ATTUALITA'
Alfredo Ronci
La lingua fregnacciara degli gnu
Epoca di eventi e su cui si è già insistito: ma vorrei che qualcuno non prendesse sottogamba il fenomeno. Perché poi le vere e proprie epifanie, nei vari campi dello scibile, sono men rare di un testimone di Geova che bussa alla tua porta la domenica mattina alle otto. Ma l'epifania, intesa come 'apparizione miracolosa' non da il senso del misfatto: qui tutto diventa fatto imprescindibile a cominciar da facebook che sembra riempirci la vita, con amici e presunte amicizie urbi et orbi, ma sulla cui solitudine inconsolabile del singolo ci sarebbe da imbandire una tavola rotonda.
Non esente da questa mania appariscente e fenomenologica è la cara letteratura: meglio ancora, della cui salute discetta l'uomo di lettere (in modo sano), il recensore (in modo deferente), il critico (in modo indecente). Perché, se non fosse ancora chiaro, l'uomo di lettere ne ha ben donde di dire la sua, producendo a sua volta materia; il recensore, per quanto meno preposto ma sempre con un pizzico di puzzetta al naso (ricorda quanto meno la lezione oraziana dell' odi profanum vulnus et arceo e cioè che non si sopporta la gente ignorante e quindi la si tiene a distanza) con ossequioso, anche se parziale rispetto, per essa vivacchia e da essa ricava fragilissimo sostegno (quando va bene, altrimenti subentra il detto tremontiano che con la cultura non si mangia). Il critico è creatura a sé, aliena e nei peggiori casi vero e proprio paria. Ma s'ingozza: spesso pasto dopo pasto in modo indecente.
Ecco ad hoc e prontamente un esempio di indecenza (ma chiamiamola col nome che le si addice: marchetta). Il 'critico' letterario de Il sole 24 ore Giovanni Pacchiano (nomen omen... a questo punto) à propos dell'ultimo libro di Faletti scrive (inserto domenicale del 21 novembre 2010): "... Appunti di un venditore di donne. Il romanzo italiano più bello di questa stagione, e forse anche oltre". Dovremmo di regola non eccepire, fino a che i poveri mortali (in questo caso noi orchi) non abbiano a confrontarsi col suddetto capolavoro. E non eccepiamo, ma in noi s'insinua il dubbio quando l'esimio critico s'industria a definirlo, traendo spunti, ma soprattutto testo. Ed ecco la giustificazione di siffatta iperbole: La tristezza dell'hinterland, dove abita Bravo: col cemento che ha invaso tutto, e vite grigie, quando non disperate e vendute. E con (e cita Faletti) «uomini con un vestito da grandi magazzini e il colletto della camicia sempre un filo troppo largo o un filo troppo stretto». E' un dettaglio, ma solo uno scrittore di classe può scrivere così.
Credo alla fine che sia uno scherzo, solo così si può definire una tale approssimazione: che è soprattutto linguistica del Faletti, dove il dettaglio non è per nulla di classe o 'stiloso' (ma voi davvero ci trovate qualcosa? O stimmate di grandezza?) e del 'critico' che in una slancio vagamente celentaniano fa il doppio con la banalità dello scrittore, novello Proust.
Ma d'altronde il software automatico della critica letteraria del Corsera Antonio D'Orrico non aveva espresso disappunto sui rodimenti di culo espressi dal letterato intimista a favore, finalmente, di una sana e consapevole 'libidine' tutta fiction?
C'è chi tenta, ahinoi: e questo è il confine della schizofrenia da ricovero, di fare un passo indietro, ma chissà perché sono solo due passi avanti al limitar del dirupo. E' il caso dell'altro esimio dispensatore di fregnacce: Filippo La Porta (nome che non ha la stessa valenza del Pacchiano, ma che vanta, come la settima enigmistica, innumerevoli tentativi di presa per il culo). Costui, che ha prodotto Meno letteratura, per favore (a chi lo dici!) per le edizioni Bollati Boringhieri, recensito dal buon Cesare De Michelis sempre sull'inserto de Il sole 24 ore, rivendica (o ha il coraggio di farlo) la centralità della lingua che deve lottare contro qualcosa, per non ridurre il racconto a servile referenzialità, a mansueto strumento di omologazione, a prodotto di consumo, a sostituto cartaceo della realtà.
Sbaglio ma l'esimio, non proprio a sostegno della tesi appena espressa – ecco, come si diceva prima, l'esempio di schizofrenia da ricovero – aveva giudicato la Silvia Avallone, dopo l'uscita del romanzo Acciaio, un talento con indubbie capacità affabulatorie, scrittrice che con la scusa di una storia definita dagli allocchi 'proletaria', aveva ridotto la realtà proprio ad un succedaneo della carta che se fosse stata a doppio velo avrebbe avuto almeno una funzione utilitaristica?
Anche qui dovremmo non eccepire, perché l'estratto riportato è appunto tale e chissà magari, in un impeto di straordinaria autoassoluzione, il La Porta possa aver trovato fulmine sulla via di Damasco. Ma i latini dicevano che ab uno disce omnis: insomma, più italianamente, se il buongiorno si vede dal mattino.
Credo, anzi sono sicuro, che a parte i falsi 'strilli' il La Porta sia essenzialmente, checché se ne dica, flatus vocis. E a ridaje col latino, come direbbero gli abbiategrassesi.
Non esente da questa mania appariscente e fenomenologica è la cara letteratura: meglio ancora, della cui salute discetta l'uomo di lettere (in modo sano), il recensore (in modo deferente), il critico (in modo indecente). Perché, se non fosse ancora chiaro, l'uomo di lettere ne ha ben donde di dire la sua, producendo a sua volta materia; il recensore, per quanto meno preposto ma sempre con un pizzico di puzzetta al naso (ricorda quanto meno la lezione oraziana dell' odi profanum vulnus et arceo e cioè che non si sopporta la gente ignorante e quindi la si tiene a distanza) con ossequioso, anche se parziale rispetto, per essa vivacchia e da essa ricava fragilissimo sostegno (quando va bene, altrimenti subentra il detto tremontiano che con la cultura non si mangia). Il critico è creatura a sé, aliena e nei peggiori casi vero e proprio paria. Ma s'ingozza: spesso pasto dopo pasto in modo indecente.
Ecco ad hoc e prontamente un esempio di indecenza (ma chiamiamola col nome che le si addice: marchetta). Il 'critico' letterario de Il sole 24 ore Giovanni Pacchiano (nomen omen... a questo punto) à propos dell'ultimo libro di Faletti scrive (inserto domenicale del 21 novembre 2010): "... Appunti di un venditore di donne. Il romanzo italiano più bello di questa stagione, e forse anche oltre". Dovremmo di regola non eccepire, fino a che i poveri mortali (in questo caso noi orchi) non abbiano a confrontarsi col suddetto capolavoro. E non eccepiamo, ma in noi s'insinua il dubbio quando l'esimio critico s'industria a definirlo, traendo spunti, ma soprattutto testo. Ed ecco la giustificazione di siffatta iperbole: La tristezza dell'hinterland, dove abita Bravo: col cemento che ha invaso tutto, e vite grigie, quando non disperate e vendute. E con (e cita Faletti) «uomini con un vestito da grandi magazzini e il colletto della camicia sempre un filo troppo largo o un filo troppo stretto». E' un dettaglio, ma solo uno scrittore di classe può scrivere così.
Credo alla fine che sia uno scherzo, solo così si può definire una tale approssimazione: che è soprattutto linguistica del Faletti, dove il dettaglio non è per nulla di classe o 'stiloso' (ma voi davvero ci trovate qualcosa? O stimmate di grandezza?) e del 'critico' che in una slancio vagamente celentaniano fa il doppio con la banalità dello scrittore, novello Proust.
Ma d'altronde il software automatico della critica letteraria del Corsera Antonio D'Orrico non aveva espresso disappunto sui rodimenti di culo espressi dal letterato intimista a favore, finalmente, di una sana e consapevole 'libidine' tutta fiction?
C'è chi tenta, ahinoi: e questo è il confine della schizofrenia da ricovero, di fare un passo indietro, ma chissà perché sono solo due passi avanti al limitar del dirupo. E' il caso dell'altro esimio dispensatore di fregnacce: Filippo La Porta (nome che non ha la stessa valenza del Pacchiano, ma che vanta, come la settima enigmistica, innumerevoli tentativi di presa per il culo). Costui, che ha prodotto Meno letteratura, per favore (a chi lo dici!) per le edizioni Bollati Boringhieri, recensito dal buon Cesare De Michelis sempre sull'inserto de Il sole 24 ore, rivendica (o ha il coraggio di farlo) la centralità della lingua che deve lottare contro qualcosa, per non ridurre il racconto a servile referenzialità, a mansueto strumento di omologazione, a prodotto di consumo, a sostituto cartaceo della realtà.
Sbaglio ma l'esimio, non proprio a sostegno della tesi appena espressa – ecco, come si diceva prima, l'esempio di schizofrenia da ricovero – aveva giudicato la Silvia Avallone, dopo l'uscita del romanzo Acciaio, un talento con indubbie capacità affabulatorie, scrittrice che con la scusa di una storia definita dagli allocchi 'proletaria', aveva ridotto la realtà proprio ad un succedaneo della carta che se fosse stata a doppio velo avrebbe avuto almeno una funzione utilitaristica?
Anche qui dovremmo non eccepire, perché l'estratto riportato è appunto tale e chissà magari, in un impeto di straordinaria autoassoluzione, il La Porta possa aver trovato fulmine sulla via di Damasco. Ma i latini dicevano che ab uno disce omnis: insomma, più italianamente, se il buongiorno si vede dal mattino.
Credo, anzi sono sicuro, che a parte i falsi 'strilli' il La Porta sia essenzialmente, checché se ne dica, flatus vocis. E a ridaje col latino, come direbbero gli abbiategrassesi.
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