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Il Paradiso degli Orchi
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Stefano Torossi

In trincea

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Conferenza stampa in trincea. Alla minacciosa intimazione: “Fermi tutti, le porte sono allarmate!” non solo ci siamo fermati, ma abbiamo cominciato ad allarmarci anche noi. Giovedì 30, intorno a mezzogiorno al Campidoglio di Roma, dove eravamo invitati alla conferenza stampa di presentazione del festival TorBellaMusica, curato da Piji per la Casa dei Teatri e il Teatro Tor Bella Monaca (che è il nome dello spazio, da cui il gioco di parole).
Fallisce il primo tentativo di entrare dall’ingresso abituale. Cacciati e spediti alla Protomoteca, su e giù per scale e scaloni. Niente da fare neanche lì. Incomprensibili dichiarazioni del personale: ragioni di sicurezza.  Mah, noi non avevamo avvertito minacce nell’aria. Comunque, torniamo tutti al portone di prima; qui siamo intruppati da un vigile che ci fa passare quattro alla volta e quando siamo nella portineria, ma non ancora autorizzati a procedere, ecco la minacciosa intimazione.
Per camminamenti interni che ricordano i sotterranei del Colosseo (ci è parso di udire il ruggito dei leoni) arriviamo alla sala, dove finalmente ci viene dato, in letizia e con la vivace partecipazione degli artisti coinvolti, l’annuncio del programma, ricco e bene articolato, della manifestazione.
Ultimamente, a proposito della cultura, abbiamo sentito dire spesso: “Di questi tempi il teatro (o la musica, o la danza) è in trincea”. Senz’altro vero; e ci è sembrato un giusto adeguamento al sentimento diffuso fare in modo che in trincea siano organizzate anche le conferenze stampa.

Fratelli coltelli? Niente di tutto ciò in una serata della serie “Fratelli nel Cinema” organizzata dalla Cineteca Nazionale il 29 allo  Spazio Trevi. I fratelli sono Paolo, Vittorio e, protagonista dell’evento, Franco Taviani. Incontro guidato con garbo e discrezione da Amedeo Fago, ma quasi sabotato, soprattutto per la pessima mira, dalla co-moderatrice Patrizia Pistagnesi. La quale, invece di puntare su Franco, ha parlato soprattutto di sé e della sua ammirazione per gli altri due fratelli.
Non si fa così a casa del festeggiato, no?
Saletta gremita, e, in attesa della proiezione di “Gli sconosciuti”, l’ultimo film di Franco Taviani, ci è stato servito un delizioso copione a tre voci di battute, ricordi (d’infanzia e di carriera), riconoscimenti e  manifestazioni di affetto e rispetto reciproco che alla fine ci hanno portato inevitabilmente a riconoscere che, quando funziona, la famiglia è una gran bella cosa.
Se manca l’opera è quasi meglio. Il nome della mostra è “Open museum, open city”. Inaugurata il 23 ottobre al Maxxi. La prima domanda è: perché un titolo inglese? La seconda, appena entrati: dov’è la mostra? Poi abbiamo capito tutto: la mostra non è visiva ma acustica. Il programma dichiarato dal curatore Hou Hanru è svuotare totalmente il museo per riempirlo di suono.
Splendida iniziativa perché l’edificio, dentro, è straordinariamente bello: volumi immensi, linee curve, passerelle sospese, pavimenti inclinati. E’ lui l’opera d’arte (dobbiamo aggiungere che tutto quello che ci abbiamo visto nel corso di varie esposizioni non ci è sembrato mai neanche lontanamente all’altezza del contenitore).
Quindi siamo totalmente d’accordo con la prima parte del progetto: svuotarlo.
Meno sul riempirlo di suoni. Qui parte l’equivoco, anche un po’ stantio: il suono organizzato è musica, consonante o dissonante non fa differenza. Il suono in sé non è niente. Può essere pauroso, certo, inquietante, ossessivo, ipnotico, rasserenante, ma, malgrado i molti tentativi delle avanguardie, da solo non va mai abbastanza lontano da rappresentare un fatto autonomo, uno spettacolo, una riflessione. Rimane una sensazione. E questo non basta.
Così ci siamo trovati con gli occhi felici per le estensioni quasi infinite a disposizione, ma con le orecchie, ormai troppo smaliziate per stupirsi davvero, inutilmente costipate di rombi profondi, pulsazioni nevrotiche, sibili e grattugie. Roba ormai vecchia, anzi, nata già vecchia.
Sull’inglese del titolo: boh?

Cinquant’anni. E’ l’età della galleria “Il segno” di Via Capo le Case a Roma. Festa di compleanno il pomeriggio di mercoledì 29, con una mostra in cui ai muri non c’è appeso un bel niente. Ci sono scritti, in compenso, i nomi di tutti gli artisti le cui opere sono state davvero attaccate a quei chiodi in questo mezzo secolo.
Certo non sapremmo cosa suggerire come alternativa. Rimane il fatto che queste pareti scarabocchiate ci ricordano  i tanti ristoranti turistici del centro storico, decorati con foto e firme taroccate di ospiti illustri; o addirittura qualcuno dei pochi jazz club ancora vivi, omaggiati, sempre sull’intonaco, da improbabili Duke Ellington o Louis Armstrong.
Solo che spaghetti o note musicali non si possono certo appendere, mentre i quadri sì, si potrebbe.
Insomma, l’impressione è di una trovata un po’ furba.
Ma, per citare un contemporaneo piuttosto famoso (quel signore sempre vestito di bianco): chi siamo noi per giudicare?





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