ATTUALITA'
Paolo Cognetti
La scuola, le scuole e i falsi maestri.
Caro Alfredo,
ho letto la tua recensione al mio libro sul Paradiso degli Orchi". Grazie per tutte le belle parole. Sono rimasto colpito dall'introduzione, e mi è venuta voglia di scriverti: non tanto per difendermi, quanto per ragionare un po', nero su bianco, sulla questione dei maestri.
Nel tuo articolo ti fai domande sulla scuola, e arrivi a due conclusioni molto diverse tra loro. La prima: la scuola italiana ignora completamente la letteratura contemporanea, e pertanto è inadeguata alla formazione di uno scrittore. Sono d'accordo. Io stesso sono un autodidatta. Non ho fatto l'università, e i miei studi al liceo si sono fermati a Verga, Svevo e Pirandello. Non so se nel frattempo, cioè negli ultimi dieci anni, i programmi della scuola superiore italiana siano cambiati di molto. Non credo.
Ma è la tua seconda conclusione che trovo brutale, e in contraddizione con la prima. L'idea che i giovani scrittori italiani non conoscano i loro predecessori si basa proprio sul presupposto che la formazione letteraria di uno scrittore sia affidata alla scuola. E invece io, ripeto, non ho imparato a leggere e scrivere sui banchi del liceo. Il mio è stato ed è tuttora un lento apprendistato fatto di ricerche, vagabondaggi, incontri casuali e innamoramenti germogliati tra gli scaffali di librerie e biblioteche.
Insomma, senza che la scuola me li abbia consigliati ho letto per conto mio Pasolini, Fenoglio, Pavese, Calvino, Levi e Rigoni Stern, Testori e Meneghello e Parise: di certo sono scelte parziali e nemmeno complete. Ma è un peccato di presunzione, da parte tua, pensare che io non li conosca soltanto perché non li nomino tra i miei maestri.
Il fatto è che sono scrittori molto lontani da me. Hanno raccontato un mondo che non è il mio, con una lingua che non è la mia. L'Italia della provincia, dei quartieri di città, del lavoro in fabbrica o nei campi, della militanza politica, della lotta tra le classi sociali: storie fortemente radicate in una terra e in una cultura che nella mia vita non esistono più. Io sono nato a Milano eppure non ho radici qui. Non ho conosciuto i miei nonni e non parlo nessun dialetto, sono cresciuto in mezzo a figli di immigrati meridionali tra gli anni Ottanta e i Novanta, i miei vicini di casa sono egiziani e rumeni.
Quanto alla formazione, sono stato nutrito di musica inglese e americana, fumetti e cartoni animati giapponesi, cinema d'autore francese e tedesco.
Quanto al mondo in cui vivo adesso, parlando di lavoro e società, è fatto più o meno così: passo ore davanti al computer, non so cosa sia un contratto di assunzione, non ho capito se esistano ancora le classi sociali, non ho la televisione ma ho appena visto nascere il Partito Democratico e quello della Libertà. Così succede che quando viaggio mi sento a casa a New York o a Francoforte, molto più che a Roma o nel Veneto dove ho pezzi della mia famiglia. L'Italia stessa, come categoria di appartenenza, mi è estranea: forse mi sento europeo, ma di sicuro non italiano. Sento un forte bisogno di definizioni nuove. E credo sia per lo stesso motivo che la mia vita, la mia storia, la ritrovo nella letteratura contemporanea americana: perché descrive i miei tempi, racconta me stesso meglio di tutte le altre. Concedimi almeno questo - di avere scelto i miei maestri per rispecchiamento e non per moda.
Scusa se mi scaldo quando parlo di queste cose. È che mi stanno a cuore. Ti ringrazio ancora per lo spazio, e per il tempo che mi hai dedicato.
Paolo
ho letto la tua recensione al mio libro sul Paradiso degli Orchi". Grazie per tutte le belle parole. Sono rimasto colpito dall'introduzione, e mi è venuta voglia di scriverti: non tanto per difendermi, quanto per ragionare un po', nero su bianco, sulla questione dei maestri.
Nel tuo articolo ti fai domande sulla scuola, e arrivi a due conclusioni molto diverse tra loro. La prima: la scuola italiana ignora completamente la letteratura contemporanea, e pertanto è inadeguata alla formazione di uno scrittore. Sono d'accordo. Io stesso sono un autodidatta. Non ho fatto l'università, e i miei studi al liceo si sono fermati a Verga, Svevo e Pirandello. Non so se nel frattempo, cioè negli ultimi dieci anni, i programmi della scuola superiore italiana siano cambiati di molto. Non credo.
Ma è la tua seconda conclusione che trovo brutale, e in contraddizione con la prima. L'idea che i giovani scrittori italiani non conoscano i loro predecessori si basa proprio sul presupposto che la formazione letteraria di uno scrittore sia affidata alla scuola. E invece io, ripeto, non ho imparato a leggere e scrivere sui banchi del liceo. Il mio è stato ed è tuttora un lento apprendistato fatto di ricerche, vagabondaggi, incontri casuali e innamoramenti germogliati tra gli scaffali di librerie e biblioteche.
Insomma, senza che la scuola me li abbia consigliati ho letto per conto mio Pasolini, Fenoglio, Pavese, Calvino, Levi e Rigoni Stern, Testori e Meneghello e Parise: di certo sono scelte parziali e nemmeno complete. Ma è un peccato di presunzione, da parte tua, pensare che io non li conosca soltanto perché non li nomino tra i miei maestri.
Il fatto è che sono scrittori molto lontani da me. Hanno raccontato un mondo che non è il mio, con una lingua che non è la mia. L'Italia della provincia, dei quartieri di città, del lavoro in fabbrica o nei campi, della militanza politica, della lotta tra le classi sociali: storie fortemente radicate in una terra e in una cultura che nella mia vita non esistono più. Io sono nato a Milano eppure non ho radici qui. Non ho conosciuto i miei nonni e non parlo nessun dialetto, sono cresciuto in mezzo a figli di immigrati meridionali tra gli anni Ottanta e i Novanta, i miei vicini di casa sono egiziani e rumeni.
Quanto alla formazione, sono stato nutrito di musica inglese e americana, fumetti e cartoni animati giapponesi, cinema d'autore francese e tedesco.
Quanto al mondo in cui vivo adesso, parlando di lavoro e società, è fatto più o meno così: passo ore davanti al computer, non so cosa sia un contratto di assunzione, non ho capito se esistano ancora le classi sociali, non ho la televisione ma ho appena visto nascere il Partito Democratico e quello della Libertà. Così succede che quando viaggio mi sento a casa a New York o a Francoforte, molto più che a Roma o nel Veneto dove ho pezzi della mia famiglia. L'Italia stessa, come categoria di appartenenza, mi è estranea: forse mi sento europeo, ma di sicuro non italiano. Sento un forte bisogno di definizioni nuove. E credo sia per lo stesso motivo che la mia vita, la mia storia, la ritrovo nella letteratura contemporanea americana: perché descrive i miei tempi, racconta me stesso meglio di tutte le altre. Concedimi almeno questo - di avere scelto i miei maestri per rispecchiamento e non per moda.
Scusa se mi scaldo quando parlo di queste cose. È che mi stanno a cuore. Ti ringrazio ancora per lo spazio, e per il tempo che mi hai dedicato.
Paolo
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