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ATTUALITA'

Gianfranco Franchi

Le lettere 'alle tre amiche' di Scipio Slataper

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La prima edizione integrale di queste Lettere(1) apparve – a cura e con l'introduzione di Giani Stuparich – nel 1931, a Torino, in tre volumi, per i tipi dei Fratelli Buratti; quindi, poco più di venticinque anni dopo, l'opera venne ristampata da Mondadori, nella collana "Lo Specchio". Era il 1958.

Se la sorte di Slataper (1888-1915) fosse stata differente, il materiale avrebbe avuto interesse esclusivamente filologico; dopo Il mio Carso l'artista triestino stava meditando la scrittura di un'opera nuova, che avrebbe dovuto titolarsi "Le tre amiche": questi carteggi avrebbero potuto e dovuto, in altre parole, una volta trasfigurati e amalgamati, diventare un nuovo romanzo. Romanzo che possiamo congetturare e immaginare sulla base di una serie di suggestioni immediate: poteva essere la storia di un clan di letterati e artisti, lettura sentimentale e ideale, erotica e fondante d'un tempo nuovo, vagheggiato e preteso da una intera generazione; poteva essere una atipica commistione di registri e di generi, non estranea nemmeno al prosimetro e al diarismo; poteva, infine, essere il solare principio d'una cultura letteraria altra, triestina, mitteleuropea e nordeuropea: con potenzialità politiche imprevedibili, naturalmente liberali e democratiche.

Stuparich, sodale e fraterno amico, esaudì almeno in parte il desiderio del perduto compagno, dandone alle stampe i prodromi; restituendoci, con questo libro, un ritratto dell'essenza d'un poeta che amava disperatamente l'amore, la natura, la sua patria: quella Trieste ancora austriaca e presto italiana, a prezzo del sangue del suo figlio migliore. Figlio consapevole del suo ruolo e della sua missione, come apprezziamo in questo importante frammento: sono triestino (cioè senza una tradizione letteraria, ma devo fare tutto da me, e sopra un materiale storico e etnico molto più intenso che per lo più). Bisogna che io sappia fondere queste tre cose. Bisogna che io mi equilibri su esse, senza rinunziare a nessuna, perché se no la mia vita sarebbe manchevole e guasta. E riuscì, illustrando e preconizzando carsica e letteraria simbiosi tra italiani e sloveni, a tratteggiare – fu il primo – l'anima della città. Sostiene Magris, in Microcosmi: Slataper è l'anima di Trieste, che egli scopre e inventa; sogna per la città una grande aurora dello spirito mentre essa sta avviandosi al tramonto e strappa a questo tramonto luci e bagliori di una vera aurora. Fonda la cultura triestina denunciando che Trieste non ha tradizioni di cultura; l'atto spirituale di nascita è una diagnosi di morte e assenza.

Tornare a leggere Slataper significa onorare la giovinezza e lo spirito d'un artista trascurato dalle nuove generazioni, spesso del tutto sconosciuto al di fuori di Trieste; andiamo così a ribadire rammarico per il progressivo oblio della sua opera, e del suo sacrificio. È stato un sacrificio eroico: è il caso di spendere un aggettivo come questo per un letterato caduto in guerra per restituire una patria ai suoi concittadini, rinunciando a se stesso, ai suoi talenti, alla sua famiglia e al suo predestinato ruolo di guida degli artisti e del popolo; per lui, come per Carlo Stuparich e per quanti hanno perduto la vita per animare un sogno, nella Grande Guerra, il termine "eroe" ha senso: ha un peso: ha ragione di esistere. Dimenticarsene è ucciderli di nuovo.

In queste sue lettere riconoscerete umanità, stile e letterarietà: le ritroverete intrise di innocenza, di dolore e di coraggio. Tutte le scintille d'un grande fuoco bruciano e crepitano ancora.

Scriveva il curatore Stuparich, nell'introduzione alla prima edizione dell'opera: In queste lettere (...) c'è la materia del romanzo, la sostanza d'un periodo di vita intensamente vissuto e organico. E forse, in compenso di quel 'meglio' che ci avrebbe dato l'arte, c'è in esse una commozione più immediata e una verità umana più scoperta e più palpitante. Solo che il protagonista è lui, e non le tre amiche.

Narratore in prima persona delle gioie, dei tormenti e dei contrasti della sua anima, Scipio è un giovane febbrile e infuocato, hamsuniano; sembra echeggiare il Taschenbuch di Weininger, in certi frammenti lividi e cupi; è un precursore d'una scrittura à la Drieu La Rochelle del Racconto Segreto e à la Dagerman de Il nostro bisogno di consolazione: l'anima di Scipio versa sangue scrivendo, e quel sangue rigenera e rinnova. È prosa lirica: più ancora, è la mistica della triestinità, la mistica della patria, la mistica dell'amore.

Difficile riconoscere precedenti nella narrativa italiana dell'Ottocento e del primissimo Novecento, in questo senso; non a caso un disorientato Cecchi salutava con arroganza, nell'opera prima dell'autore, il grido d'un "Sigfrido dilettante". Piuttosto io penserei che quanti hanno amato la commistione di prosa e poesia dell'unico libro di Dino Campana, o magari non hanno dimenticato la scrittura in frantumi dell'altro vociano Giovanni Boine, non possano esimersi dal restituire almeno dignità alle poche e preziose pagine narrative di Slataper.

Domandandosi infine: chi ne ha raccolto consapevolmente il testimone, oggi, tra i letterati italiani? Cosa spaventa della lezione di Scipio, e cosa rimane indecifrabile?

Ara e Magris in Trieste spiegano in parte le ragioni di questo letterario incanto: A Trieste si scopre, ai primi del secolo, una cultura internazionale ancora ignota in Italia: Strindberg, Freud, Weininger, Ibsen, Hebbel (...). I giovani scrittori triestini trovano la loro originalità e la loro funzione rifiutando contemporaneamente la tradizione letteraria accademica italiana e quella tedesca; partecipano, a Firenze, al movimento vociano, che vuol rinnovare la cultura nazionale contestandone i modelli ufficiali e canonici, e si rivolgono, a Trieste, ad una nuova, emergente letteratura tedesca e nordica (...). Slataper presenta ai lettori italiani i Diari e la Giuditta di Hebbel e soprattutto Ibsen (...). E proprio dal suo amato Ibsen mutuerà l'amore per la ricerca dell'essenza, per l'indagine sulle intenzioni profonde di ogni essere umano, per la ricerca d'un senso assoluto: e a Ibsen dedicherà una fondamentale opera di studio, rimasta pietra miliare nel genere.

Stuparich ha suddiviso le lettere in tre gruppi – ad Anna Pulitzer (Gioietta), Elody Oblath-Stuparich e Luisa Carniel (Gigetta) – mantenendo una sequenzialità cronologica. È possibile individuare diversi atteggiamenti: la magnifica passionalità e l'intensità del totalizzante amore per Gioietta, suicida per amore di lui; l'amicizia tutta letteraria per Elody, confidente del sogno d'una rinascita dialettica e spirituale d'una civiltà; la ricerca d'un riparo, d'un conforto e d'una consolazione nelle lettere rivolte a Gigetta, la futura moglie. Assieme, scoprirete frammenti destinati a illuminare la dedizione all'umanità, alla patria e all'arte letteraria di Slataper. L'ultima lettera pretende una lettura isolata. Il letterato, al fronte, s'arrischia in una missione pericolosa: prima di partire, scrive alla moglie e domanda del bambino che verrà. Infine, il silenzio atroce della morte: stesso silenzio, con illustri eccezioni e singhiozzanti intervalli, delle generazioni successive.

Queste pagine sono fiori germogliati da uno spirito sempre vivo. Quello dell'amore di Scipio per la patria, per Anna e per Luisa, per la letteratura. Per Trieste, per la triestinità.

Le mie lettere sono assai rotte – tu hai sentito bene. E tu sai perché. Io non ho avuto mai ancora il senso della completezza. La mia vita s'è rotta sempre alla sommità. Non ho mai amato fino all'ultimo, anima e corpo. E di ciò sa il mio stile, e durerà così, migliorandosi, ancora per molto tempo. Fino al ritorno.





(1) Scipio Slataper, Alle tre amiche, Milano, Mondadori 1958.







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