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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Giulio Lascàris

La massacreria delle allodole

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Quando un ascoltatore "ingenuo", cioè non musicista, assiste all'esecuzione d'un qualsiasi brano, traduce la forma in affetto: dove l'esperto legge una precisa struttura armonica, melodica o ritmica, il dilettante gode o soffre del compiacimento o dell'abuso della sua intuizione estetica. Così, gli Orchi, "dilettanti in tutto, specialisti solo nell'arte di parlare", per giudicare d'un accadimento artistico devono affidarsi al gusto, quella via di mezzo tra la scienza inattingibile e l'opinione che ci è inferiore.

Ebbene: San Michele aveva un gallo, Allonsanfàn (recitato da un Bruno Cirino come sempre in stato di grazia - e giustizia, dato che il fratello Paolo Cirino Pomicino è stato ministro), Padre padrone (capolavoro irrobustito dal piccolo esordio di Nanni Moretti), Il prato (con una giovanissima e brava Isabella Rossellini), La notte di San Lorenzo (dove riuscivano a recitare persino Paolo Hendel e David Riondino), Fiorile, e quest'ultimo, sono - tranne errori ed omissioni -, i film dei Taviani che ho visto. Dunque, per me digiuno di tecnica e di storiografia cinematografiche, sono questi gli elementi sui quali si può basare il giudizio - oltre all'aver visto film di altri Autori, e a possedere alcuni rudimenti di educazione figurativa.

Chiarita la genealogia da cui il mio sapere discende per li rami, dirò subito che mi pare esistano due maniere di realizzatori, nei Taviani, anche se - ovvio - l'una influisce sull'altra, e viceversa: la prima, complessivamente più fortunata, che potremmo definire "epica" - degli eroi; la seconda, che intima senza essere intima, è da dirsi "tragica" - degli uomini. Questo Masseria appartiene alla "prima prattica": gran coro inscenato, sceneggiante il massacro degli armeni per le armi turche, che, se non ho capito male, ebbe il suo apice nel 1916 - la masseria del titolo è uno dei luoghi ove avvenne. Inutile dire come un fatto del genere e le sue implicazioni siano ben lungi dall'essere un rottame da museo: la questione armena, oltre a richiamare quella curda, misura com'essa un atteggiarsi autoritario della Turchia col quale l'allargamento dell'Europa non può non fare i conti (*) - così come non sono più affari nazionali Euzkadi, l'Irlanda del nord, persino il Belgio bilingue, in cui lo scandalo Dutroux ebbe tale virulenza siccome pareva implicare membri della casa reale, e certo l'inefficienza della polizia, organismo, come quasi tutta la struttura del potere, francofono.

Pagato il riconoscimento dell' incervelloticità del testo, bisogna riconoscere ai Taviani anche un'indiscussa e sensibile bravura cromatica: le immagini hanno una tenuta coloristica che va dal Rossellini de Le età di Cosimo, all'"english touch" da Mike Leigh alle "camere con vista" a Branagh, fino a - rischiamo! - certe contrastate cupezze di gamme complementari, da novello cinema italiano bravo ma compiaciuto, "specchio delle mie brume" (i melò g.bertolucciani/ozpetèchi, Martone), ovvero solarità da crema di protezione fattore nucleare (Respiro). E non si può dire se quello abbia estremizzato alcune tendenze che i Taviani portano allo scoperto in questo loro lavoro, anticipandole; o se i fratelli registi, magari inavvertitamente, seguano la tendenza nazionale, il nostro caro angelo d'un paese a tinte forti.

Fin qui, sta bene: il contenuto è avvincente, la forma convincente. E allora, cosa fa uscire dal cinema insoddisfatti? Forse, carenze negli interpreti? Macché: bravissimi tutti, persino i ragazzini - abbiamo gli occhi ancora sporchi dagli insopportabili birignànti marmocchi tv (davvero da denunciare qualcuno per "corruzione di minori") per non apprezzarli così diretti. E Mariano Rigillo, straordinario sempre, si supera emozionando con la sua sola presenza. E allora? Il pubblico? Ma non si va al cinema per guardare il pubblico... anche se... se è vero che l'esperienza del film al cinema si differenzia da quella del cinema in tv, oltre che per tant'altri dettagli, anche perché l'udienza (scusami se mimo un po' il "discorso per Eco di lontano") diventa, se il film è buono, un cenobio d'individualità maggiori della somma delle singole parti, allora possono esserci pubblici perturbanti - questo, per esempio, d'un secondo spettacolo romano (sabato, sette euro), il giorno dopo l'esordio: compatto blocco d'intelligenze veltroniane, lui che parla in italiano alla cassiera e alla sua lei in un autentico BBC-drawl quartiere Prati; età minima la mia; gran ciangottìo mentre andavano gli spot - e gran riconoscersi ("Isotta!" "Tristano!" "Tommaso!" "Giosetta!" e avvicinarsi di poltrona -, tranne che per quello con il jingle "meravigliosa creatura", canticchiato pure dalle professoresse vestite come la Pivano, e il trailer del prossimo di Olmi, ascoltato col venerabile silenzio dell' omelia da "messa granda". A seguire, il regionale "Diffusione tessile - capi firmati assai scontati", a reinnescare tossìcchi come colpi d'arco (di Noè, data l'età (del mal della pietra) media), voci chiamanti, bacetti sulle guance idratate quanto il Sinai a luglio - spentisi coll'ultimo trailer, una pellicola sulla Stasi (non quella sanguigna che provoca il decubito: è la polizia segreta della Germania Est).

Sarà dunque tale parterre di burgravij centrosinistri e maròzie altenòpidi (**) ad avermi maldisposto alla visione? Forse, magari: ma l'insoddisfacimento andava a crescere man mano che le immagini scorrevano, che i minuti e dunque le mezzore di proiezione si accumulavano. Se un piacere si dava nell'epos taviano, era il riscontrarvi quel sottile filo di degradazione che rende ogni registica "res gestae" accettabile: Mastroianni antieroe sino all'insopportabile, i ragazzetti sardi che s'inchiappettavano le galline spinti dal demone meridiano, la giustizia del fascistello colpevole d'aver spiato - e ancor più la mancata uccisione del padre suo dolente. Questo rendeva i migliori film dei Taviani delle storie vitali - e non l'assenza, ma la cristallizzazione d'esso motivo su germi comunque "eroici" (il facile scambio "Benedetti-Maledetti") stroncava i peggiori. Qui pare di cogliere un'irresolutezza, paradossalmente per colmo di sicurezza - il lavoro è tratto da un romanzo, le direttive su storia e personaggi vengono da lì, sono certificate da una scrittura precedente: l'incapacità dei registi di "degradare", "declinare" italianamente (secondo coordinate note a loro e allo spettatore), e così di "personalizzare" - di dar la loro personalità al discorso per figure, di rendere i personaggi pienamente incisi - affonda questa loro ultima pellicola. E mi viene la ragione per cui tanto il pubblico m'abbia indisposto: ho presagito un'indispettita insofferenza in loro, proprio al tratto degli Autori che maggiore m'attirava. Il pubblico di Masseria era giovane o "avanzato" nel '77, plaudente a quel che di vitale, pur(o) se grossolano, trovava nello spettacolo: ora credo apprezzi, dei Taviani, la componente scolastica, illusionistica, dalemiana - vuole specchiarsi nelle Grandi Cause, nei Grandi Ideali, senza dover faticare a rapportarli al proprio vivere, né però rinunciare a proclamarle per degne. E' il comodismo realizzato.

Ma non sarà, allora, che quello che ho visto altro non era che un perfetto film di "sinistra di governo"? E che il vero contatto fra i partiti di massa e le masse, oggi, avvenga mediante i comuni snobismi, piuttosto che attraverso i comuni bisogni?

Saperlo.



(*) Peraltro, vi fu un corto periodo in cui la Transcaucasia sembrò essere "terreno di manovra" (avrebbe detto Ciano) per gli interessi italici: ne accenna Paolo Vita Finzi nelle sue memorie Giorni lontani, il Mulino, Bologna 1989, p. 247-8;

(**) cfr. Fabrizia Raimondino, Althenopis (Einaudi).





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