ATTUALITA'
Adriano Angelini
La pazzia di Dio è inferiore a quella degli uomini che negano il mito, nel grande romanzo di Luigi De Pascalis
Mi sono imbattuto casualmente, come del resto succede sempre per le cose importanti, nel romanzo La pazzia di Dio, di Luigi De Pascalis (La Lepre Edizioni) e, al termine della sua lettura, posso tranquillamente affermare di essermi trovato di fronte a uno dei capolavori assoluti della storia della letteratura italiana almeno dal secondo dopoguerra. E' un testo, questo, che, seppur ambientato fra il 1895 e il 1922, le scuole dovrebbero adottare per far capire agli studenti tutto il novecento italiano, anche perché le cose più importanti di quel centennio, da un punto di vista storico sociale, sono avvenute proprio nel periodo preso in considerazione.
Il personaggio principale della storia è Andrea Sarra, membro della famiglia Sarra e figlio di Filippo ed Elvira. Nasce a Borgo san Rocco, immaginario paesino abruzzese della Valle del Sangro. La sua è una famiglia di proprietari terrieri che vive in una grande casa nel borgo. Andrea è un ragazzino curioso, vispo, la vita in campagna lo stimola, cresce con un fratellastro, Cicco e a poco a poco con vari fratelli e sorelle naturali (Camillo, poi Carlotta e Margherita). Tutto scorre naturalmente nella sua numerosa famiglia, nella sua vita, con le prime pulsioni sessuali, l'incontro con Rosa, la bella nipote di mamma Mafalda, una delle lavoranti di famiglia, che se la fa nel fienile con Cicco e lui la spia e se ne invaghisce. In seguito si comincia a insinuare l'insolito, come la presenza di uno strano Zi' Antò che di notte sembra trasformarsi in lupo mannaro; o l'immersione e l'adesione piena e sensuale nella vita di un mondo contadino legato alla natura e ai suoi cicli; o come una strana scatola nello studio di papà Filippo che custodisce una foto di una perturbante regina di Saba. De Pascalis, autore purtroppo noto più all'estero che in Italia (non solo ha vinto il premio Tolkien ma un suo racconto fantastico, nel lontano 1967, è stato inserito nell'antologia americana The Fantastic Swordsmen affianco a quelli di Robert E Howard e Lovecraft), con una scrittura abilmente lirica (ed è questa la cosa preziosa), fatta di interpunzioni dialettali e linguaggio semplice ma allo stesso tempo raffinato (esattamente come nei narratori di fine ottocento e inizio novecento del secolo scorso, e quindi con intromissioni dialettali anche nel discorso indiretto del narratore), ricostruisce, attraverso la rappresentazione delle vicende che partono da un paesino abruzzese, un affresco che ripercorre la storia della neonata Italia pre-industriale e poi industriale. Un Metello non ideologico, vivaddio!, soprattutto che non ripudia, come il personaggio di Pratolini, il passato. Anzi.
De Pascalis e la sua scrittura crescono, si modificano man mano che cresce il personaggio di Andrea. La sua storia d'amore con Rosa in adolescenza, la turbolenta partenza voluta dal padre per il convitto di Napoli, la formazione cameratesca e collegiale in un ambiente nuovo, pretesco ma non per questo meno infido; l'amicizia intessuta in quell'ambito con Polpetta, che diverrà il suo miglior amico, la storia di passione carnale a tre con la prostituta Cesira. Tanta roba, tanta storia. Tanti odori e sapori di un'Italia che ci portiamo addosso fin nelle viscere e della quale ogni tanto sentiamo la presenza fantasma, come quella che Andrea e Filippo percepiscono dentro la loro casa, dietro la conturbante figura dell'antenato protonotario Diodato Sarra che, uscendo da un quadro appeso in salotto, compare ai due uomini, padre e figlio, in occasione di determinati stravolgimenti familiari. I personaggi di De Pascalis (qui ma anche nel romanzo di cui parleremo dopo) sono caratterizzati da un'intensità, una vivacità, e una smania di vivere contagiosa, anche nei momenti difficili, nelle situazioni di un'esistenza ingarbugliata e magari perdente. Anzi, chi vince nella scrittura di De Pascalis è l'anti-eroe popolare, l'ombra che nasconde il tesoro inaccessibile; la marginalità accanto alla luce della ribalta (in questo la metafora di un Abruzzo perennemente dimenticato come regione – o ricordato solo nella tragedia – è impeccabile).
De Pascalis (e qui si presenta l'ennesima meraviglia di questo romanzo) diversifica i generi paragrafo dopo paragrafo. Quando, nel 1914 l'Italia si ritrova in maniera funesta e irresponsabile dentro la Grande Guerra, le sue pagine mutano ancora e Andrea, per rispondere a una vocazione totalmente irrazionale e quasi allucinata, parte per il fronte: papà Filippo, posseduto da non si sa quale demone del fare, è contento, lo benedice, mamma Elvira invece è disperata. Qui le pagine del libro toccano vette altissime. La guerra è vissuta in trincea, in mezzo al fango, al freddo o al caldo, sotto i sibili dei proiettili, delle bombe; è subita in un nord Italia lontano e alieno, in quel nord-est mitteleuropeo solo per le tante razze e diversità linguistiche che in quel periodo vi hanno incontrato una fine orrenda e disumana. Il giovane Sarra impara cosa significa diventare grandi secondo la cultura dominante: fare la guerra, uccidere, in un'iniziazione sacrificale che dura dalla notte dei tempi e che uomini e dèi condividono nello stesso identico folle modo. E non solo. Tornato al paese, Andrea Sarra sperimenta l'altra assurda e tremenda faccia della vita e di chi l'ha creata e di chi l'ha organizzata: la malattia. Nel 1919 l'influenza spagnola, come una sacerdotessa assetata di corpi umani, si porta via mezza Europa; Borgo san Rocco è falcidiato, la famiglia Sarra pure. Filippo, Elvira, Margherita. Ciliegina sulla torta che corona un'iniziazione particolare e la piena presa di coscienza sulla realtà delle cose, arriva il Fascismo, Rosa si è sposata, Andrea si scopre solo e senza più nulla che lo leghi alla sua terra natia (anche se, ancora un bel paradosso del romanzo, la storia è un inno alla ricerca e alla riacquisizione della tradizione e delle proprie radici). La Pazzia di Dio finisce con un coup de theatre che non sveleremo ma che prelude a un sequel che, da quanto sostenuto dall'autore stesso, sarà in realtà un prequel che tornerà indietro nel tempo (e a questo punto lo aspettiamo ansiosi). Il romanzo infatti è parte di una trilogia sulla famiglia Sarra il cui primo volume, dal titolo Il labirinto dei Sarra, era già uscito qualche mese fa (sempre per lo stesso editore), e all'inizio è ambientato ai nostri giorni quando il giovane Alessandro Sarra torna nel casale di Borgo san Rocco insieme ai vecchi prozii e allo zio Saverio. Ma qui De Pascalis abbandona la veste realista per affondare la penna in ciò che gli è ugualmente congeniale; la narrazione fantastico-mitologica. Qui, entrano in gioco Satiri e Annunaki, dèi babilonesi e divinità antico romane, in un gioco di riappropriazione simbolica dei miti che, distrutti da una storia onnivora e sempre più subalterna al dominio della ragion pura, sembra aver fatto diventare gli esseri umani ancora più pazzi di quel Dio cui De Pascalis attribuisce una insania inconoscibile e per questo sacra, distaccata, ineffabile, dietro la quale non sappiamo se davvero si nasconda un disegno preciso o soltanto il capriccio di un caos incontrollabile; o magari entrambi, che per giunta si reggono l'un l'altro nello stesso incalcolabile istante chiamato tempo. Il sacro, nelle sue primitive forme spregiativamente definite pagane (e De Pascalis lo sa bene e ce lo dimostra pagina dopo pagina), scacciato dalla porta principale della civiltà logico scientifica, rientra dalla finestra dell'inconscio e da lì si manifesta in forme e modi davvero incontrollabili e che nessun rito contemporaneo (desacralizzato) riesce a gestire. Alla letteratura, allora, soprattutto quella che non teme "Le Orme del sacro" (tanto per ricordare un rilevante contributo filosofico dei nostri tempi), e soprattutto a qualche scrittore coraggioso, il compito di riconciliarci con il distaccato e l'ineffabile; ben sapendo che l'ingordigia delle divinità e del sovrumano non è mai pienamente appagabile. Nel Labirinto dei Sarra, sotto le viscere della Maiella e della casa famigliare, ritroviamo una specie di "Mulino di Amleto", la macina del Satiro che protegge e veglia sui destini dei Sarra, anzi forse di una parte di umani, ed essa muove le sue vite e gli eventi dalla notte dei tempi e aspetta con pazienza che ogni discendente s'imbatta nella sua mastodontica presenza (non solo Alessandro, ma pure Cicco e il brigante Testadiferro), mentre il dio con le corna suona il flauto per ammaliare chi ha orecchie per intendere, o semplicemente chi è pronto per ascoltare la bellezza tremenda dell'esistenza e caricarsi sulle spalle le sue responsabilità. La Pazzia di Dio può essere letto come romanzo unico e slegato. Il Labirinto dei Sarra no. Chi ci si vuole inoltrare deve passare necessariamente per l'altro. Un plauso va all'editore Alessandro Orlandi, con la sua neonata casa editrice romana, La Lepre, per la lungimirante scelta di pubblicare un autore tanto delicato; sicuramente, e in maniera assurda, non considerato come meriterebbe.
Il personaggio principale della storia è Andrea Sarra, membro della famiglia Sarra e figlio di Filippo ed Elvira. Nasce a Borgo san Rocco, immaginario paesino abruzzese della Valle del Sangro. La sua è una famiglia di proprietari terrieri che vive in una grande casa nel borgo. Andrea è un ragazzino curioso, vispo, la vita in campagna lo stimola, cresce con un fratellastro, Cicco e a poco a poco con vari fratelli e sorelle naturali (Camillo, poi Carlotta e Margherita). Tutto scorre naturalmente nella sua numerosa famiglia, nella sua vita, con le prime pulsioni sessuali, l'incontro con Rosa, la bella nipote di mamma Mafalda, una delle lavoranti di famiglia, che se la fa nel fienile con Cicco e lui la spia e se ne invaghisce. In seguito si comincia a insinuare l'insolito, come la presenza di uno strano Zi' Antò che di notte sembra trasformarsi in lupo mannaro; o l'immersione e l'adesione piena e sensuale nella vita di un mondo contadino legato alla natura e ai suoi cicli; o come una strana scatola nello studio di papà Filippo che custodisce una foto di una perturbante regina di Saba. De Pascalis, autore purtroppo noto più all'estero che in Italia (non solo ha vinto il premio Tolkien ma un suo racconto fantastico, nel lontano 1967, è stato inserito nell'antologia americana The Fantastic Swordsmen affianco a quelli di Robert E Howard e Lovecraft), con una scrittura abilmente lirica (ed è questa la cosa preziosa), fatta di interpunzioni dialettali e linguaggio semplice ma allo stesso tempo raffinato (esattamente come nei narratori di fine ottocento e inizio novecento del secolo scorso, e quindi con intromissioni dialettali anche nel discorso indiretto del narratore), ricostruisce, attraverso la rappresentazione delle vicende che partono da un paesino abruzzese, un affresco che ripercorre la storia della neonata Italia pre-industriale e poi industriale. Un Metello non ideologico, vivaddio!, soprattutto che non ripudia, come il personaggio di Pratolini, il passato. Anzi.
De Pascalis e la sua scrittura crescono, si modificano man mano che cresce il personaggio di Andrea. La sua storia d'amore con Rosa in adolescenza, la turbolenta partenza voluta dal padre per il convitto di Napoli, la formazione cameratesca e collegiale in un ambiente nuovo, pretesco ma non per questo meno infido; l'amicizia intessuta in quell'ambito con Polpetta, che diverrà il suo miglior amico, la storia di passione carnale a tre con la prostituta Cesira. Tanta roba, tanta storia. Tanti odori e sapori di un'Italia che ci portiamo addosso fin nelle viscere e della quale ogni tanto sentiamo la presenza fantasma, come quella che Andrea e Filippo percepiscono dentro la loro casa, dietro la conturbante figura dell'antenato protonotario Diodato Sarra che, uscendo da un quadro appeso in salotto, compare ai due uomini, padre e figlio, in occasione di determinati stravolgimenti familiari. I personaggi di De Pascalis (qui ma anche nel romanzo di cui parleremo dopo) sono caratterizzati da un'intensità, una vivacità, e una smania di vivere contagiosa, anche nei momenti difficili, nelle situazioni di un'esistenza ingarbugliata e magari perdente. Anzi, chi vince nella scrittura di De Pascalis è l'anti-eroe popolare, l'ombra che nasconde il tesoro inaccessibile; la marginalità accanto alla luce della ribalta (in questo la metafora di un Abruzzo perennemente dimenticato come regione – o ricordato solo nella tragedia – è impeccabile).
De Pascalis (e qui si presenta l'ennesima meraviglia di questo romanzo) diversifica i generi paragrafo dopo paragrafo. Quando, nel 1914 l'Italia si ritrova in maniera funesta e irresponsabile dentro la Grande Guerra, le sue pagine mutano ancora e Andrea, per rispondere a una vocazione totalmente irrazionale e quasi allucinata, parte per il fronte: papà Filippo, posseduto da non si sa quale demone del fare, è contento, lo benedice, mamma Elvira invece è disperata. Qui le pagine del libro toccano vette altissime. La guerra è vissuta in trincea, in mezzo al fango, al freddo o al caldo, sotto i sibili dei proiettili, delle bombe; è subita in un nord Italia lontano e alieno, in quel nord-est mitteleuropeo solo per le tante razze e diversità linguistiche che in quel periodo vi hanno incontrato una fine orrenda e disumana. Il giovane Sarra impara cosa significa diventare grandi secondo la cultura dominante: fare la guerra, uccidere, in un'iniziazione sacrificale che dura dalla notte dei tempi e che uomini e dèi condividono nello stesso identico folle modo. E non solo. Tornato al paese, Andrea Sarra sperimenta l'altra assurda e tremenda faccia della vita e di chi l'ha creata e di chi l'ha organizzata: la malattia. Nel 1919 l'influenza spagnola, come una sacerdotessa assetata di corpi umani, si porta via mezza Europa; Borgo san Rocco è falcidiato, la famiglia Sarra pure. Filippo, Elvira, Margherita. Ciliegina sulla torta che corona un'iniziazione particolare e la piena presa di coscienza sulla realtà delle cose, arriva il Fascismo, Rosa si è sposata, Andrea si scopre solo e senza più nulla che lo leghi alla sua terra natia (anche se, ancora un bel paradosso del romanzo, la storia è un inno alla ricerca e alla riacquisizione della tradizione e delle proprie radici). La Pazzia di Dio finisce con un coup de theatre che non sveleremo ma che prelude a un sequel che, da quanto sostenuto dall'autore stesso, sarà in realtà un prequel che tornerà indietro nel tempo (e a questo punto lo aspettiamo ansiosi). Il romanzo infatti è parte di una trilogia sulla famiglia Sarra il cui primo volume, dal titolo Il labirinto dei Sarra, era già uscito qualche mese fa (sempre per lo stesso editore), e all'inizio è ambientato ai nostri giorni quando il giovane Alessandro Sarra torna nel casale di Borgo san Rocco insieme ai vecchi prozii e allo zio Saverio. Ma qui De Pascalis abbandona la veste realista per affondare la penna in ciò che gli è ugualmente congeniale; la narrazione fantastico-mitologica. Qui, entrano in gioco Satiri e Annunaki, dèi babilonesi e divinità antico romane, in un gioco di riappropriazione simbolica dei miti che, distrutti da una storia onnivora e sempre più subalterna al dominio della ragion pura, sembra aver fatto diventare gli esseri umani ancora più pazzi di quel Dio cui De Pascalis attribuisce una insania inconoscibile e per questo sacra, distaccata, ineffabile, dietro la quale non sappiamo se davvero si nasconda un disegno preciso o soltanto il capriccio di un caos incontrollabile; o magari entrambi, che per giunta si reggono l'un l'altro nello stesso incalcolabile istante chiamato tempo. Il sacro, nelle sue primitive forme spregiativamente definite pagane (e De Pascalis lo sa bene e ce lo dimostra pagina dopo pagina), scacciato dalla porta principale della civiltà logico scientifica, rientra dalla finestra dell'inconscio e da lì si manifesta in forme e modi davvero incontrollabili e che nessun rito contemporaneo (desacralizzato) riesce a gestire. Alla letteratura, allora, soprattutto quella che non teme "Le Orme del sacro" (tanto per ricordare un rilevante contributo filosofico dei nostri tempi), e soprattutto a qualche scrittore coraggioso, il compito di riconciliarci con il distaccato e l'ineffabile; ben sapendo che l'ingordigia delle divinità e del sovrumano non è mai pienamente appagabile. Nel Labirinto dei Sarra, sotto le viscere della Maiella e della casa famigliare, ritroviamo una specie di "Mulino di Amleto", la macina del Satiro che protegge e veglia sui destini dei Sarra, anzi forse di una parte di umani, ed essa muove le sue vite e gli eventi dalla notte dei tempi e aspetta con pazienza che ogni discendente s'imbatta nella sua mastodontica presenza (non solo Alessandro, ma pure Cicco e il brigante Testadiferro), mentre il dio con le corna suona il flauto per ammaliare chi ha orecchie per intendere, o semplicemente chi è pronto per ascoltare la bellezza tremenda dell'esistenza e caricarsi sulle spalle le sue responsabilità. La Pazzia di Dio può essere letto come romanzo unico e slegato. Il Labirinto dei Sarra no. Chi ci si vuole inoltrare deve passare necessariamente per l'altro. Un plauso va all'editore Alessandro Orlandi, con la sua neonata casa editrice romana, La Lepre, per la lungimirante scelta di pubblicare un autore tanto delicato; sicuramente, e in maniera assurda, non considerato come meriterebbe.
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