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Alfredo Ronci

La creatività del male.

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Non sono convinto, nonostante l'esplicito titolo e nonostante l'accorata post-fazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi, che questo romanzo sia, attraverso la sperimentazione della finzione letteraria, un tremendo atto d'accusa contro il grande filosofo Heidegger per la sua ambigua, complessa adesione al nazional-socialismo. Intendiamoci, la lettera che Dieter Müller, filosofo tedesco riparato in Argentina dopo la fine della guerra, scrive al figlio (qui sta la chiave di Feinmann nel raccontare la verità attraverso il romanzato) è sicuramente una testimonianza delle responsabilità oggettive del grande intellettuale, del rettore di Friburgo in piena ubriacatura hitleriana, di fronte alla Storia.

Ma è proprio la Storia ad essere sotto accusa in questo libro, meglio ancora, il cinismo e la sete di potere dei "grandi", sia se dalla parte dei vinti, quindi dalla parte dei giusti, sia se dalla parte dei reietti e dei criminali.

Feinmann agisce su due piani di lettura. In primis la riquadratura del politico Heidegger con i suoi sostanziosi passi verso il baratro nazista: Nel gennaio del 1933, Hitler andò al potere. Il 1° Maggio Heidegger si iscrisse al partito. Molti elogiarono la scelta del giorno: quello del lavoro. Un giorno di festa per la Germania del Führer. (pag.50). L'avevamo salutato a braccio teso, alla maniera nazionalsocialista. Era stato lui stesso ad esigerlo (pag.52). Heidegger ci dava ora un lignaggio, ci faceva sentire l'aristocrazia del nostro spirito. Noi, noi tedeschi, eravamo ellenici (pag.53).

Dunque la "partitura" heideggeriana rispetta i modi e i costumi del tempo, sfiorando, come era prevedibile, e forse necessario, l'aspetto della fisicità della macchina celebrativa-propagandistica del Reich, e che si vedrà realizzata ancor di più, e visivamente, nella suggestione del mondo-cinema poietico della Leni Riefenstahl.

La stessa finzione letteraria però impone dei dubbi, quanto meno un apparentamento meno scontato, alla problematica dell'adesione se non dell'aderenza: Un discepolo di Heidegger non può essere razzista. Il suo tema è l'Essere, non la razza, né la biologia. Può darsi che pensassimo che noi filosofi tedeschi – seguaci di Heidegger – fossimo i più adatti a interrogarci sull'Essere. Ma il Dasein non aveva razza. (pag.94).

Ma come dicevamo prima, Feinmann lavora su due fronti, e il secondo schiera ancora più drammaticamente l'aspetto più "politico" della seconda guerra mondiale, non certo la "taratura" del personaggio Heidegger. Quando "distribuisce", con pari responsabilità, le colpe per le immani tragedie del conflitto, comprendiamo quanto la compromissione del più grande filosofo del novecento sia, tutto sommato, poca cosa rispetto ai crimini di tutte le più grandi nazioni del mondo.

Il Vaticano ha difeso Hitler fin dal 1933. Gli industriali americani gli hanno venduto acciaio (ricorda forse qualcosa?) I russi hanno firmato il patto che ci ha consentito d'invadere la Polonia. E Winston Churcill, nel 1938, ha detto che se le burrasche della storia si fossero abbattute sull'Inghilterra, avrebbe voluto un uomo del temperamento di Hitler per affrontarle. (pag.129).

E ancora: So che i bolscevichi ne hanno uccisi a milioni nei loro campi ghiacciati. So che gli americani si sono laureati macellai a Hiroshima e Nagasaki con un'efficienza pari a quella dei nostri campi. So che Mussolini, verso la fine degli anni Trenta, ci ha consegnato ebrei a migliaia. So che Churchill è stato una iena a Dresda. So, allora, che nessuno può giudicarci.(pag.135).

La dichiarazione di Dieter Müller, prima del suicidio (si suiciderà davanti ad una foto di un ebreo, ormai ridotto ad un'ombra di uomo, prima di entrare nella camera a gas che lo ucciderà – e anche qui riteniamo che l'atto di togliersi la vita da parte del filosofo seguace di Heidegger non sia quello di una "pulitura" di coscienza per aver aderito ad un'ideologia criminale, ma per l'avvenuta maturazione di una nuova nozione di crimine contro l'umanità) non è un'autoassoluzione. Non fa certamente coppia con la palilalica ed apparentemente ingenua e, come avrebbe detto la Arendt – peraltro qui protagonista di un'avventura amorosa con Heidegger – maleficamente banale dichiarazione d'intenti di Eichmann durante il processo di Gerusalemme.(1)

Eichmann, consapevole dell'importanza del suo ruolo, tentò la carta della subordinazione, dell'essere pedina di un meccanismo micidiale al quale era impossibile sottrarsi. Müller non cerca appigli e non cerca di scagionarsi. Con lui Feinmann, in questo romanzo che conferma le sue doti straordinarie di intrattenitore e di lucido pensatore, ci parla delle responsabilità della Storia. E di chi soprattutto, con totale sprezzo delle vite umane, la fa.



(1) Hannah Arendt – La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme – Saggi Universale Economica Feltrinelli – Edizione 2002. ...improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell'etica kantiana, e in particolare conformemente ad una definizione kantiana del dovere. L'affermazione era davvero enorme, e anche incomprensibile, poiché l'etica kantiana si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell'uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. (pag.142-143).



José Pablo Feinmann

L'ombra di Heidegger

Neri Pozza

Pag. 181 Euro 15.00







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