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Alfredo Ronci

Le "baracche" di Hitler. Appunti di prigionia di Alessandro Dietrich: 1944-1945.

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Per comprendere l'importanza di questo diario bisogna avere un quadro chiaro degli avvenimenti di quell'anno. Credo che la storiografia non abbia ancora messo in sufficiente evidenza lo smarrimento e lo sbandamento dei soldati italiani dopo la firma dell'armistizio del governo guidato da Badoglio con gli Alleati. Cosa avrebbe dovuto fare un militare, meglio ancora, a fianco di chi avrebbe dovuto combattere se una settimana dopo Mussolini, ormai ostaggio dei tedeschi, proclamava la nascita della Repubblica di Salò?

I numeri parlano chiaro: circa 180.000 italiani accettarono di restare fedeli all'alleanza a suo tempo stipulata tra l'Italia fascista e la Germania nazista (80.000 di loro vennero direttamente incorporati nell'esercito del Terzo Reich come combattenti o, più spesso, come ausiliari disarmati) mentre 600.000 rifiutarono di collaborare, in qualsiasi forma, con Mussolini e Hitler e scelsero la prigionia.

Fu una prigionia fuori da ogni convenzione internazionale e non sottoposta a controllo da parte delle associazioni umanitarie (prima fra tutte la Croce Rossa). La direzione politica e militare del Terzo Reich decise di non attribuire agli italiani lo status di prigionieri di guerra, ma quello di Imi (Internati militari italiani) proprio per sottolineare la continuità tra la Repubblica di Salò e il vecchio regime fascista. Ma non bastò a risolvere il problema: fu fonte di grave imbarazzo per Mussolini il giustificare presso l'opinione pubblica il protrarsi della detenzione di concittadini da parte dell'alleato tedesco. Non solo, ma la prigionia di questi soldati creava difficoltà a diversi uffici del Reich, preposti alla gestione della manodopera, perché gli internati dovevano essere sorvegliati dalla Wewhrmacht, in quanto prigionieri.

Nel settembre del 1944 una disposizione dell'Okw (Oberkommando der Wehrmacht) attribuì ai nostri connazionali un nuovo status: liberi lavoratori civili. Formalmente, essi non erano più prigionieri, in realtà restavano in Germania ed erano sottoposti, come schiavi, a tutta una serie di vessazioni che provocò migliaia di morti. Infatti, alla fine della guerra, nella primavera del 1945, ben 40.000 di loro non fecero ritorno.

Baracche, come dicevo all'inizio, è il diario di questa ennesima follia: Talvolta concludo che nulla è più ridicolo d'un campo di prigionia. Uomini in un pollaio, e sulla faccia della terra tanti pollai. Non c'è niente di vero, niente di equilibrato, niente di logico. Siamo tutti matti... matti e crudeli, fino al punto d'aver fatto delle leggi internazionali per regolamentare questa montagna di imbecillità. Le abbiamo rese noi cose serie, queste... esse hanno un solo aspetto umano: una enorme sofferenza senza senso (pag.70).

Alessandro Dietrich, dopo l'8 settembre, si rifiutò di firmare per la Repubblica Sociale Italiana, per questo fu ricercato e catturato a Cantù. Fu processato e condannato a morte ma ebbe la pena tramutata in prigionia e deportato in Germania, prima a Dachau, poi nel campo di Wietzendorf.

Durante quell'anno di reclusione, con mezzi di fortuna che possiamo immaginare, riuscì a tenere un diario, una sorta di lungo stillicidio di dolore personale e non e che, molti anni dopo, grazie all'interessamento e al paziente lavoro della moglie, è diventato il libro in questione.

Un libro straziante e lucido. Lucido soprattutto nelle definizioni di responsabilità politiche, che qua e là emergono nei dialoghi, spesso scomposti e deliranti per la fame e le cattive condizioni di salute, e che contrappuntano questa amarissima vicenda: Sai se il re si fosse fatto trovare a Roma, sul trono, e avesse detto ai tedeschi"Ecco, che volete?mi volete deportare? Sono pronto!" – E mò ce lo becchi, un re che fa così! Sono tutti uguali... e che ti pare che loro se la giochino la corona...! – E intanto nojantri... morammazzati qui...(pag. 81-82).

La settimana precedente la proclamazione dell'armistizio, Badoglio e il comando supremo delle forze armate non diedero che ordini vaghi e generici, dove ci si limitava a prescrivere l'obbligo di difendersi contro attacchi "da qualsiasi parte" essi provenissero. Solo l'11 settembre, quando lo stesso Badoglio e il re fuggito da Roma, erano ormai al sicuro a Brindisi, sotto la protezione degli Alleati, si diramò l'ordine di combattere contro i tedeschi.

Dicevo all'inizio, la storiografia ancora non ha fatto luce sui quei giorni e sullo straniamento degli italiani e soprattutto dei combattenti. I prigionieri di Baracche vivono sulla loro pelle, ancor di più, un senso finito delle cose, dove, di conseguenza, valori creduti inossidabili, si sgretolano sotto il peso di sofferenze indicibili, inumane e del tutto inutili: Mi piacerebbe tanto dire: sto qui per amore della patria... molti dicono così. A me viene da ridere. Morire per la patria. Ieri dicevo: «Uccidere per la patria». Non mi affascinano questi amori... la patria riabilita chi uccide, non chi muore: lui non ne ha bisogno... lui è morto... (pag.103).

Alessandro Dietrich è scomparso nel luglio del 1985 dopo essere stato per molti anni sindaco, una volta in una lista indipendente e la seconda volta appoggiato dal partito comunista, della cittadina di Albano laziale in provincia di Roma. Ha consegnato alla storia e ai lettori un documento importante e sensato che, soprattutto in questi tempi di isterismi che inneggiano a Patria, Famiglia e Dio, affermano con chiarezza il sacrosanto diritto ad una visione laica della vita. Nonostante Ratzinger e Ruini, Rutelli e Casini.



Alessandro Dietrich

Baracche – Appunti di prigionia 1944-1945

Sironi editore

Pag.218 Euro 14,50





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