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ATTUALITA'

Alfredo Ronci

Ma quelli dell'Accademia della Crusca non scopano?

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Recentemente un concorrente del 'Grande Fratello' (si dirà: ma ti vedi il 'Grande Fratello'? La risposta è sì, ma non rivelerò mai, nemmeno sotto tortura, perché lo faccio) ha pronunciato la seguente espressione: ti voglio vivere. Qualcuno al di fuori della casa ha commentato che si tratta di un vero e proprio neologismo e che l'Accademia della Crusca avrebbe dovuto riflettere sull'accaduto.

Ora, l'appunto riportato dimostra la perfetta ignoranza di chi crede che una frase usatissima possa passare per un costrutto originale (se proprio vogliamo essere pignoli, ti voglio vivere potrebbe essere una metonimia), ma soprattutto la conferma che il linguaggio usato in determinate circostanze è povero ed è un sottoprodotto della cultura di cui si fa parte (valutazione che non riguarda il sottoscritto che vede sì il 'Grande Fratello', ma si pone al di fuori delle umane questioni).

Guarda caso proprio recentemente l'Accademia della Crusca ha diffuso un documento in cui si ribadisce il cattivo insegnamento della lingua italiana ed il fatto che i giovani la conoscano poco e la parlino male.

Cesare Segre sul Corriere della Sera (io ho letto il pezzo sul portale Corriere.it) del 13 gennaio 2010 commenta l'accaduto con l'atteggiamento tipico dell'intellettuale, che ha sì le sue ragioni, anche sacrosante, nell'essere infastidito dall'impoverimento delle nostre espressioni, soprattutto colloquiali, ma lo fa con la spocchia tipica dell'anti-populista.

Sentiamo quello che dice: I giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri (si parlava di registro aulico, colto, medio, colloquiale, familiare, popolare e che ognuno deve essere espresso a seconda delle situazioni... e non si capisce perché) e con ciò stesso si mettono in condizione di inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili, e a riconoscere il ruolo o i meriti degli interlocutori.

Della serie: se parli male automaticamente sei inferiore rispetto a chi si esprime meglio. Considerazione che può essere giusta, ma che ignora il fatto che il parlare 'scorretto' o l'uso del vernacolare spesso è il mezzo più appropriato per una riconoscibilità di fondo.

Se i rapporti fossero sempre di questo tenore non si capirebbe perché allora una scrittore dovrebbe far uso del dialetto o di espressioni colorite (penso al Pasolini di Ragazzi di vita o agli esempi più recenti come possono essere quelli di Camilleri o di Siti, definiti da Simonetta Fiori su Repubblica, a proposito della nascita in letteratura di un nuovo neorealismo, il primo un trionfale impasto italo-siculo, il secondo un romanesco iper-grigio (e che vuol dire?)).

Ma Segre va oltre: nel ribadire la necessità dell'uso dei registri che in qualche modo eviterebbe la tentazione strisciante del populismo, accusa la contemporaneità di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso, che inizia con la c. Un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti. Insomma, una vera fallolatria.

Anche qui la partigiana apprensione dell'intellettuale di 'maniera' lo porta a strafare: se da una parte ha ragioni da vendere, dall'altra rischia (anche se Segre teme che la disapprovazione sia considerata bacchettoneria) che si faccia di tutta l'erba un fascio. Perché se si può anche non transigere sulla deriva di un turpiloquio eccessivo, è pur vero che l'orizzonte 'dominato' da organi sessuali maschili e femminili non mi sembra prerogativa dell'attuale narrativa, soprattutto indigena. Ed il fallocentrismo, ammettendo che esista (nell'immaginario e non solo del potere esiste eccome, meno convinto che sia preponderante nella quotidianità più spiccia), rischia di passare solo per depravazione. Non si capisce perché mai Segre, nel suo articolo, nell'osteggiare il malcostume di molti nostri politici, vogliosi di celebrare la propria virilità, inviti a rileggersi Eros e Priapo di Gadda (che aveva sì le sue straordinarie intuizioni sull'esibizionismo del potere – quello mussoliniano – ma non diceva nulla sulla sessualità in sé. Come chiedere a un prete di parlare di famiglia: sulla sessualità di Gadda stenderei un velo pietoso, dal momento che lo scrittore, poco prima di morire, bruciò scritti che contenevano più di qualche esplicito riferimento alla sua omosessualità) e non magari Petrolio di Pasolini.

Perché qua bisogna capirsi: il turpiloquio, e quel che a volte si porta inevitabilmente dietro, è sempre comunque esecrabile o a volte serve per introdurre una realtà che può anche essere condannabile, può anche risultare indigesta, ma è comunque espressione di un sentire non 'alto'?

Perché nei plurimi 'abboccamenti' pasoliniani nei pratoni del casilino c'erano sì, la capacità argomentativa e la seduzione inebriante dell'intellettuale-artista-scrittore, ma nella riconoscibilità degli atti violenti, ma desiderati, c'era un fondo di 'animalità' che rendeva quelle pagine di Petrolio tra le più terrificanti, ma convincenti di tutta la nostra narrativa del novecento.

Mi pare francamente esagerato che Segre concluda dicendo: Non si può reagire col sorriso, quando si rifletta che richiamarsi ai fondamentali della nostra animalità, alla vitalità prepotente e incontrollabile del sesso, ci porta agli antipodi non solo della ragione e degli ideali, ma anche della razionalità e della capacità dialettica che dovrebbero contraddistinguere l'homo sapiens sapiens.

E che sarà mai un'espressione colorita o una buona scopata! E che cazzo!





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