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ATTUALITA'

Pier Paolo Di Mino

La crisi

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È ottobre, e con la vendemmia e la ripresa delle altre attività produttive, è giusto parlare, come fanno tutti, della crisi. Anche perché bisogna ammettere che è niente male questa idea della crisi; di questa cosa che noialtri qui chiamiamo crisi, anche se, a vederla da altre prospettive, meno coinvolte e morbose, in mancanza di carestie, per esempio, uno farebbe prima e più schiettamente a chiamarla tassa sulla povertà.

Ma se queste prospettive diverse ci offrono una diversa definizione del fenomeno, detta definizione non può fare altro che complicare tutto, e sprofondarci nello stupore. E, infatti, queste altre prospettive, non coinvolte e non morbose, non possono non rivelarsi attonite davanti non tanto alla tassa in sé (l'occasione fa l'uomo ladro), ma dinnanzi al modo in cui questa tassa è stata accettata dagli italiani, il misto di fervida rassegnazione e mistica gioia con cui la subiscono: il tutto, penso, deve apparire oscuro e insondabile. E deve fare ridere. E fa ridere.

E come non ridere quando, tipo: la maggior parte della popolazione si convince che è giusto rinunciare alla stabilità lavorativa e alle proprie capacità di spesa in favore di maggiori sicurezze e migliore ricchezza per una minoranza; quando, tipo: è santo e sacro darsi a munifica dimenticanza del proprio diritto ad abitare una casa e abbandonarsi a questo sogno stalinista di vivere ammassati in comunistico, paleocristiano subaffitto: il tutto a vantaggio dei collezionisti di ville orgiamunite, magara in stile John Gotti, che non è bello ciò che è bello ma ciò che piace; quando, tipo ancora: è del tutto sensato esborsare i propri soldi per adornare e redimire di ogni genere di conforto materiale e spirituale le scuole private nella coscienza che anche i ricchi piangono, e che anzi sono così sensibili che i loro figli meritano una educazione più appartata e accurata: e gli altri vadano a scaldare i banchetti degli anni ottanta ancora con il buco per il calamaio, senza carta igienica e gli insegnanti che cambiano ogni tre mesi e, all'ora di educazione motoria, saltare sul posto, chè i riscaldamenti quest'anno non ci sono (ma tanto si sa che fanno perfino male alla salute!).

Stupore, allora; anche se manco troppo legittimo, perché da Gorgia, passando per Goebbels, fino a Costanzo e Ricci, non è mai stata chiusa la scuola dove qualcuno insegna ai più maneschi che gli uomini vivono come dormendo.

Ora, non faccio bene a tirarlo in ballo perché nella sua città non gli volevano bene per niente e pare sia morto sbranato dai cani, ma Eraclito lo diceva, senza sbagliare, così come gli veniva: "agli altri uomini sfugge quello che fanno da svegli e dimenticano quello che fanno nel sonno". Lo dimentichiamo perché, nel ricordare un sogno, lo facciamo secondo le regole della ragione, quelle proprie della retorica della realtà, le stesse che applichiamo durante la veglia. Ne consegue che negli strumenti della ragione non troviamo la risorsa per dimostrare se siamo svegli o meno, e che, di fatto e nel quotidiano, potremmo operare la distinzione tra quando siamo svegli e quando dormiamo solo facendo ricorso a quella immaginifica figura dell'anima che è l'istinto: la figura, per essere precisi, dell'anima che da dentro ci punge. Una figura, potremmo dire, letteraria. E potremmo allora anche anticipare che è rinunciando a questa figura, e quindi all'anima, e quindi alla letteratura, che finiamo col vivere come dormendo.

(E Bennato, infatti, che ci avverte che l'unica è liberarci dall'imposizione di questa illusione, la ragione).

Ovvio, allora, che, se invece delle regole della ragione nella retorica della realtà seguissimo le immagini dell'anima, e meglio ancora quelle della letteratura, che, tanto per mettermi in bocca parole non mie (bisogna pure avere il coraggio delle idee altrui), è pur sempre un sogno pilotato (Borges), questa distinzione sarebbe più agile e goduriosa. Potremmo dire, così di passaggio, che assumere la letteratura a guida significherebbe assumere una guida sicura nello sterminato sogno della nostra vita; significherebbe conoscere, tremendi che siano, e magari godere, i nostri dei; significherebbe smettere di subirli con fervida rassegnazione e mistica gioia.

Del resto me lo dimostra non so quale grande scienziato dell'editoria che afferma di recente, ragionevolmente, che è proprio dell'editoria vendere i libri, e che l'editoria non ha niente a che fare con la letteratura. In tempi di crisi non si può fare letteratura, certo, perché la letteratura ci assolverebbe dalla crisi. E ancora lo scienziato, ragionevolmente, afferma che poi la letteratura chi può dirlo che cos'è? E, infatti, Croce ti diceva che il bello (che qui sta per il nostro la letteratura) è ciò che nessuno sa cosa sia, ma tutti sanno riconoscerlo: sempre il fatto dell'istinto, dell'immaginifico, dell'anima. E sì, perché non bisogna essere intelligenti per godere la letteratura, basta avere dell'anima, un pozzo dove farcela cadere dentro.

E allora contro la crisi vorrei proporre di smettere di essere intelligenti e ragionevoli, e darsi alla letteratura.

Cominciamo, allora, con il mettere da parte i libri utili. La ragione viene tardivamente inventata nella fiacchezza e tristezza dei corpi per elaborare strategie mediante le quali risparmiare fatica: mira, commercialisticamente, all'utile. Quindi via i libri utili, i manuali di cucina, quelli che addestrano a fabbricarsi i mobili da sé, ad avere successo nella vita, a combattere l'ansia, a sviluppare la memoria e i superpoteri, a vedere gli angeli; via i libri che ci spiegano i grandi complotti, i grandi e nefasti segreti delitti della Chiesa (così non pensiamo a quelli palesi), e quelli che erudiscono sul quiètuttounmagnamagna; i libri che ci devono stupire, scandalizzare, intrattenere, non fare pensare manco avessimo tutti tre anni (e a quel punto è meglio il gameboy); quelli che spiegano con precisione come è cattiva la Mafia (peddavvero è cattiva? Nun me l'immaginavio mica!); e diamoci a qualcosa di profondamente inutile, alle raccolte di gnostico ciarpame di Simic, e a Simic che parla di Cornell, lì a chiudere un occhio per vedere fluttuante, com'è, il fluttuante contorno della realtà (o è un sogno?), come facevano Duchamp e Klee, o a osservare le strane forme che prendono gli squaracchi di catarro su una parete, come Leonardo (che in tempo di crisi è anche un modello di comportamento da tenere sul lavoro nei confronti del cosiddetto datore: si faceva pagare e, poi, stava tutto il giorno a guardare gli squaracchi e non consegnava il lavoro; da seguirsi anche Michelangelo che Giulio II ha fatto arrestare per farsi finire un lavoro; e, massimamente, Beato Angelico che per non farlo andare a mignotte e metterlo a lavorare hanno rinchiuso in una stanza: ma lui si è buttato da una finestra).

Molti avranno intuito nella succitata passione per lo squaracchio di Leonardo un fatto di schietta matrice mistica, un mantra visivo; e, infatti, la proposta successiva che vado a fare a lor signori, è quella, addestratisi nell'inutile, di passare all'eccesso estatico. Fatevi perdere dal chiacchierio irresistibile di Dostoevskij; dalla forsennatezza verbale dell'inconcludente Moby Dick; donatavi a quelle storie dalla premessa assurda e dallo sviluppo qualsiasi che Stevenson congegnava per adoperare le sue bellissime, stranissime parole, per dipingere le sue atmosfere remotamente, profondamente vere; al parlare tanto per parlare di Maupassant. Abbandonatevi al piacere più che umano di non capire quello che leggete; di essere gonfi di parole e immagini (va bene, Paolo di Tarso, la cultura gonfia, ma ognuno sale in cielo come meglio gli va); a datevi anche alla noia, perché la noia è la più difficile delle passioni, ci vuole pazienza per sostenerla, e la pazienza è la misura dell'anima; e poi, sverniamo con qualche stagione all'inferno, qualche viaggio alla Campana, diamoci occhi alla Boine, e poi, che ne so?: datevi all'eccesso.

E pure qui un'indicazione sempre sul contegno da darsi nei confronti del datore di lavoro, e dei maneschi che qualcuno ha edotto sul fatto che gli uomini vivono dormendo. Un'indicazione che passa per un fatto linguistico: quello che una volta si chiamava popolo, e oggi è stato ridotto dentro una definizione e uno statuto borghese, quanto a questioni letterarie, si è sempre abbeverato di parole sfarzose. È come vestirsi bene alla domenica; è come ti ho pagato e ora mi diverti, mi fai sognare, mi fai vedere quello che altrimenti non posso. Conosco certi vecchi romani che da ragazzi andavano in tribunale per ascoltare i processi, ma mica per vedere se veniva fatta giustizia tipo a rai tre, ma per godersi lo spettacolo dell'avvocato che ti intortava il giudice a paroloni: e più l'avvocato scontava la pena al ladro, e più c'era sugo. Il sugo delle parole è lo stesso dell'anima. Colgono questa esigenza popolare, animica, animista, per fare degli esempi, la Morante, Pirandello, massimamente D'Annunzio, Ungaretti, tutti attingendo alla tradizione barocca, col Basile e con Marino; quel Marino che nelle canzoni popolari, sia sacre che profane, trovavamo fino a qualche generazione fa completamente saccheggiato: e ancora Cecchi registrava a Casamari una canzone (ne abbiamo echi in Il passaggio di Enea di Caproni) in cui si inneggiava in termini melensi e grandiloquenti all'amore carnale fra Gesù e la Maddalena. Finché il popolo ha avuto una lingua del genere non c'è stato verso per la Chiesa di fare smettere le persone di ballare, cantare e fare l'amore sugli altari, di credere negli dei e di liberare spazi eversivi. Ci si potrebbe augurare di non dovere liberare solo pochi spazi per la libertà, ma oggi questo parrebbe già un sogno, mentre tutti in fila compriamo al mercato unico gli imposti beni materiali e spirituali; mentre con fervore e gioia, addormentati, accettiamo l'inaccettabile.

C'è una storia, la conoscono in molti: a Siracusa tutti i cittadini pregavano che il tiranno morisse, meno una vecchietta. Il tiranno manda a chiamare la vecchietta e le chiede perché lei non desiderasse la sua morte. La vecchietta gli risponde che lei già aveva pregato per la morte di suo nonno, ma dopo suo nonno era venuto suo padre, che fu un tiranno peggiore. Ora c'era lui, un cornuto di prima categoria: a che sarebbe servito pregare se non a procurare un disastro? Il tiranno, a sentirla parlare così, ci rimase molto male, perché un tiranno ha bisogno che di lui non si parli, per tacito consenso; o che si parli bene, ma più che altro per vanità; e, soprattutto, che si parli male, perché la paura è sempre la più convincente delle passioni. Quello che un tiranno non vuole è che gli uomini diventino esperti come lui di sogni, che sappiamo capirli; un tiranno è contro la letteratura, perché non vuole che io sappia che quello che ieri ho visto al telegiornale è, prima di tutto, quel porco affamato, dolorosamente desideroso di potere e ville stile Gotti, che ho sognato l'altra notte: un penoso sogno dal quale basta svegliarsi.







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