RECENSIONI
Paolo Senor
La ribalta degli invisibili
Terre di Mezzo, Pag. 140 Euro 10,00
Quante volte abbiamo sentito dire che "il mondo è un palcoscenico"? Che ognuno di noi "recita il proprio ruolo" nel teatro universale? Tante, che sono divenute ovvietà. Però: che succede quando si piglia la banalità alla lettera? Succede, più o meno, il Teatro dell'Oppresso, di cui questo libro breve ma denso - anche se poteva essere, a mio giudizio, organizzato meglio - presenta tecniche, varianti, articolazioni, prospettive.
No: benché si sia in ambito di teatro politico, l'oppressione alla quale gli spettacoli si riferiscono non è solo quella dei sistemi più o meno rappresentativi, autoritari o francamente dittatoriali. E' anche, direi soprattutto, quella della "normalità", della "maschera sociale" (cfr. nota a p. 112), che incamicia con le sue regole di coazione, i suoi "codici sociali che impediscono il contatto", (p. 22) l'autenticità delle persone, e dunque la realtà e il modo di affrontarla e viverla.
Possono sembrare discorsi datati, da "riprendiamoci la vita", tra il fricchettonismo e l'"ala creativa": come sono datati certi film, come lo sono certi slogan. Ma i problemi e le tensioni che le tecniche delle quali si parla, elaborate dal brasiliano Augusto Boal dalla metà dei Settanta ad oggi, rivelano, sono ben presenti e vive - lo testimonia il coinvolgimento del pubblico nelle forme principali di animazione (di "rianimazione", direbbe Paolo Rossi) che costituiscono il nucleo della drammaturgìa: teatro invisibile, teatro forum, teatro legislativo.
Ohibò! Come fa un teatro a essere "invisibile"? Semplice: si prende un qualsiasi luogo - che so, una corriera, una piazza, un caffè. Si studia bene l'ambito o il percorso - che col suo tragitto o spazio darà la scansione dell'agire teatrale - e i tipi umani che se ne servono, così da individuare discorsi per loro avvincenti. Quindi, gli attori si mescolano al "pubblico" - che, ovvio, non sa che sta avvenendo una recita - e con le loro parole e i loro atti cercano di far affiorare il disagio, la repressione, l'abbandono, ma anche l'allegria, della giornata. Due attori fingeranno di essere fidanzati che si lasciano, catalizzando gli astanti sui problemi più intimi. Subito dopo, due ragazze si faranno passare per lesbiche, spostando l'accento sulla diversità, sugli inciampi sociali che delle relazioni personali possono soffrire. Altri attori giocheranno da "coppia perbenista" per sollecitare l'emersione di sentimenti di difesa dall'estraneo o, viceversa, di solidarietà.
Il teatro forum, invece, propone una situazione messa in scena su un evidente palcoscenico, dunque dinanzi a un consapevole pubblico: che però ha il diritto di intervenire col proprio vissuto - consigliando o sostituendo l'attore - nella rappresentazione, divenendo una comunità di "spett-attori". (*) I luoghi rivisitati da questo modo di porre e di porsi in gioco, di solito, sono "microrealtà" famigliari, o di ristrette comunità (e comunità ristrette, talvolta: carcerati, folli), coerentemente alla strategia, ch'è di strutture sceniche come queste, di far sì che "il teatro e quella che chiamiamo realtà" divengano "tutt'uno". (p. 20) E, per osmosi, che il teatro divenga metodo per riappropriarsi del reale "al di là di come viene fatto apparire": (p. 32) la finzione agisce così da sonda rivelatrice del falso che inquina i fatti e il vero. E siccome "l'oppressione si legittima nella soggettività di chi la vive", (p. 43) ovvero "nessuno conosce l'oppressore meglio della sua vittima", (p. 44) si vuole, attraverso lo scambio di ruoli e la drammatizzazione, far prendere coscienza e riconoscere quanto e come profondamente sono radicati i meccanismi coercitivi nella società e nell'individuo - dimodoché si possa agire per modificarli, non partendo da una teoria astratta dalla quale dedurre casi particolari, bensì inducendo dalla pratica stessa la tattica per provocare il mutamento, giusta la finalità di "trasformazione dei conflitti in modo creativo e non violento". (p. 26)
Questo passaggio "da prassi a prassi" è ben esemplificato da un'esperienza (vedi p. 110) di Boal, l'attore che ha perfezionato il teatro dell'Oppresso: venendo dal Sudamerica in Francia, rimase stupito a chiedersi: "ma dove sono i poliziotti?" La realtà che conosceva lui era fatta di vessazioni palesi, di soprusi evidenti, di miseria tangibile. In quella europea, la sofferenza si intuiva, esprimendosi magari non attraverso la morte per fame, ma quella per overdose; e s'intuiva anche la pressione repressiva del potere, nella freddezza rigida delle persone e dei gruppi, e, finalmente, nel suicidio, "inconcepibile per chiunque debba lottare quotidianamente per la propria sopravvivenza". Con eleganza, Pino Caruso ha espresso tale percorso differente fra due mondi nella battuta "da ragazzino non mangiavo perché facevo la fame, oggi non mangio perché faccio la dieta".
Ecco allora che Boal s'accorge, come con lui chi aveva attraversato il lungo periodo che siamo soliti etichettare "il '68", che i poliziotti non erano scomparsi, si erano semplicemente trasferiti. Dalle caserme erano infatti "penetrati nelle teste delle persone", ostacolandone il cammino "verso i propri desideri". Demilitarizzare il proprio cervello diventa allora un obiettivo primario, e il teatro dell'oppresso poteva occuparsene: ma non trasportandosi pedissequamente dal Brasile all'Europa, piuttosto matenendo le finalità di liberazione individuale e sociale, ma "focalizzandosi "su dinamiche più sottili, in apparenza meno concrete", (p. 111) adatte alla nuova realtà e ai suoi problemi, nella volontà di creare un flusso continuo fra bisogni, rappresentazioni, realtà e cambiamento. (p. 112)
Esemplare di questo percorso, è il teatro legislativo (riassumo da p. 114): nel 1993 Boal viene eletto consigliere comunale a Rio de Janeiro. Subito lui e i suoi collaboratori organizzano - presso gruppi quali disoccupati, "senza terra", donne, omosessuali, abitanti delle favelas - delle azioni teatrali tese a chiarire ed esprimere le loro esigenze. Dopodiché, attraverso il teatro forum, vengono raccolte idee e progetti emersi dagli interventi del pubblico: suggerimenti che si raccolgono nell'ufficio legale di Boal, e divengono proposte di legge. In tal modo, si realizza una "democrazia transitiva", (p. 113) che sta fra quella "diretta" della Polis e quella "delegata" degli stati moderni, e che vuole istituire un dialogo il più possibile stretto e concreto fra governanti e governati. Non è ancora il "se potessi mangiare un'idea" della canzone di Gaber e Luporini, ma la strada pare essere quella: e se non lo è, almeno corre parallela alle pratiche d'organizzazione e coscientizzazione che ogni movimento politico - riformista o rivoluzionario che sia - deve premettere al suo "Ottobre", perché si abbia una reale saldatura fra gli interessi tanti e magmatici degli uomini e la loro chiara e risoluta soluzione civile, pubblica, comune.
Questo mi pare, difatti, il luogo d'interesse di queste pratiche: nel realizzare una buona mediazione, un discreto equilibrio, tra pubblico e privato, fra psichico e sociale - non solo come rappresentazione, ma pure come indagine, studio. Ciò rientra, peraltro, in quella che si pensa essere la primitiva e primaria (p. 85) funzione del teatro: quella gnoseologica, di conoscenza del reale, e dei mezzi attraverso i quali il reale si conosce. (p. 69) Si compirebbe allora un passo su d'un ulteriore itinerario: non solo dal pubblico al privato, ma dall'arte alla conoscenza - e da questa, come più volte ricordato, al mutamento. E il circolo (virtuoso) si chiude. Confermandoci magari nell'opinione che, almeno a queste latitudini, si nasca giganti per morire pollicini, si nasca facondi per morire infanti: e che si abbia dunque necessità d'una tecnica (d'una filosofia) della prassi, per rimettere dritto questo mondo a testa in giù.
(*) nel teatro di Celestini, o di Marco Paolini, si parla di "narr-attore" - e anche qui si esplora una possibilità di coagulare azione scenica e vita. Cfr. Cose da Pas!, "sinagoga" di questo Paradiso.
di Vera Barilla
No: benché si sia in ambito di teatro politico, l'oppressione alla quale gli spettacoli si riferiscono non è solo quella dei sistemi più o meno rappresentativi, autoritari o francamente dittatoriali. E' anche, direi soprattutto, quella della "normalità", della "maschera sociale" (cfr. nota a p. 112), che incamicia con le sue regole di coazione, i suoi "codici sociali che impediscono il contatto", (p. 22) l'autenticità delle persone, e dunque la realtà e il modo di affrontarla e viverla.
Possono sembrare discorsi datati, da "riprendiamoci la vita", tra il fricchettonismo e l'"ala creativa": come sono datati certi film, come lo sono certi slogan. Ma i problemi e le tensioni che le tecniche delle quali si parla, elaborate dal brasiliano Augusto Boal dalla metà dei Settanta ad oggi, rivelano, sono ben presenti e vive - lo testimonia il coinvolgimento del pubblico nelle forme principali di animazione (di "rianimazione", direbbe Paolo Rossi) che costituiscono il nucleo della drammaturgìa: teatro invisibile, teatro forum, teatro legislativo.
Ohibò! Come fa un teatro a essere "invisibile"? Semplice: si prende un qualsiasi luogo - che so, una corriera, una piazza, un caffè. Si studia bene l'ambito o il percorso - che col suo tragitto o spazio darà la scansione dell'agire teatrale - e i tipi umani che se ne servono, così da individuare discorsi per loro avvincenti. Quindi, gli attori si mescolano al "pubblico" - che, ovvio, non sa che sta avvenendo una recita - e con le loro parole e i loro atti cercano di far affiorare il disagio, la repressione, l'abbandono, ma anche l'allegria, della giornata. Due attori fingeranno di essere fidanzati che si lasciano, catalizzando gli astanti sui problemi più intimi. Subito dopo, due ragazze si faranno passare per lesbiche, spostando l'accento sulla diversità, sugli inciampi sociali che delle relazioni personali possono soffrire. Altri attori giocheranno da "coppia perbenista" per sollecitare l'emersione di sentimenti di difesa dall'estraneo o, viceversa, di solidarietà.
Il teatro forum, invece, propone una situazione messa in scena su un evidente palcoscenico, dunque dinanzi a un consapevole pubblico: che però ha il diritto di intervenire col proprio vissuto - consigliando o sostituendo l'attore - nella rappresentazione, divenendo una comunità di "spett-attori". (*) I luoghi rivisitati da questo modo di porre e di porsi in gioco, di solito, sono "microrealtà" famigliari, o di ristrette comunità (e comunità ristrette, talvolta: carcerati, folli), coerentemente alla strategia, ch'è di strutture sceniche come queste, di far sì che "il teatro e quella che chiamiamo realtà" divengano "tutt'uno". (p. 20) E, per osmosi, che il teatro divenga metodo per riappropriarsi del reale "al di là di come viene fatto apparire": (p. 32) la finzione agisce così da sonda rivelatrice del falso che inquina i fatti e il vero. E siccome "l'oppressione si legittima nella soggettività di chi la vive", (p. 43) ovvero "nessuno conosce l'oppressore meglio della sua vittima", (p. 44) si vuole, attraverso lo scambio di ruoli e la drammatizzazione, far prendere coscienza e riconoscere quanto e come profondamente sono radicati i meccanismi coercitivi nella società e nell'individuo - dimodoché si possa agire per modificarli, non partendo da una teoria astratta dalla quale dedurre casi particolari, bensì inducendo dalla pratica stessa la tattica per provocare il mutamento, giusta la finalità di "trasformazione dei conflitti in modo creativo e non violento". (p. 26)
Questo passaggio "da prassi a prassi" è ben esemplificato da un'esperienza (vedi p. 110) di Boal, l'attore che ha perfezionato il teatro dell'Oppresso: venendo dal Sudamerica in Francia, rimase stupito a chiedersi: "ma dove sono i poliziotti?" La realtà che conosceva lui era fatta di vessazioni palesi, di soprusi evidenti, di miseria tangibile. In quella europea, la sofferenza si intuiva, esprimendosi magari non attraverso la morte per fame, ma quella per overdose; e s'intuiva anche la pressione repressiva del potere, nella freddezza rigida delle persone e dei gruppi, e, finalmente, nel suicidio, "inconcepibile per chiunque debba lottare quotidianamente per la propria sopravvivenza". Con eleganza, Pino Caruso ha espresso tale percorso differente fra due mondi nella battuta "da ragazzino non mangiavo perché facevo la fame, oggi non mangio perché faccio la dieta".
Ecco allora che Boal s'accorge, come con lui chi aveva attraversato il lungo periodo che siamo soliti etichettare "il '68", che i poliziotti non erano scomparsi, si erano semplicemente trasferiti. Dalle caserme erano infatti "penetrati nelle teste delle persone", ostacolandone il cammino "verso i propri desideri". Demilitarizzare il proprio cervello diventa allora un obiettivo primario, e il teatro dell'oppresso poteva occuparsene: ma non trasportandosi pedissequamente dal Brasile all'Europa, piuttosto matenendo le finalità di liberazione individuale e sociale, ma "focalizzandosi "su dinamiche più sottili, in apparenza meno concrete", (p. 111) adatte alla nuova realtà e ai suoi problemi, nella volontà di creare un flusso continuo fra bisogni, rappresentazioni, realtà e cambiamento. (p. 112)
Esemplare di questo percorso, è il teatro legislativo (riassumo da p. 114): nel 1993 Boal viene eletto consigliere comunale a Rio de Janeiro. Subito lui e i suoi collaboratori organizzano - presso gruppi quali disoccupati, "senza terra", donne, omosessuali, abitanti delle favelas - delle azioni teatrali tese a chiarire ed esprimere le loro esigenze. Dopodiché, attraverso il teatro forum, vengono raccolte idee e progetti emersi dagli interventi del pubblico: suggerimenti che si raccolgono nell'ufficio legale di Boal, e divengono proposte di legge. In tal modo, si realizza una "democrazia transitiva", (p. 113) che sta fra quella "diretta" della Polis e quella "delegata" degli stati moderni, e che vuole istituire un dialogo il più possibile stretto e concreto fra governanti e governati. Non è ancora il "se potessi mangiare un'idea" della canzone di Gaber e Luporini, ma la strada pare essere quella: e se non lo è, almeno corre parallela alle pratiche d'organizzazione e coscientizzazione che ogni movimento politico - riformista o rivoluzionario che sia - deve premettere al suo "Ottobre", perché si abbia una reale saldatura fra gli interessi tanti e magmatici degli uomini e la loro chiara e risoluta soluzione civile, pubblica, comune.
Questo mi pare, difatti, il luogo d'interesse di queste pratiche: nel realizzare una buona mediazione, un discreto equilibrio, tra pubblico e privato, fra psichico e sociale - non solo come rappresentazione, ma pure come indagine, studio. Ciò rientra, peraltro, in quella che si pensa essere la primitiva e primaria (p. 85) funzione del teatro: quella gnoseologica, di conoscenza del reale, e dei mezzi attraverso i quali il reale si conosce. (p. 69) Si compirebbe allora un passo su d'un ulteriore itinerario: non solo dal pubblico al privato, ma dall'arte alla conoscenza - e da questa, come più volte ricordato, al mutamento. E il circolo (virtuoso) si chiude. Confermandoci magari nell'opinione che, almeno a queste latitudini, si nasca giganti per morire pollicini, si nasca facondi per morire infanti: e che si abbia dunque necessità d'una tecnica (d'una filosofia) della prassi, per rimettere dritto questo mondo a testa in giù.
(*) nel teatro di Celestini, o di Marco Paolini, si parla di "narr-attore" - e anche qui si esplora una possibilità di coagulare azione scenica e vita. Cfr. Cose da Pas!, "sinagoga" di questo Paradiso.
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