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ATTUALITA'

Gianfranco Franchi

L'America povera e disperata di Donald Ray Pollock

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Questo libro è la storia della vita di un paese dell'Ohio, e dell'America che allora lo popolava, della cultura dei suoi cittadini e delle loro dinamiche di comunicazione e interazione: si tratta di una piccola borghesia che spesso sconfina nel proletariato. La loro è un'esistenza miserabile, fatta di alcolismo, violenza facile, incesti, alimentazione esecrabile, nulla cultura e nessuna coscienza, dialoghi spiccioli e al limite funzionali. È la fotografia di un popolo che stava marcendo nel silenzio, e nella stupidità più assoluta. Stupidità che non va conclusa con la semplicità: è una stupidità che fa sghignazzare oppure lascia sgomenti, una bassezza che convince si possa parlare di stile altro, crudo, ultra minimal, quando in realtà siamo di fronte alla neorealistica rappresentazione della povertà assoluta, organica e invincibile di cittadini che campavano come bestie. Avvolti da un'ignoranza spettrale. Una ultrarealistica rappresentazione della fatiscenza d'un popolo vergata dalle mani di un ex operaio e macellaio che oggi sogna di diventare, a cinquantacinque anni, insegnante di scrittura creativa. London non era forse il favoloso autodidatta del Martin Eden? Pollock, ritardi e differenze incluse, ideologiche, generazionali e letterarie che siano, non può essere un nuovo campione di questa impossibile scalata? Io dico di sì, dopo aver letto questa sua prima raccolta di racconti. Non è un letterato, non ha vissuto certe esperienze – vissuto, osservato, interiorizzato – col filtro della conoscenza, dell'humanitas, della pietas; con la sensazione costante del deja-vu, dell'evitabilità e dell'assurdità del male. È uno che respirava il catrame della strada e si sfasciava la schiena lavorando: non certo uno studioso della psiche umana, o delle letterature del mondo. È uno che racconta quella vita e quella strada proprio come non fosse cambiato niente. È un vecchio popolano di una borgata americana che racconta com'era essere americani nelle sperdute province che nessuno tiene a propagandare, nemmeno negli aspetti più ameni (che so: almeno la natura, la distanza tra una città e l'altra, la vita a misura d'uomo). Sembra di ritrovare gli americani disperati di Furore" di Steinbeck. Cresciuti, "ambientati", "integrati". Forse come era sensato attendersi accadesse. Non è l'America borghese e provinciale, alienata ma cosciente dei drammi sentimentali, dei tradimenti, d'essere professionalmente e individualmente inespressa, che scintillava di credibilità e grazia in Revolutionary Road di Yates. È l'America dei ghetti bianchi che in questi ultimi anni Michael Moore ha provato a raccontarci. Quella degli Wasp poveri, e senza speranza. Quella proibita.

Knockemstiff, oggi, è una ridente città fantasma dell'Ohio. Esiste, nella memoria yankee, grazie a questo libro e alla buffa questione dell'etimo del nome del posto. Knockemstiff è la rivelazione della rabbiosa, popolana, triviale e sentimentale scrittura di Donald Ray Pollock, classe 1954. Si tratta di una raccolta di racconti che ha convinto Palahniuk a dire che si tratta della miglior narrativa pubblicata negli ultimi tempi: che ha spinto il New York Times a parlare di voce "fresca, potente, inedita". A dar retta al Telegraph, Pollock nasce da uno scontro tra "un Ernest Hemingway vissuto sempre nelle foreste e un Raymond Carver sotto anfetamine". Scopriamolo.

Mi svegliai pensando di aver pisciato un'altra volta nel letto, ma era solo un punto appiccicoso dove io e Sandy avevamo scopato la notte prima. Ti capita quando bevi come bevo io – ti lasci incastrare in un cazzo di Wal-Mart e finisci a vivere con qualche drogata di crack e i suoi poveri genitori. Alzai le coperte appena un poco e passai le dita sul tatuaggio che faceva sembrare il culo ossuto di Sandy un cartello stradale: una scritta bluastra che diceva 'Knockemstiff, Ohio'. Per me rimarrà sempre un mistero il motivo per cui a certe gente serve l'inchiostro per ricordare da dove viene ("Il buco", p. 159): ecco, in questo breve frammento possiamo apprezzare tutta una serie di aspetti già introdotti; la normalità e la facilità della dipendenza dagli alcolici, della povertà e della miseria, della circolazione della droga; la confusa percezione d'essere sperduti in un posto dimenticato da Dio, Durkheim avrebbe cominciato a parlare di anomia; infine, la negazione del senso della scrittura, a partire dalla battuta sul cartello stradale.

Pollock è uno di quelli che probabilmente, solo qualche anno fa, avrebbe considerato stupidi quelli che si fermavano a scrivere o a descrivere qualcosa che lui dava per scontato esistesse e fosse, e non sentiva di dover approfondire o indagare. Adesso è tra noi. E racconta di quando era così – o di quando frequentava cittadini del genere.

Il primo racconto, "a vita com'è, è di una bellezza sinistra. Rimane appiccicato come colla alle dita, nella memoria, perché riesce a parlare alle viscere, all'inconscio. È ambientato in un cinema all'aperto, il protagonista è un ragazzino che a casa osserva la madre sognare la pioggia e il padre bere come un disperato. Tutto a un tratto, in questo cinema, il padre butta una battuta sulla decadenza della Nazione, e un tizio rimane male. Va a domandare spiegazioni, e un po' provoca. Il figlioletto sa che il padre è uno che stende i cavalli a cazzotti. Ecco come si crea il clima giusto:"Fai attenzione a come parli", disse l'uomo. Il suo vocione tuonò attraverso la stanza e tutti si voltarono a guardarci. Il mio vecchio si girò e sbattè il naso sul petto dell'omone. Rimbalzò e guardò il gigante che gli torreggiava sopra. "Porcoddio" disse. La faccia sudata dell'omone cominciò a diventare paonazza" (p. 18).

E da qui in avanti è tutto un precipizio. Padre e figlio a fare a cazzotti con un'altra coppia di padre e figlio. E il narratore, alla fine, si scopre felice di leccarsi il sangue del nemico, dalle nocche. Raccontata così sembra la trama di una pagina esistenziale meschina, molto bassa. Invece no. Invece comunica a un maschio adulto che vorrebbe tornare ragazzo per poter vivere, per una volta, un'esperienza cameratesca e aggressiva come questa al fianco del proprio padre. Comunica qualcosa di profondamente animalesco e vero. Che i maschi hanno bisogno dello scontro, di combattere e di prevalere. Possiamo evolverci quanto vogliamo ma questa rimane l'essenza. Io ero un bambino tutt'altro che aggressivo, e mi spiace non poter vantare imprese del genere, per una giusta causa, a fianco di mio padre. Sarebbe rimasto un ricordo divertente, non so bene perché lo sto ammettendo, va contro la mia condotta storica e il mio passato, ma è così.

È bello immaginare di fare a botte con qualcuno assieme a tuo padre: almeno, quando il proprio papà è un intellettuale. Sarà questo che mi condiziona, l'impossibilità di quel che per Pollock – per questo suo personaggio – era la normalità, la consuetudine.

Incontrerete, in queste storie, quattordicenni puniti perché si scopavano una bambola di pezza, improbabili autostop per farsi crescere capelli tagliati alla contadina in casa, allegoriche – o forse nient'affatto allegoriche – vicende di incesto concluse nella violenza e nell'omicidio, con l'ebbrezza dell'occultamento dei cadaveri; descrizioni di interni ed esterni comprensive di odori, e di improbabili feticci; storie di sesso, di piccoli furti, di bastoncini di pesce (!), di gelo affrontato a viso aperto, di normalità della morte.

Incontriamo una scrittura capace di comunicare quando con la nostra curiosità sociologica e antropologica, quando con le nostre viscere. Non so se Pollock avrà mai il respiro del romanziere – un buon editor farà forse il miracolo – credo rimarrà un autore di short stories che stupreranno l'immagine sempre più fragile e fradicia della sua terra, e del suo popolo. So che questo post-realismo, per quanto forse poco cerebrale e meditato, è destinato a lasciare un segno. Non annoierà, scuoterà soltanto. Nel bene, e nel male. Come di rado avviene.



Danald Ray Pollock - Knockemstiff - Elliot 2009









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