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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Gianfranco Franchi

Lettera d'amore e d'addio a una Panhard PL17. La confessione di un bibliofilo.

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Bibliomani, bibliofili, scout e lettori forti, non soltanto romani, condividono da qualche anno il culto per quella che sembra una piccola libreria di quartiere, in via Acqui, a pochi passi da piazza Re di Roma. "900 di carta" invece è uno scrigno di edizioni rare o introvabili: un tempietto in cui poter ammirare le prime edizioni dei romanzi dei nostri grandi letterati del Novecento, e cercare di aggiudicarsele a un prezzo ragionevole. Tendenzialmente, succede.

Archie R. Pavia è l'anima del luogo, il tuscolano detective del libro: siamo andati a scoprire aspetti del personaggio e almeno due delle sue creazioni artistiche.

Un paio di mesi fa, in coincidenza con una delle mostre che periodicamente Pavia organizza nel suo coraggioso e stoico vascello letterario, mi sono ritrovato dalle parti di via Acqui per sbirciare le vetrine di "900 di Carta". Mentre mi divertivo a scoprire come il nostro amico libraio aveva organizzato la sua mostra sulla Panhard e sui panhardisti ho pizzicato un'edizioncina niente male, in un angoletto. Semplice, essenziale e senza codice Isbn. Si trattava di Lettera d'amore e d'addio a una Panhard PL17, scritta proprio dal nostro Archie R. Pavia. Complesse e burrascose trattative m'hanno permesso, nell'arco di questi 45 giorni, di aggiudicarmi copia dell'opera, e d'un altro scritto del nostro poliedrico libraio: La confessione di un bibliofilo, racconto breve già apparso su «Cartevive», Periodico dell'Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, Anno XVI, n.1 (37), giugno 2005.

Vengo a raccontarvi di cosa si tratta, caso per caso. Le Lettere d'amore e d'addio a una Panhard PL17 sono una romantica dichiarazione d'appartenenza all'automobile guidata negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta: ma non a lei sola. Perché Pavia confessa che in 35 anni ha guidato non automobili, ma "mogli, fidanzate, più o meno effervescenti amanti. Donne d'alluminio e lamiera [...]". E in questo scritto dedica loro un "tardivo omaggio" pieno di ironia e di dolcezza, di nostalgia e di sensibilità.

Sono state tutte di seconda, terza o quarta mano. Pavia in questo racconto prende e condivide i suoi ricordi di automobilista, restituendoci uno spaccato dell'Italia perduta. Quella in cui i nostri genitori e i nostri nonni sceglievano le automobili senza l'angoscia di svanire nel traffico o di fracassarsi i nervi per l'impresa del parcheggio, in certe metropoli incubotiche, deliziati piuttosto da colori come "celeste cielo", "carta da zucchero" e "grigio latte", e da ciò che potevano evocare: quell'Italia in cui nessuno si metteva al volante controvoglia, e non sempre per costrizione o per necessità.

Si va da una vecchia Fiat 500 di nome Amerinda, color avana, classe 1960, comprata di quarta mano, orgoglio del giovane, timido Archie Pavia, a una Citroen Ami 6 Special di nome Olivia, classe 1964, in livrea bicolore, ventitre anni al fianco di Archie, sedotto dal suo "disegno spigoloso, tormentato", dalla sua aria di "grande giocattolo", dalla sua personalità artistica, già intuita da Bruno Munari e dal pittore Roberto Crippa. Si raccontano quindi le auto di famiglia, quelle vissute con brio francese e fantasie d'antan (una Peugeot di nome Brigitte: Bardot) e quelle rubate dopo un mese... e infine arriva lei, la Panhard PL17 del 1963, all'epoca "rivoluzionaria berlina a 4 portiere, lunga 4 metri e mezzo, massimo comfort, enorme bagagliaio e grintoso motore", comprata che era "decrepita" ma piena di fascino. Archie R. Pavia sa che sarà difficile, per sempre, "tenere a bada le immagini invisibili della memoria, del sentimento: del resto, siamo solo ciò che ricordiamo": e mentre s'avvia a consegnarla a chi la porterà nel paradiso delle vecchie auto, affida alla sua romantica Panhard le chiavi di un gran pezzo del suo passato, e della sua passata Italia. Non mancano reminiscenze kinghiane per esasperare l'umanizzazione dell'auto.

Il secondo racconto, La confessione di un bibliofilo, è la storia d'una malattia "elettiva ed elitaria" che Pavia chiama "tentacolare, cronica, ineludibile": una forma di perdizione, un'influenza subdola e sottile. L'amore per il libro. Non c'è una forma d'amore che non sia più soggettiva, egoistica e "superbamente assolutista": non c'è forma d'amore che non sia più seducente.

Pavia s'ammalò di bibliofilia giovanissimo, scoprendo su una bancarella torinese un libro d'un ex cronista del "Messaggero", il misconosciuto Gioacchino Lega. Si trattava d'un librotto di basso profilo, Cinquant'anni di giornalismo, passato per un sacco di mani diverse. Eppure esercitava uno strano, magnetico richiamo. Da quel giorno ad oggi Pavia, giornalista mancato, ha collezionato, "solo per il settore giornalistico", una cosa come settecento titoli: dodici ripiani su doppia fila, dal pavimento al soffitto.

L'artista racconta che la bibliofilia s'innescò forse per compensazione, per risarcimento d'un'infanzia in cui di carta stampata – libri scolastici esclusi – ne aveva respirata poca davvero. Eppure ne aveva una gran fame, e una gran curiosità. Ed è commovente pensarlo oggi, orgoglioso e sorridente, nel suo "estremo rifugio dagli orrori del mondo, comoda prigione senza sbarre né mura, ovattato eremo per laici esercizi spirituali": Archie sta lì e s'emoziona a poter parlare di dorsi, legature di pregio e legature canoniche, artisti laterali e opere misconosciute, tirature limitate ed edizioni introvabili. Più di tutto, s'emoziona pensando che quei libri, suoi amici e suoi figli, un giorno saranno amici e figli di qualcun altro – portando con sé qualche segno del loro passaggio nelle sue mani, mantenendo intatta la loro potenza, la loro essenza, il loro incanto.





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