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Il Paradiso degli Orchi
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Alfredo Ronci

Lettera all'autore di 'Pozzoromolo'. Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè.

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Caro L.R. Carrino ho letto il tuo ultimo libro, Pozzoromolo, edito da Meridiano zero, e voglio dirti che non mi è proprio piaciuto. Giudizio tranchant che in realtà nasconde un intento provocatorio, perché invece sarebbero necessari dei distinguo. Primo fra tutti: che il tuo romanzo è un bel romanzo (e che bella copertina!).

Mi si dirà, ma è paradossale, è contraddittorio. Per nulla: nella storia di Gioia, la donna che è nata maschio e come spesso accade, per inadeguatezza e necessità impellenti, cambia sesso vi ho ritrovato la sensibilità ed il tocco narrativo giusti che mi avevano fatto apprezzare il tuo precedente libro Acqua storta.

Ma gli apprezzamenti – ma non voglio apparire presuntuoso – finiscono davvero qui. Quel che non mi convince in Pozzoromolo non è il suo divenire, ma l'idea stessa che intuisco alla base. Che ritengo un'urgenza di ridefinire sociologicamente una realtà.

Questo, perdonami, è un modello della letteratura che può andar bene a chi si nutre di proclami (il proclama 'letterario' di Saviano, lanciato in tv, l'ho trovato repellente, ma perfettamente inserito nel contesto attuale), non a chi voglia defilarsi da una sua deriva che purtroppo sta davanti agli occhi di tutti (almeno agli occhi di quelli che vogliono vedere).

Mi rendo conto che forse il discorso non è ancora chiaro.

Recentemente mi sono imbattuto in un grande romanzo, un capolavoro che andrebbe consigliato nelle scuole e nei corsi di scrittura creativa per far capire davvero cosa significhi produrre un'opera d'arte: Musica leggera di Daniele Garbuglia (ediz. Casagrande). E di quel libro dicevo: Vita che per fortuna non è spiccia sociologia o ancor peggio, giornalismo fatto passare per indagine dell'anima: purtroppo il romanzo contemporaneo si divide tra chi insegue il sogno di un'invasività pynchiana che vorrebbe inglobare tutto in un marasma contemporaneo incomprensibile, e chi invece prosegue il discorso di un'indagine conoscitiva – sociologica appunto - del mondo come se, anche quando non si scrive di noir (che è il flagello dei nostri tempi), si percepisse la necessità di un bisogno conchiuso delle cose (per quieto vivere ignoro la terza via alla letteratura, quella post-tondelliana che ha ridotto la realtà ad un triste e sconsolante feticismo consumistico).

Ricapitoliamo. Non sopporto la letteratura invasiva, che ingloba lo scibile umano, che sminuzza ossessivamente la realtà nel tentativo di costruire un enorme puzzle contemporaneo. Ma non sopporto nemmeno (e in questo contesto, caro L.R. Carrino, colloco il tuo romanzo) la sociologia che si sostituisce alla letteratura. Perché allora preferisco i programmi di Santoro, che saranno pure un po' faziosi, ma mostrano un contatto diretto col dolore quotidiano che difficilmente però diventa luogo comune o piagnisteo consolatorio.

Il tuo Pozzoromolo ha la 'fattura' del piagnisteo consolatorio, della sofferenza fisica e psicologica che vuole però essere sbattuta in prima pagina perché altrimenti non sarebbe visibile. Appunto della sociologia massmediologica invasiva. Che francamente ha rotto i coglioni.

Intendiamoci: chi rompe i coglioni son quelli che credono nella necessità impellente di un'azione conoscitiva del mondo e dei suoi meccanismi. Io credo che il ruolo della letteratura sia un pochino più defilato, perché defilato è il ruolo del letterato e dello scrittore (di contro: se proprio non ci sta, facesse il politico, o lo strombazzatore di emergenze, come fa Saviano, che infatti non è uno scrittore!).

Tanti anni fa, esattamente trentaquattro, Pasolini, nell'esigenza di chiarire il suo personale 'sentire', immaginando di rivolgersi ad un Gennariello, nelle sue Lettere luterane, scriveva (e riporto integralmente il brano): io sto girando un film ambientato precisamente nel '44. Sono quindi costretto ogni giorno - con quello sguardo impietoso e elencatorio che il cinema richiede - a osservare gli «oggetti» che filmo. In questi giorni sto girando una scena in cui delle signorine borghesi prendono il tè. Ho osservato dunque, tra gli altri oggetti, delle tazzine da tè.

Il mio scenografo Dante Ferretti aveva fatto le cose in grande: aveva procurato per la scena un servizio molto prezioso. Erano tazzine color giallo uovo chiaro, con delle macchie a rilievo bianche. Legate all'universo delle Bauhaus e dei bunker, esse erano angosciose. Non potevo guardarle senza provare una fitta al cuore, seguita da un profondo malessere. Tuttavia quelle tazzine avevano in sé una misteriosa qualità, condivisa, del resto, dalla mobilia, dai tappeti, dai vestiti e dai cappellini delle signorine, dalle suppellettili, dalle stesse carte da parati: questa misteriosa qualità non dava però dolore, non causava un violento regresso (che poi la notte ho sognato) in epoche anteriori e atroci. Dava anzi gioia. La loro misteriosa qualità era quella dell'artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi Sessanta è stato così. Le cose erano ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l'artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu. Non c'è soluzione di continuità ormai, ai miei occhi, tra quelle tazzine e un vasetto.

Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale. Quest'ultimo, infatti, è stato superato definitivamente - abolito, distrutto - soltanto oggi. Fino a oggi è stato esso a fornire i modelli umani e i valori alla borghesia paleoindustriale: anche se essa li mistificava, li falsificava e li rendeva talvolta orrendi (com'è successo col fascismo e in genere con tutti i poteri clerico-fascisti). Mistificati, falsificati, resi orrendi al livello del potere, essi restavano reali al livello del mondo dominato dal potere: mondo che si era mantenuto in pratica, nell'enorme maggioranza, contadino e artigianale.

Da quando tu sei nato, quei modelli umani e quei valori antichi non sono serviti più al potere: e perché? Perché è cambiato quantitativamente il modo di produzione delle cose.

La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose, dà a te un insegnamento originario e profondo che io non posso comprendere (anche perché non lo voglio). E ciò implica una estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli.


Ecco, caro L.R. Carrino, probabilmente il tuo romanzo non mi è piaciuto perché, nonostante tra me e te ci siano solo dieci anni di differenza, (e mettendo da parte la discussione tra mondo protoindustriale e pre-industriale) vi è, come avrebbe detto Pasolini, un abisso nell'ambito del linguaggio delle cose, che però non dipende da un profondo salto generazionale.

La mia idea della letteratura (lontana dai deliri di Antonio Scurati che, in un saggio pubblicato da Bompiani nel 2008, la ritiene poco valida perché priva della tenaglia della drammaturgia e delle esperienze di guerra... ma pensa te, povero cristiano!) è diversa dalla tua: dove tu ti impantani – permettimi la metafora – nelle sabbie mobili di una pressante socioanalisi, io come un povero Cristo, preferisco camminarci sopra. Disconoscendo il pericolo. Perché se è vero che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire è pur vero che quando il cieco porta la bandiera, guai a chi vien dietro!





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