebbe una gran perdita). Però il fine ultimo e trionfale di questi eventi era raggiunto: l’opera non è più quella appesa al muro, ma la galleria stessa. E i suoi visitatori.
Pink Carpet, mercoledì 17. In anticipo di mezz’ora a un appuntamento al Parco della Musica, ci siamo spalmati per il tempo che ci avanzava (ma avremmo voluto rimanere anche di più) sulle transenne a sbirciare il pink carpet. Festival della Fiction, non del Cinema: il carpet è pink, non red. Un po’ meno colorato e importante, insomma.
Storditi da una musica inutilmente tracotante tenuta a un volume esagerato, abbiamo visto sfilare attrici e attricette unificate da un trucco pesante ma non abbastanza da coprire la stolida vacuità delle espressioni, con minigonne inopportune, e a rischio caduta per la scarsa padronanza del tacco. Identiche alle ragazze del pubblico, altrettanto stolido e vacuo, che applaudiva. Due mondi gemelli e paralleli che nella vita vera non si incontreranno mai.
E per finire, alla presentazione della stagione del Teatro Lo Spazio. Bel programma, annunciato da Roberto Herlitzka con un intervento breve e poche, misurate e umili parole (l’Amleto è uno spettacolo che si fa da sé, ha detto).
In sala, funzionante prima, nell’intervallo e dopo gli spettacoli, un bar che abbiamo subito messo alla prova.
E promosso. Ottimo Negroni.
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