RECENSIONI
John M. Coetzee
Infanzia
Einaudi, Pag.167 Euro 11,36
Narratori. Scrittori. I primi raccontano storie: Stephen King. Per gli altri, prima del fatto, c'è il linguaggio che lo dice: Marcel Proust. Ovvio che le categorie non siano così nettamente separate: vedi Sandro Manzoni, l'"Alemanzo" Nazionale.
Coetzee, sudafricano, è, almeno in questo lavoro che narra dei suoi dieci-tredici anni nei primi Cinquanta, un raro esempio d'una quarta categoria oltre le due citate e il loro ibrido positivo manzoniano: capace narratore - per temi e atmosfere ricorda Christina Stead, e (in meglio) il Nevil Shute di A town like Alice -, non usa, non crea, non fonde, ma lotta mediante il suo personaggio con le lingue che lo toccano: l'inglese autoriale, l'afrikaans del contorno, il "far parole con le cose" e gli atti proprio dei metèchi.
Difatti, il "bambino singolare" (p.102) John M., inabituato ad andare scalzo, lettore di libri presi in prestito alla biblioteca, addirittura tifoso dei russi "commies", al punto di realizzare disegni in cui aerei e vascelli sovietici combattono e distruggono velivoli e corazzate dei "nostri", ha con le parole un rapporto conflittuale, quanto quello che lo lega e lo separa dai genitori, dalla madre soprattutto (parole e parentela ne fanno una sorta di "natural born" Lévi-Strauss): "siccome a casa parlano inglese, siccome a scuola è sempre il primo della classe in inglese, si considera inglese". Però "quando parla afrikaans, di colpo tutte le complicazioni della vita sembrano svanire. L'afrikaans è come un involucro fantasmatico che lo accompagna ovunque, dentro il quale è libero di entrare per diventare subito un'altra persona, più semplice, più gaia, dal passo più leggero" (pp. 126-7). Così lui, in parallelo, "ringrazia Dio che sua madre parli inglese e non capisce come mai suo padre continui a sforzarsi di fare l'inglese" (...) mentre "sarebbe così facile per lui tornare ad essere un afrikaner dall'infanzia incentrata sulle percosse e sulle nudità, sui bisogni corporali soddisfatti davanti ad altri bambini, su un'indifferenza animale nei confronti della vita privata". (pp. 128)
Vedere in questo microcosmo il riflesso della dualità politico-sociale dei bianchi nella nazione sudafricana è immediato. Quanto notare che quest'infanzia si concreta nell'apartheid: l'autore da cucciolo vive in un mondo separato, dove i neri non esistono - al massimo ci sono i meticci - e d'altronde egli stesso è "un isolato" per parte di madre, (p. 12) e anche perché si rende conto che "in mezzo a tutta questa innocenza e normalità, lui è l'unico che desidera". (p. 58) Di conseguenza "qualunque cosa gli piaccia, prima o poi deve diventare un segreto". (p. 29) Soprattutto la consapevolezza tra le altre che "il suo cuore è vecchio, è oscuro e duro, un cuore di pietra. E' questo il suo spregevole segreto". (p. 125) Vengono in mente i versi di Luca Rolla, decenne quando li scrisse, che il bambino rivela a Comencini nell'inchiesta I bambini e noi (1977): "ora non gioco più / per un'orribile virtù: la vecchiaia".
Ma si avverte che il testo rivela ben di più, e di fondamentale: attendendo alla lingua e al fluire degli accordi e disaccordi in famiglia, l'Autore ritrae "l' annodamento segreto di anima e corpo". Walter Pater così definisce lo stile, e Paola Colaiacono, introducendo Mario Praz, nota ch'esso sarebbe "il punto nel quale sul meramente biologico s'innesta il culturale", e c'è per la specie "lo scatto evolutivo": nel legame parentale e nelle sue strutture avviene e consiste la crescita linguistica dell'individuo. La condizione di chi scrive allora appare come d'una sola bifida natura con il processo evolutivo: lo scrittore - ovvero la funzione d'aver a che fare col linguaggio - è la persona, con tutte le ambiguità dell'etimo di questa parola, che coinvolge sé e falso sé (è il tema del doppio, non visto nel suo aspetto di scissione ma di rapporto). Non stupisce dunque che bloccare la passione della lingua sia bloccare la crescita: "la scuola non è più un luogo in cui si manifestano grandi passioni (...). Città del Capo non lo sta rendendo più intelligente, lo sta rendendo più stupido. (...) Chiunque egli sia veramente, qualunque sia il vero io che si solleverà dalle ceneri della sua infanzia, non gli consentono di nascere, lo mantengono gracile e stento". (p. 142) Ma dire famiglia, in queste condizioni, è dire società: così come si dice linguaggio (la lingua è madre e patria, mamma e papà), e si legge ideologia. Dunque l'esilità del corpo dell'individuo è l'osteoporosi del corpo sociale: "apartheid", malattia infantile della comunità matura che da essa puerilità stenta a sorgere.
Verrebbe da dire, infine, che scrivere è sempre autobiografia. Se non fosse che, siccome le parole sono degli altri (e "degli altri"), è d'un "altro" che sempre si parla. E perciò solo quando la parola si snatura, diviene "altra dall'altro" (immagine?), dice di un sé. Ma allora non parla più. E allora? Uno spazio, una distanza, una via di fuga c'è - il "teta veleta" pasoliniano: "bellezza e desiderio. E' turbato dalle sensazioni che le gambe di questi ragazzi, lisce e perfette e inespressive, suscitano in lui. Cosa può fare con le gambe oltre a divorarle con gli occhi?" (p. 57)
Già: che fare?
di Vera Barilla
Coetzee, sudafricano, è, almeno in questo lavoro che narra dei suoi dieci-tredici anni nei primi Cinquanta, un raro esempio d'una quarta categoria oltre le due citate e il loro ibrido positivo manzoniano: capace narratore - per temi e atmosfere ricorda Christina Stead, e (in meglio) il Nevil Shute di A town like Alice -, non usa, non crea, non fonde, ma lotta mediante il suo personaggio con le lingue che lo toccano: l'inglese autoriale, l'afrikaans del contorno, il "far parole con le cose" e gli atti proprio dei metèchi.
Difatti, il "bambino singolare" (p.102) John M., inabituato ad andare scalzo, lettore di libri presi in prestito alla biblioteca, addirittura tifoso dei russi "commies", al punto di realizzare disegni in cui aerei e vascelli sovietici combattono e distruggono velivoli e corazzate dei "nostri", ha con le parole un rapporto conflittuale, quanto quello che lo lega e lo separa dai genitori, dalla madre soprattutto (parole e parentela ne fanno una sorta di "natural born" Lévi-Strauss): "siccome a casa parlano inglese, siccome a scuola è sempre il primo della classe in inglese, si considera inglese". Però "quando parla afrikaans, di colpo tutte le complicazioni della vita sembrano svanire. L'afrikaans è come un involucro fantasmatico che lo accompagna ovunque, dentro il quale è libero di entrare per diventare subito un'altra persona, più semplice, più gaia, dal passo più leggero" (pp. 126-7). Così lui, in parallelo, "ringrazia Dio che sua madre parli inglese e non capisce come mai suo padre continui a sforzarsi di fare l'inglese" (...) mentre "sarebbe così facile per lui tornare ad essere un afrikaner dall'infanzia incentrata sulle percosse e sulle nudità, sui bisogni corporali soddisfatti davanti ad altri bambini, su un'indifferenza animale nei confronti della vita privata". (pp. 128)
Vedere in questo microcosmo il riflesso della dualità politico-sociale dei bianchi nella nazione sudafricana è immediato. Quanto notare che quest'infanzia si concreta nell'apartheid: l'autore da cucciolo vive in un mondo separato, dove i neri non esistono - al massimo ci sono i meticci - e d'altronde egli stesso è "un isolato" per parte di madre, (p. 12) e anche perché si rende conto che "in mezzo a tutta questa innocenza e normalità, lui è l'unico che desidera". (p. 58) Di conseguenza "qualunque cosa gli piaccia, prima o poi deve diventare un segreto". (p. 29) Soprattutto la consapevolezza tra le altre che "il suo cuore è vecchio, è oscuro e duro, un cuore di pietra. E' questo il suo spregevole segreto". (p. 125) Vengono in mente i versi di Luca Rolla, decenne quando li scrisse, che il bambino rivela a Comencini nell'inchiesta I bambini e noi (1977): "ora non gioco più / per un'orribile virtù: la vecchiaia".
Ma si avverte che il testo rivela ben di più, e di fondamentale: attendendo alla lingua e al fluire degli accordi e disaccordi in famiglia, l'Autore ritrae "l' annodamento segreto di anima e corpo". Walter Pater così definisce lo stile, e Paola Colaiacono, introducendo Mario Praz, nota ch'esso sarebbe "il punto nel quale sul meramente biologico s'innesta il culturale", e c'è per la specie "lo scatto evolutivo": nel legame parentale e nelle sue strutture avviene e consiste la crescita linguistica dell'individuo. La condizione di chi scrive allora appare come d'una sola bifida natura con il processo evolutivo: lo scrittore - ovvero la funzione d'aver a che fare col linguaggio - è la persona, con tutte le ambiguità dell'etimo di questa parola, che coinvolge sé e falso sé (è il tema del doppio, non visto nel suo aspetto di scissione ma di rapporto). Non stupisce dunque che bloccare la passione della lingua sia bloccare la crescita: "la scuola non è più un luogo in cui si manifestano grandi passioni (...). Città del Capo non lo sta rendendo più intelligente, lo sta rendendo più stupido. (...) Chiunque egli sia veramente, qualunque sia il vero io che si solleverà dalle ceneri della sua infanzia, non gli consentono di nascere, lo mantengono gracile e stento". (p. 142) Ma dire famiglia, in queste condizioni, è dire società: così come si dice linguaggio (la lingua è madre e patria, mamma e papà), e si legge ideologia. Dunque l'esilità del corpo dell'individuo è l'osteoporosi del corpo sociale: "apartheid", malattia infantile della comunità matura che da essa puerilità stenta a sorgere.
Verrebbe da dire, infine, che scrivere è sempre autobiografia. Se non fosse che, siccome le parole sono degli altri (e "degli altri"), è d'un "altro" che sempre si parla. E perciò solo quando la parola si snatura, diviene "altra dall'altro" (immagine?), dice di un sé. Ma allora non parla più. E allora? Uno spazio, una distanza, una via di fuga c'è - il "teta veleta" pasoliniano: "bellezza e desiderio. E' turbato dalle sensazioni che le gambe di questi ragazzi, lisce e perfette e inespressive, suscitano in lui. Cosa può fare con le gambe oltre a divorarle con gli occhi?" (p. 57)
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