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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Alfredo Ronci

La storia negata: il revisionismo e il suo uso politico.

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In un bell'intervento sull'inserto dei libri de Il sole 24 ore del 22 novembre 2009 (*) Sergio Luzzatto definisce la vicenda del revisionismo in Italia una sorta di storia lineare: che parte con la fine del comunismo sovietico e di conseguenza con il consolidarsi della crisi della 'partitocrazia' e la formazione di una specie di cartello accademico-mediatico che ha nelle sue intenzioni quella di attentare alle basi di una storiografia in parte consolidata e che, tutt'ora, agita i vessilli di una riformulazione di alcuni aspetti del nostro vissuto.

Iniziò Renzo De Felice negli anni '80, con alcuni libri ad hoc, (compresa la sua colossale opera, meritoria, sul fascismo e Mussolini, che mostrava in fieri la volontà di revisione) ad accentuare certi elementi ridefinibili del nostro passato, come il ridimensionamento del ruolo della violenza nella presa del potere, su un presunto consenso spontaneo degli italiani, sulla negazione della natura totalitaria del Regime (il professor Fisichella all'Università La Sapienza di Roma negli anni '80 faceva lezioni sulla natura non totalitaria del fascismo), sul carattere non italiano, perché ricopiato dal Terzo Reich, dell'imperialismo e del razzismo del duce. Interpretazioni queste che, nel corso del tempo, non hanno retto ad una verifica storica. Nonostante tutto, approfittando del 'verbo' defeliciano è partita una serrata battaglia di alcuni sedicenti storici (Ernesto Galli Della Loggia, Arrigo Petacco), alcuni giornalisti di 'rango' (Paolo Mieli, ex studente dello stesso De Felice) e, come scrive sempre Luzzatto, professionisti dell'anticomunismo come Giuliano Ferrara, per revisionare storicamente il nostro passato che, come afferma Angelo Del Boca nell'introduzione al libro, ha raggiunto i suoi vertici proprio nel primo decennio del nuovo millennio.

La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico (a cura di Angelo Del Boca - Neri Pozza editore – 2009) contiene interventi di studiosi (qualcuno insinuerà: allineati ideologicamente), da Agosti a Collotti, da Rochat a Labanca a Tranfaglia, accomunati, pur nelle diverse branche di competenza, dalla necessità di far fronte a quello che ormai da qualcuno è considerato sport nazionale e che negli ultimissimi tempi ha portato alla luce personaggi di dubbio spessore 'morale', ma di indubbia capacità massmediologica: tra questi, senz'altro, Gianpaolo Pansa.

Proprio su questo punto, quello mediatico, Giovanni De Luca, in un pezzo centrato e serrato, pone l'attenzione sull'esistenza di un'affinità elettiva tra i media e il revisionismo. Scrive: Ed è per questo che il revisionismo tende a privilegiare la comunicazione televisiva rispetto ai libri, puntando alla costruzione di un senso comune che è esattamente il contrario della conoscenza storica; è un discorso sulla storia che rifiuta la complessità, che si riferisce alle varie interpretazioni come a una sorta di supermarket cui attingere di volta in volta secondo le convenienze e le aspettative del pubblico.

Ecco allora che gli estensori dei vari articoli, attraverso le loro competenze specifiche, cercano di riportare un po' di lucidità nel frastornante bailamme di una storiografia ridotta soltanto a fare audience e mercato. Mario Isneghi ci parla del trattamento subito recentemente dal Risorgimento ridotto ormai ad una sorta di aggressione minoritaria 'estranea' e giacobina e all'affacciarsi di una vulgata che considera la breccia di Porta Pia una ferita irrisanabile. Nicola Labanca sintetizza la grande opera dello stesso Del Boca a proposito degli italiani 'brava gente' e degli impulsi coloniali del governo liberale e soprattutto del fascismo arrivando a dire che per certuni In tempi di afropessimismi, di fallimento dei deboli tentativi di sviluppo e anzi di precipitazione del Continente nero nei conflitti civili e nei genocidi, non stupisce che anche in Italia si torni in fondo a pensare che 'era meglio quando c'eravamo noi (sorvoliamo poi sulla polemica di inizio anni '90 sull'uso dei gas nelle guerre d'Africa e lo sputtanamento del tanto, oggidì, riverito Indro Montanelli).

Nicola Tranfaglia ripercorre il ventennio fascista concludendo, contrariamente a come fece lo stesso De Felice nella sua mastodontica opera, che non porre la violenza e l'uso della strategia dello squadrismo più la via parlamentare alla base della vittoria di Mussolini tende a presentare quel governo e il regime che , in tre anni, si afferma in Italia non come una dittatura nuova e feroce che sarà all'inizio dell'espansione dei fascismi in Europa, ma come un regime autoritario in qualche modo adeguato alla lotta contro il comunismo e accettabile, almeno fino alla scelta sbagliata dell'alleanza con Hitler e della guerra contro le democrazie occidentali.

Giorgio Rochat analizza i tre anni della guerra 'mondiale' di Mussolini, 1940-43, affrontando il problema della 'rimozione' più grave, quella delle occupazioni balcaniche. Le truppe italiane furono certamente le meno feroci tra le forze contrapposte. Eppure condussero su larga scala fucilazioni di ostaggi, civili e prigionieri, devastazioni e incendi di villaggi.

Lucia Ceci fronteggia la spinosa questione della questione cattolica e dei rapporti dello Stato italiano col Vaticano. E pone l'accento su tre punti. Il primo: la nuova vulgata che vuole il Risorgimento come conquista anticattolica e quindi la rivendicazione di un ruolo determinante del cattolicesimo nell'identità italiana (dalle colonne del Corsera sono anni che Galli Della Loggia si spolmona in proposito). Il secondo: il secolare antigiudaismo della Chiesa cattolica (per chi volesse approfondire in altra sede il problema cercatevi il pezzo comparso sul Paradiso a titolo: La chiesa mente sapendo di mentire: l'antisemitismo della Civiltà Cattolica). Il terzo: l'ambiguo atteggiamento di Pio XII a proposito della persecuzione degli ebrei (ed ora Benedetto XVI lo vuole pure santo!)

Mimmo Franzinelli si chiede del perché del persistente fascino della figura di Mussolini e, a riguardo, dell'opera 'normalizzatrice' (cioè di raffigurare il duce come politico lontano da schemi più pertinentemente dittatoriali) di alcuni giornalisti, come il 'solito' Montanelli, o di politici come l'attuale senatore Dell'Utri che, fine bibliofilo, cadde nella trappola di acquistare i falsi diari di Mussolini (che guarda caso mostrano un uomo capace di autocritica e insofferente delle pagliacciate del segretario del PNF Storace o addirittura l'intima contrarietà del duce alle leggi razziali).

Enzo Collotti ci parla della Shoah e dell'antisemitismo di quasi tutta la destra storica di questo paese, a cominciare dall'oscuramento autobiografico che realizzò Almirante nel 1967 quando omise nelle sue memorie di ricordare che era stato redattore della famigerata rivista La difesa della razza. Solo così si può spiegare l'improvvisa scoperta dell'abiezione delle leggi contro gli ebrei da parte di un ceto politico che ancora due anni fa non disdegnava il verbo razzista di quell'aristocratico dell'antisemitismo che risponde al nome di Julius Evola.

Aldo Agosti invece affronta la questione della delegittimazione, per gradi, dell'ex partito comunista. A cominciare dalla bufala della lettera di Togliatti, a proposito della guerra di Russia e della fine dei soldati italiani, 'ritrovata' dopo la parziale apertura degli archivi sovietici al crollo del Muro. Sotto i colpi del revisionismo Togliatti era caduto già nella metà degli anni ottanta con l'offensiva craxiana (che riprendeva le pregiudiziali antifasciste di De Felice): L'obiettivo dell'operazione era trasparentemente politico, 'una abiura complessiva di Togliatti (non solo del 'carnefice' e 'aguzzino' stalinista) e, in sostanza, di tutto il passato del PCI veniva posta dal partito socialista come pregiudiziale ineludibile per possibili futuri rapporti unitari della sinistra. E da questo considerare la Costituzione uno strumento perfettibile dal momento che uno dei padri costituenti era oggetto di continui attacchi, il passo è breve.

Sull'intervento di Giovanni De Luna a proposito della creazione di un 'senso comune' tra revisionismo ed uso dei mezzi televisi, abbiamo fatto già un accenno in precedenza. Ma lo storico insiste sulla sporca manovra operata nei confronti della Resistenza. Se Claudio Pavone col suo ponderoso Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, aveva posto giustamente l'attenzione su due aspetti inediti, quello di considerare gli ultimi due anni del conflitto come una vera e propria guerra civile italiana (senza però scendere nell'agone di una riappacificazione nazionale sulla scia del 'volemose bbene'), e l'altro di porsi il problema 'morale' di tutto il movimento resistenziale (Pavone cercava di comprendere come nello stesso soggetto, collettivo ed individuale, abbiano potuto convivere due o tre guerre e le rispettive motivazioni), negli anni novanta ed inizi del duemila con la discesa in campo di Giampaolo Pansa (Il sangue dei vinti - ma guarda un po' come coincidono i tempi delle discese in campo di certi personaggi) la situazione si è completamente capovolta: nelle intenzioni di un 'vecchio' studioso di Resistenza il tentativo di delegittimare, ancora una volta, il PCI mostrandolo come l'unico responsabile dei massacri e delle violenze inaudite commesse dai partigiani, con il solo scopo di indebolire la borghesia come classe dirigente uccidendo quanti più possibili dei suoi membri.

Conclude il bel volume l'intervento di Angelo D'Orsi che amplia l'intervento precedente di De Luna affermando che negli ultimi anni il revisionismo (di cui ancora si indica come campione insuperabile Giampaolo Pansa che, nel suo ultimo libro, si bea di questa sua 'scomoda' etichettatura – Il revisionista) è diventato un vero e proprio caso di 'rovescismo', che l'autore definisce un figlio, magari spurio, del neofascismo. E dove una delle carti vincenti di questo 'movimento' è il leitmotiv revisionistico per eccellenza: Le colpe dei partigiani, vale a dire da un canto la loro irresponsabilità (eseguire attentati contro nazisti e i saloini, non curandosi delle conseguenze: il caso di via Rasella, come si sa, è l'esempio emblematico; e proprio su di esso una menzogna clamorosa è diventata moneta corrente sui giornali e alla televisione, con personaggi incuranti dei documenti, che ripetono e ribadiscono la responsabilità degli attentatori); d'altro canto, i partigiani vengono regolarmente accusati di essere vili. Insomma, gente che lancia il sasso e nasconde la mano, pronta a mettersi in salvo,lasciando alla mercé del nemico i civili inermi.

Insomma, per concludere, La storia negata, nelle intenzioni degli autori e del curatore (che ricordiamo è Angelo Del Boca) vuole essere uno strumento per riordinare le fila di una storiografia recentemente maltrattata (la lezione crociana che la Storia, con la esse maiuscola, è sempre contemporanea, ci pare ancora essenziale). Si deve continuare a studiare e a ri-cercare, ma evitando l'ovvietà di una trasformazione delle vicende detatte da un'impellente 'riscatto' ideologico, in un tempo in cui l'unico problema di questo nostro paese è quello di non infastidire l'unto del Signore nella sua opera meritoria di ricostruzione dell'Italia.





(*) Sergio Luzzatto – Rifondatori, non revisionisti – 'Domenica' Il sole 24 ore.





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