ATTUALITA'
Marco Lanzòl
Le madonne dei filosofi.
Non ho visto filosofo arrivare a chiudere
il suo sistema
C. E. Gadda, Imitazione da Villon
Caro Te,
come ti dicevo l'altra sera al wine-bar del Gallo d'oro (paraponziponzipo'), per la maggior parte della sua vita creativa, Carlo Emilio Gadda fu conosciuto e riconosciuto come scrittore da una ridottissima cerchia di letterati - principalmente d'ambito fiorentino, solariano et citra et ultra. Nei tardi anni Cinquanta, le operine che aveva pubblicato in poco più di cento copie una ventina d'anni innanzi, a cercarle, ancora si trovavano nelle librerie della capitale medicea. Una maggiore diffusione avevano avuto racconti e "tratti" (capitoli) di romanzo pubblicati sulle riviste. Ma insomma, vedi da te che quello che con ragione sarà considerato l'eccelso autore italiano del Novecento, e uno dei più grandi d'ogni tempo, quando, anziano, viene assunto alla sede romana della Rai-radio, è sconosciuto alla massa dei lettori. E ti credo: la forma della pagina gaddiana è un apax, un meteorite - come la settima di Bruckner - che non ha eguali immediati (E Barilli? E Longhi? Oh, no: servili, servili! Genij per mestiere), né nella prosa d'arte o nei suoi cascami toscaneggianti, affatto nel neorealismo o realismo storico dei metellari "superatori" (abbondantemente - in qualità e quantità - presi per il culo da Bianciardi), neanche nel realismo magico mormorante-sorcaiolo e dipoi orcino-sorco, e neppure nelle architetture internazionali - americanesche, esistenzial-gausciste, gioiciane o proustatiche - in voga ai tempi. Pure Lampedusa gli avvicinarono, ma con tutt'il rispetto non era cosa. Per dire della qualità scadente di tali paralleli, quando volle somigliarsi a qualcuno, Gadda lettor di Machiavelli indicò quella brutta bestia di Céline. Ne viene che a petto alla nostrana romanzeria da finti cont(ad)ini il duca Carlo fa altro perché fu altro: un creatore di prima forza e di erudizione solidissima, e una creatura solitaria e infelice - peggio di Leopardi, sicché il gobbo pensava che il Padreterno ce l'avesse con l'Uomo, mentr'invece Gonzalo sapeva che ce l'aveva con lui.
E però in quei giorni sta per avere la sua rivincita, il milanese due volte venuto a Roma per trovarvi lavoro, il bizzosissimo capitano in congedo, il Gaddus fastidiato dall'impatto con gli "umani proietti", velatissimo eppur curioso del "petrarchismo generico e numerico" ch'esibivano colleghi di Penna coi loro Gitoni "scuri come arabetti e inarticolati come trogloditi", spaurito ai limiti della psicosi dalla sia pur tiepidissima "apertura a sinistra", deluso quant'altri mai dalla baracconata vile del fascismo - avvilimento che ingenererà l'invettiva poderosa, sfogo dolente e lutulento da tradito amante, dell'Eros e Priapo, e l'altro equivoco del Gadda progressivo, laddove fu invece ben satisfatto, almeno sino alla guerra, della coperta totalitaria che consentiva a lui e a quelli come lui di dormire sonni tranquilli.
Ti dicevo d'un altro equivoco, siccome (ovvio!) ce ne fu uno precedente e bino: nel '55, si pubblica Ragazzi di vita. E il bagliore creaturale della "fulgorazione", lo splendore "che sfonda" gli obiettivi naturali di Tonino, la luce tutta "sole e zella, zella e sole", che calcìna le distese di terra sabbiosa dove formicola nelle baraccopoli la peggio gioventù, intrisa di longhiana disperata vitalità, irrora con forza d'eleganza (sì, l'ha detto De Luca a tutt'altro rispetto, ma non credo mi pesti se impresto presto presto) i volti anemici del pìssi-pìssi letterario italicano, a proclamare una "non interrotta dichiarazione d'amore" resa (anzi, "renduta", dannunzianamente) con un impasto linguistico ove la diegesi chiama in causa Proust e Longhi (ridàje!) e il rimbaudismo senza genio e quant'altro - puranco il "siciliano" della prima sonata per solo violino del Giovanni Sebastiano -, ma dal quale affiora con faccia paragula il crudo bastardo dialetto né romano né romanesco, ma "tiburtino"- acciaccato e puntuto come certi bassi napoletani (Scarlatti, savàsandìr).
Su questo fondo si origina il "côté cour" del malinteso: esce per Garzanti, pure editore della storia di vita scaciata, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Dialetto qui (rettificato da Mario Dell'Arco), dialetto in Pasolini, e il casto connubio si consuma. Inutile dirti la superficialità di questa parentela: ma ebbe, credo, il suo effetto nel propellere la costruzione gaddiana verso l'aria rarefatta della montagna di copie.
Come pure l'ebbe il "côté jardin" del non voluto abbaglio: come t'è chiaro, la struttura del romanzo richiama il giallo-noir (tant'è che Germi libero ne ricavò Un maledetto imbroglio), attirando lettori insoliti alla narrativa, tanto quanto lo scandalo dell'"essere con te e contro te", lo scandalo della luce ("faro sei contro i farisei", direbbe Bartezzaghi), e l'apparecchio ricettivo di molti (tarato su I misteri di Parigi e consorti, ossia sulla curiosità morbosetta di penetrare, leggendo, gli "squallidi ambienti" dei figli del s(e)colo e di madre ighnota) convogliarono numerosi non pertinenti ai liti pas(c)oliniani. E ben lo posso dire, giacché non ho derivato questa convinzione da più o meno difettivi sillogismi, bensì dall'empirìa: pochi libri aveva in casa mio zio Mario, per (bisb)etica e tratti, e non per talento, così simile all'ingegnere - e anti-Jourdain. Fra questi, due seconde edizioni: "ragazzi" e "pasticciaccio", appunto. Comprati, m'assicurò - non era uomo da fingersi estimatore d'arte - per i motivi suddetti.
D'in su la cima delle centomila copie e passa, l'oscuro funzionario RAI, fornitore d'istruzioni sulla bòna pronuncia, radiodrammi per modo di dire, tirate sarcastiche sul discolo Foscolo "basettone acherontèo", e "bischèrrimi" commenti a tv-documentari o-scemi (Il Tevere, con le sue "strenue... generose lavandaie", "autorevoli panzoni" e "valorose potamèidi"), viene ricercato dai rotocalchi, afflitto da amici mai visti innanzi e da parenti di san Gennaro, e richiesto di dar sfoggio di tuttologia, dalla quale si difende con caparbia lucidità - "Cosa proverebbe se fosse cecoslovacco?" (c'era l'invasione sovietica) "Avrei paura. Sono cinquant'anni che vivo in mezzo a questa roba!". Sarà bene dunque lasciarlo tranquillo, poveruomo, e dedicarsi un attimino alla sua grafìa. Non senza ricordare, però, che il giovane Carlo Emilio avrebbe voluto laurearsi in lettere, con indirizzo filosofico. La madre glielo proibì: un cugino s'era iscritto a ingegneria, dunque anche lui doveva. Obbedientissimo - i sessantotti, le contestazioni, le rivolte verranno la dimàne - seppure smadonnando, Gadda eseguì, con buoni risultati. Ma, appena pote', seguendo il suo buon genio volle pellegrinare alla Madonna de' Filosofi: frutto immediato, l'esaustione degli esami di corso, e l'abbozzo di tesi sur il Leibnizio concordata col Martinetti e approvata da Banfi (siamo nel 1925 e dintorni). E la Meditazione milanese (maggio-agosto 1928).
Niente laurea, dunque: ma una solida consuetudine con Autori quali Leibniz appunto, Kant e Spinoza, con richiami che somigliano il costruttivismo logico di Gödel e approdano ai portati della fisica einsteniana. E un'idea di letteratura sostanziata dall'immagineria filosofica. O meglio: il problema conoscitivo è la cosa in sé di cui la letteratura è fenomeno distorto e analisi della distorsione - il supersistema ch'è la lingua autoriale (la langue?) viene dalla deformazione perspicua (come nelle trasformazioni topologiche) del sottosistema ch'è il dato linguistico. Non mi dilungherò - non ne son capace - sulle implicazioni formali di questa formula, e sui paralleli della speculazione gaddiana con quella dell'a lui ignoto Saussure. Ti dico solo, con Roscioni, che il Gran Lombardo imposta il proprio lavoro sulla "mìmesis", sul rispecchiamento: e però, com'è giusto, si chiede e si spiega "di che?" L'indagine modifica il dato: indagare il reale significa deformarlo-costruirlo. Allora, deduco io per te mio bravo, scrivere vale a dare origine a un linguaggio la cui relazione esatta con le cose è in quest'incontro-integrazione: cogliere e produrre il reale nella sua frenetica differenziazione, spiega ancora Roscioni. A un dipresso, è quel che accade in certe foto eseguite col flash: nel mentre la grana fotoricettiva o l'apparato digitalizzante ritrae i volti impressionandosi, questi si congestionano, impressionati dalla luce irresistibile. E il volto si fa maschera - ma c'era già, in alcuni tratti, questa in quello. Perciò emerge, ed esatta.
Ti domanderai se, nell'urto anelastico, anzi nella collosa appiccicaticcia confricazione dei "globula", degli "gnocchi" che sono le particelle atomiche del cosmo croconsueloide, la particola-io ne risenta. Direi di sì: si è stracitato che "barroco è il mondo, e il Gaddus ne ritrae solo la barrocagine". Ma essendo l'io un sistema dei sistemi del mondo, vi starà dentro, condividendone i tratti offesi (eccentricità, deformazione, distorsione, grottesco) simulandolo fisiognomicamente come s'assomigliano dei cugini. Barroco quello... e mi viene l'immagine, per chissà quale filo intermentale, del quadro in cui De Chirico si ritrae - dal mondo, verrebbe di continuare - addobbato all'uso d'un cortegiano. Fraintendendosi, il pittore esibiva il suo virtuosismo: l'ingegnere le ustioni per le fiamme del ducato.
Pretendeva dunque il Filosofo che il linguaggio fosse un'immagine del mondo: Gadda persegue uno dei modi per cui il motto s'invera. Gomitolo di relazioni in continua distorsione, il mondo (la sua struttura logica e logistica) è illustrato da un linguaggio impuro, deforme, meticcio, merdajuolo: ch'è realistico siccome mantiene col reale una comunanza nella difformità. Formosa deformità, difforme formosità: così s'atterriva ("pro Deo!!!") san Bernardo a paragone delle gargoille e del florale lussureggiare delle pietre voluto lapidariamente dall'abate Suger per il bestiario ornato della sua cattedrale. Ma Bernardo aveva, dinanzi a sé, il reale del romanico, Gadda del romanesco - se mi passi il facile jeu: da che gli venne la necessità di rendere il "gomitolo" multicàpite e plastico del mondo coi molti livelli d'una lingua modellata sull'imperfezione, sulla commistione, sull' eccentricità - "il gioco definitore o disgiuntore della maccheronea", esercitato sul serbatoio espressivo della vita.
Sì, la vita - il feticcio pasolinàzzo, palledoro, casilino-fellàccio. Eccoti che, congiunti dal caso, gli Autori l'uno dello Scandalo e l'altro della Restaurazione, tanto dissimili nel compatto stile e nei casi del modo loro, pervengono a compimento - reminescenza scolastica: "composizione" era, nell'editto di Rotari, la somma ("guidrigildo") che spettava alla vittima a riparazione del torto (qui: dis-torto) subìto. "Già il soldato, prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare, e del suo parto la puerpera": così Carlo Emilio, e non credo che Pier Paolo (accidenti ai nomi doppi!) avesse da eccepìre. Forse, amico mio, gli è che parole, concetti, idee, hanno un disperato bisogno delle cose, come la marmellata della fetta di pane - quella generazione ben l'aveva visto, nel tragico carnasciale fascio, lo sfascio della parola risonante di vuoto fragore, causa dello scialo della carne ventenne nei deserti di sabbia e di gelo, al ponte di Perati e sull'Amba Alagi. Insoddisfatto, sempre nel suo percorso il più giovane fra i due artisti cercherà addirittura la lingua senza parole della realtà, credendo di approdarvi col cinema, il teatro, "il corpo nella lotta" - slogan della statunitense Resistenza nera che in Pasolini vale "fisicità della creazione e delle parole". (Stefano Casi)
Sicché forse posso azzardarmi a dire che, oltre ogni differenza nella maniera, la generazione d'Autori dei nostri campioni seppe essere prolifica e prospera su questo patto tacito e tacitiano: il mondo esiste, c'è, è reale - per ingliommerato che sia. E deve un risarcimento, una composizione: fosse pure solo quella, simbolica, dell'"anatema pronunciato su tutto ciò che, in un mondo alienato, avrebbe la pretesa di fingere un ordine reale". Non io lo dico, ma Fedele D'Amico.
Per fare questo, bisognava tuttavia avercene, di realtà. Però, come cantava la Magnani del caffè, "allora c'era".
Allora sì.
Tuo
Marco, peraltro Lanzòl
P.S.: sarà bene ch'io ti rammenti che le notiziuole sulla quotidianità gaddesca le ho prese da Il Gran Lombardo, di Giulio Cattaneo (Einaudi, Torino 1991). E che al film di e con Pietro Germi (Italia, 1960) presero parte Claudio Gora, Franco Fabrizi, Cristina Gaioni, Eleonora Rossi Drago. Per la Meditazione milanese, ho scorso l'edizione Einaudi (Torino, 1974), prefata da Gian Carlo Roscioni. Il richiamo a san Bernardo è in Apocalittici e integrati, di Umberto Eco (Bompiani, Milano, 1978(2)) - quest'ultimo a sua volta riecheggia, se non sbaglio, Panofski. Di Stefano Casi riporto da I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005. Le parole di Fedele D'Amico le troverai in Un ragazzino all'Augusteo, Einaudi, Torino 1991, p.178. Sì: il musicologo le indirizza ai dodecafoni(ci), ma troppo belle mi sono parse e troppo azzeccate per rinunciarvi.
Infine, la regia del cortometraggio dedicato al fiume di Roma è di Giuliano Tomei, conArnoldo Foà voce recitante - RaiTre l'ha ritrasmesso il quindici marzo 1997.
il suo sistema
C. E. Gadda, Imitazione da Villon
Caro Te,
come ti dicevo l'altra sera al wine-bar del Gallo d'oro (paraponziponzipo'), per la maggior parte della sua vita creativa, Carlo Emilio Gadda fu conosciuto e riconosciuto come scrittore da una ridottissima cerchia di letterati - principalmente d'ambito fiorentino, solariano et citra et ultra. Nei tardi anni Cinquanta, le operine che aveva pubblicato in poco più di cento copie una ventina d'anni innanzi, a cercarle, ancora si trovavano nelle librerie della capitale medicea. Una maggiore diffusione avevano avuto racconti e "tratti" (capitoli) di romanzo pubblicati sulle riviste. Ma insomma, vedi da te che quello che con ragione sarà considerato l'eccelso autore italiano del Novecento, e uno dei più grandi d'ogni tempo, quando, anziano, viene assunto alla sede romana della Rai-radio, è sconosciuto alla massa dei lettori. E ti credo: la forma della pagina gaddiana è un apax, un meteorite - come la settima di Bruckner - che non ha eguali immediati (E Barilli? E Longhi? Oh, no: servili, servili! Genij per mestiere), né nella prosa d'arte o nei suoi cascami toscaneggianti, affatto nel neorealismo o realismo storico dei metellari "superatori" (abbondantemente - in qualità e quantità - presi per il culo da Bianciardi), neanche nel realismo magico mormorante-sorcaiolo e dipoi orcino-sorco, e neppure nelle architetture internazionali - americanesche, esistenzial-gausciste, gioiciane o proustatiche - in voga ai tempi. Pure Lampedusa gli avvicinarono, ma con tutt'il rispetto non era cosa. Per dire della qualità scadente di tali paralleli, quando volle somigliarsi a qualcuno, Gadda lettor di Machiavelli indicò quella brutta bestia di Céline. Ne viene che a petto alla nostrana romanzeria da finti cont(ad)ini il duca Carlo fa altro perché fu altro: un creatore di prima forza e di erudizione solidissima, e una creatura solitaria e infelice - peggio di Leopardi, sicché il gobbo pensava che il Padreterno ce l'avesse con l'Uomo, mentr'invece Gonzalo sapeva che ce l'aveva con lui.
E però in quei giorni sta per avere la sua rivincita, il milanese due volte venuto a Roma per trovarvi lavoro, il bizzosissimo capitano in congedo, il Gaddus fastidiato dall'impatto con gli "umani proietti", velatissimo eppur curioso del "petrarchismo generico e numerico" ch'esibivano colleghi di Penna coi loro Gitoni "scuri come arabetti e inarticolati come trogloditi", spaurito ai limiti della psicosi dalla sia pur tiepidissima "apertura a sinistra", deluso quant'altri mai dalla baracconata vile del fascismo - avvilimento che ingenererà l'invettiva poderosa, sfogo dolente e lutulento da tradito amante, dell'Eros e Priapo, e l'altro equivoco del Gadda progressivo, laddove fu invece ben satisfatto, almeno sino alla guerra, della coperta totalitaria che consentiva a lui e a quelli come lui di dormire sonni tranquilli.
Ti dicevo d'un altro equivoco, siccome (ovvio!) ce ne fu uno precedente e bino: nel '55, si pubblica Ragazzi di vita. E il bagliore creaturale della "fulgorazione", lo splendore "che sfonda" gli obiettivi naturali di Tonino, la luce tutta "sole e zella, zella e sole", che calcìna le distese di terra sabbiosa dove formicola nelle baraccopoli la peggio gioventù, intrisa di longhiana disperata vitalità, irrora con forza d'eleganza (sì, l'ha detto De Luca a tutt'altro rispetto, ma non credo mi pesti se impresto presto presto) i volti anemici del pìssi-pìssi letterario italicano, a proclamare una "non interrotta dichiarazione d'amore" resa (anzi, "renduta", dannunzianamente) con un impasto linguistico ove la diegesi chiama in causa Proust e Longhi (ridàje!) e il rimbaudismo senza genio e quant'altro - puranco il "siciliano" della prima sonata per solo violino del Giovanni Sebastiano -, ma dal quale affiora con faccia paragula il crudo bastardo dialetto né romano né romanesco, ma "tiburtino"- acciaccato e puntuto come certi bassi napoletani (Scarlatti, savàsandìr).
Su questo fondo si origina il "côté cour" del malinteso: esce per Garzanti, pure editore della storia di vita scaciata, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Dialetto qui (rettificato da Mario Dell'Arco), dialetto in Pasolini, e il casto connubio si consuma. Inutile dirti la superficialità di questa parentela: ma ebbe, credo, il suo effetto nel propellere la costruzione gaddiana verso l'aria rarefatta della montagna di copie.
Come pure l'ebbe il "côté jardin" del non voluto abbaglio: come t'è chiaro, la struttura del romanzo richiama il giallo-noir (tant'è che Germi libero ne ricavò Un maledetto imbroglio), attirando lettori insoliti alla narrativa, tanto quanto lo scandalo dell'"essere con te e contro te", lo scandalo della luce ("faro sei contro i farisei", direbbe Bartezzaghi), e l'apparecchio ricettivo di molti (tarato su I misteri di Parigi e consorti, ossia sulla curiosità morbosetta di penetrare, leggendo, gli "squallidi ambienti" dei figli del s(e)colo e di madre ighnota) convogliarono numerosi non pertinenti ai liti pas(c)oliniani. E ben lo posso dire, giacché non ho derivato questa convinzione da più o meno difettivi sillogismi, bensì dall'empirìa: pochi libri aveva in casa mio zio Mario, per (bisb)etica e tratti, e non per talento, così simile all'ingegnere - e anti-Jourdain. Fra questi, due seconde edizioni: "ragazzi" e "pasticciaccio", appunto. Comprati, m'assicurò - non era uomo da fingersi estimatore d'arte - per i motivi suddetti.
D'in su la cima delle centomila copie e passa, l'oscuro funzionario RAI, fornitore d'istruzioni sulla bòna pronuncia, radiodrammi per modo di dire, tirate sarcastiche sul discolo Foscolo "basettone acherontèo", e "bischèrrimi" commenti a tv-documentari o-scemi (Il Tevere, con le sue "strenue... generose lavandaie", "autorevoli panzoni" e "valorose potamèidi"), viene ricercato dai rotocalchi, afflitto da amici mai visti innanzi e da parenti di san Gennaro, e richiesto di dar sfoggio di tuttologia, dalla quale si difende con caparbia lucidità - "Cosa proverebbe se fosse cecoslovacco?" (c'era l'invasione sovietica) "Avrei paura. Sono cinquant'anni che vivo in mezzo a questa roba!". Sarà bene dunque lasciarlo tranquillo, poveruomo, e dedicarsi un attimino alla sua grafìa. Non senza ricordare, però, che il giovane Carlo Emilio avrebbe voluto laurearsi in lettere, con indirizzo filosofico. La madre glielo proibì: un cugino s'era iscritto a ingegneria, dunque anche lui doveva. Obbedientissimo - i sessantotti, le contestazioni, le rivolte verranno la dimàne - seppure smadonnando, Gadda eseguì, con buoni risultati. Ma, appena pote', seguendo il suo buon genio volle pellegrinare alla Madonna de' Filosofi: frutto immediato, l'esaustione degli esami di corso, e l'abbozzo di tesi sur il Leibnizio concordata col Martinetti e approvata da Banfi (siamo nel 1925 e dintorni). E la Meditazione milanese (maggio-agosto 1928).
Niente laurea, dunque: ma una solida consuetudine con Autori quali Leibniz appunto, Kant e Spinoza, con richiami che somigliano il costruttivismo logico di Gödel e approdano ai portati della fisica einsteniana. E un'idea di letteratura sostanziata dall'immagineria filosofica. O meglio: il problema conoscitivo è la cosa in sé di cui la letteratura è fenomeno distorto e analisi della distorsione - il supersistema ch'è la lingua autoriale (la langue?) viene dalla deformazione perspicua (come nelle trasformazioni topologiche) del sottosistema ch'è il dato linguistico. Non mi dilungherò - non ne son capace - sulle implicazioni formali di questa formula, e sui paralleli della speculazione gaddiana con quella dell'a lui ignoto Saussure. Ti dico solo, con Roscioni, che il Gran Lombardo imposta il proprio lavoro sulla "mìmesis", sul rispecchiamento: e però, com'è giusto, si chiede e si spiega "di che?" L'indagine modifica il dato: indagare il reale significa deformarlo-costruirlo. Allora, deduco io per te mio bravo, scrivere vale a dare origine a un linguaggio la cui relazione esatta con le cose è in quest'incontro-integrazione: cogliere e produrre il reale nella sua frenetica differenziazione, spiega ancora Roscioni. A un dipresso, è quel che accade in certe foto eseguite col flash: nel mentre la grana fotoricettiva o l'apparato digitalizzante ritrae i volti impressionandosi, questi si congestionano, impressionati dalla luce irresistibile. E il volto si fa maschera - ma c'era già, in alcuni tratti, questa in quello. Perciò emerge, ed esatta.
Ti domanderai se, nell'urto anelastico, anzi nella collosa appiccicaticcia confricazione dei "globula", degli "gnocchi" che sono le particelle atomiche del cosmo croconsueloide, la particola-io ne risenta. Direi di sì: si è stracitato che "barroco è il mondo, e il Gaddus ne ritrae solo la barrocagine". Ma essendo l'io un sistema dei sistemi del mondo, vi starà dentro, condividendone i tratti offesi (eccentricità, deformazione, distorsione, grottesco) simulandolo fisiognomicamente come s'assomigliano dei cugini. Barroco quello... e mi viene l'immagine, per chissà quale filo intermentale, del quadro in cui De Chirico si ritrae - dal mondo, verrebbe di continuare - addobbato all'uso d'un cortegiano. Fraintendendosi, il pittore esibiva il suo virtuosismo: l'ingegnere le ustioni per le fiamme del ducato.
Pretendeva dunque il Filosofo che il linguaggio fosse un'immagine del mondo: Gadda persegue uno dei modi per cui il motto s'invera. Gomitolo di relazioni in continua distorsione, il mondo (la sua struttura logica e logistica) è illustrato da un linguaggio impuro, deforme, meticcio, merdajuolo: ch'è realistico siccome mantiene col reale una comunanza nella difformità. Formosa deformità, difforme formosità: così s'atterriva ("pro Deo!!!") san Bernardo a paragone delle gargoille e del florale lussureggiare delle pietre voluto lapidariamente dall'abate Suger per il bestiario ornato della sua cattedrale. Ma Bernardo aveva, dinanzi a sé, il reale del romanico, Gadda del romanesco - se mi passi il facile jeu: da che gli venne la necessità di rendere il "gomitolo" multicàpite e plastico del mondo coi molti livelli d'una lingua modellata sull'imperfezione, sulla commistione, sull' eccentricità - "il gioco definitore o disgiuntore della maccheronea", esercitato sul serbatoio espressivo della vita.
Sì, la vita - il feticcio pasolinàzzo, palledoro, casilino-fellàccio. Eccoti che, congiunti dal caso, gli Autori l'uno dello Scandalo e l'altro della Restaurazione, tanto dissimili nel compatto stile e nei casi del modo loro, pervengono a compimento - reminescenza scolastica: "composizione" era, nell'editto di Rotari, la somma ("guidrigildo") che spettava alla vittima a riparazione del torto (qui: dis-torto) subìto. "Già il soldato, prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare, e del suo parto la puerpera": così Carlo Emilio, e non credo che Pier Paolo (accidenti ai nomi doppi!) avesse da eccepìre. Forse, amico mio, gli è che parole, concetti, idee, hanno un disperato bisogno delle cose, come la marmellata della fetta di pane - quella generazione ben l'aveva visto, nel tragico carnasciale fascio, lo sfascio della parola risonante di vuoto fragore, causa dello scialo della carne ventenne nei deserti di sabbia e di gelo, al ponte di Perati e sull'Amba Alagi. Insoddisfatto, sempre nel suo percorso il più giovane fra i due artisti cercherà addirittura la lingua senza parole della realtà, credendo di approdarvi col cinema, il teatro, "il corpo nella lotta" - slogan della statunitense Resistenza nera che in Pasolini vale "fisicità della creazione e delle parole". (Stefano Casi)
Sicché forse posso azzardarmi a dire che, oltre ogni differenza nella maniera, la generazione d'Autori dei nostri campioni seppe essere prolifica e prospera su questo patto tacito e tacitiano: il mondo esiste, c'è, è reale - per ingliommerato che sia. E deve un risarcimento, una composizione: fosse pure solo quella, simbolica, dell'"anatema pronunciato su tutto ciò che, in un mondo alienato, avrebbe la pretesa di fingere un ordine reale". Non io lo dico, ma Fedele D'Amico.
Per fare questo, bisognava tuttavia avercene, di realtà. Però, come cantava la Magnani del caffè, "allora c'era".
Allora sì.
Tuo
Marco, peraltro Lanzòl
P.S.: sarà bene ch'io ti rammenti che le notiziuole sulla quotidianità gaddesca le ho prese da Il Gran Lombardo, di Giulio Cattaneo (Einaudi, Torino 1991). E che al film di e con Pietro Germi (Italia, 1960) presero parte Claudio Gora, Franco Fabrizi, Cristina Gaioni, Eleonora Rossi Drago. Per la Meditazione milanese, ho scorso l'edizione Einaudi (Torino, 1974), prefata da Gian Carlo Roscioni. Il richiamo a san Bernardo è in Apocalittici e integrati, di Umberto Eco (Bompiani, Milano, 1978(2)) - quest'ultimo a sua volta riecheggia, se non sbaglio, Panofski. Di Stefano Casi riporto da I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005. Le parole di Fedele D'Amico le troverai in Un ragazzino all'Augusteo, Einaudi, Torino 1991, p.178. Sì: il musicologo le indirizza ai dodecafoni(ci), ma troppo belle mi sono parse e troppo azzeccate per rinunciarvi.
Infine, la regia del cortometraggio dedicato al fiume di Roma è di Giuliano Tomei, conArnoldo Foà voce recitante - RaiTre l'ha ritrasmesso il quindici marzo 1997.
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