RECENSIONI
Pier Maria Bocchi
Mondo Queer
Lindau, Pag.214 Euro 19,00
Capisco che non si poteva usare un titolo come La concezione materialistica del cinema culo. Però, 'sto Mondo queer! Pare un film di Jacopetti!
Vabbe': "queer" vale "strano, contorto", dunque "finocchio, frocio". E potrei esordire elencando quel che di Bocchi non m'è grato. Id est : vi si riporta, d'un regista canadese (Bruce LaBruce): "I festival gay dovrebbero concentrarsi di più sul cinema, e meno sulla questione gay". (p. 189) Ma allora, a che servono i festival gay? Ovvero: se esiste una "specificità" (e relativa questione) gay, perché non festivalizzarla e discuterne? E se non esiste, perché fare film gay? Per il mero gusto di rompere gli (fe)stivali?
Potrei, dicevo: ma rubando spazio a quel che l'Autore dice, molto più fedele, compatto e interessante (se sia condivisibile, è altra manica). Il quale Estensore non collaziona una storia del cinema (omo, nel caso) - come il dizionario del Mereghetti, a cui il Nostro ha collaborato, rassegna dei film dello scibile umano. Piuttosto, discute su come la "struttura cinematografica" (p. 6) (e mediatica) gay abbia rappresentato l'"immagine frocia", sia in generale, con un occhio al "paratesto", (p. 7) che nell'interazione/scontro con il gai saber - la critica (una delle pile d'acquasanta del testo è Lo schermo velato di Vito Russo), l'intellighenzia, la "militanza matrigna" le quali, malgrado la loro funzione necessaria per la presa di coscienza, gestirono e compiono ancora la "devitalizzazione" (p. 6) del cinema omo in quanto cinema, e quell' "estrapolazione archiviale di interessi o presenze queer nel cinema" che ha condotto "alla normalizzazione della specificità". (p. 116)
Disamina, quella di Bocchi, non quindi fra le più semplici; pigliamo ad esempio di percorso la puntuale e puntuta diatriba sulla frociaggine come "genere" (riassumo dalle pp. 120-126). Ammetterlo, significherebbe confermare la stereotipia eteròta - rimasticata dal "queer chic & chèc" - che si proietta sulle identità gay: sottrarla al genere, vorrebbe dire "immetterla come storia tra le storie". E siccome l'omosessualità "mette in evidenza l'impossibilità di captare il mondo secondo strumenti di catalogazione preordinati dalla cultura dominante", essa agirebbe come un "virus che entra e contamina proprio quella cultura". Ergo, "il cinema di interesse queer ha bisogno di uscire dalle rassegne gay (...) per educare lo spettatore non gay alla cultura gay" acquisendo "uno statuto di cinema per tutti, mantenendo nel contempo una propria indelebile specificità" realizzata nella "contaminazione dei generi"- tenendo conto che "l'omosessualità-virus ha la necessità di contaminare, ma anche di essere contaminata, perché non è mai un processo unidirezionale".
In questa visione, il cinema (i media) gay potrebbe(ro) risultare storicamente come illustrazione del conflitto tra l'assunzione dello stereotipo e la lotta contro di esso, e ora modellarsi sull'utilizzo del tipico come "cavallo di Troia" (p. 138: "armarsi dello stereotipo contro gli stereotipi") per veicolare una sostanziale e irriducibile differenza (specificità) - rapporto conflittuale e però contrattabile fra "norma" e "discussione (critica) della norma". Non esatto medio termine fra gli integrati - aderenti come tellìne ai moduli etero, sì da farsi includere nella maggioranza -, e una minoritaria ma combattiva frocerìa - che si chiede (p. 180) a quale prezzo vengano acquistati i "diritti" - il personaggio gay e le sue storie dovrebbero sensibilizzare le folle omo ed etero sulle distinzioni "libertà, non normalità" (p. 42) e "uguaglianza, non conformità", (p. 47) sicché le prime non si denàturino e non cedano all'omologazione e al dèmone del vittimismo (cfr. p. 51-2) - alla cultura del piagnisteo, direbbe Hughes -, e le seconde riflettano su come e quanto il "discorso gay" abbia da offrire anche a loro per migliorarsi la vita, per non ridursi a osservare e piangere "senza avere opzioni per mutare ideologia", (p. 173) per non farsi sbranare dal "potere mutilante", come lo chiama Piergiorgio Paterlini. (p. 49)
Così, rimarcando peraltro che "un film è buono per l'omosessualità quando la dice, non quando la fa sognare", (p. 116), pellicole che si muovono in questa direzione sono - ne cito alcune più vicini allo Spettatore italiano - Domenica, maledetta domenica (Schlesinger), Nerolio (Grimaldi), L'harem (Ferreri), Priscilla (Elliott), Ostia (S. Citti), Beautiful thing (MacDonald), Il sapore del grano (Da Campo) e, tra i classici, Mikaël (1924) di Dreyer (p. 133 e seguenti) - oltre al "noir" in genere, poiché è strutturato su un' "atmosfera di non certezza" che lo rende "adatto a rappresentare un mondo di dinamiche anche queer". (p. 117)
Dinamiche non sempre gradevoli: a proposito de La vergine dei sicari (Schroeder) e delle polemiche che ha destato nella "militanza", Bocchi fa notare che "il frocio va bene fino a quando agisce nel suo mondo, quando la sua ribellione è più che altro interiore e dialettica (...); se invece comincia a fare del male uccidendo (...) potando le viti (*) del vivere dominante, allora si scende in corteo perché l'immagine non è realistica, non è indicativa di una specificità, non rappresenta il buon gay". (p. 149-50) La citazione è lunga, ma la res è centrale: "demerdizzare" (nel senso inteso dal Labranca "pecoreccio") la rappresentazione dell'omosessualità significa rendergli un brutto servizio dal punto di vista estetico, buttandola tra le fauci del "midcult", ovvero della peggior forma di massificazione adulterina che l'arte possa subìre - per non parlare dei dànni alla verosimiglianza.
In conclusione: ogni volta che si leggono saggi come questo, che hanno dignità ed energia, ci si rende ben conto che l'identità (di chiunque) ha certo a che vedere con la dimensione psichica, ridotta o estesa come si crede, e con la storia, maiuscola e minuscola. Ma pure, e in misura notevole, con quella che potremmo chiamare "parola agìta", la drammaturgia di narrazioni che (ci) raccontiamo, e che ci raccontano. Ogni volta, dunque, che vogliamo rivendicare un "sé e per sé" che ci rappresenti, dobbiamo operare una rappresentazione. Perciò, a chi chiede "a che serve tutto questo", bisognerà rispondere "a esistere".
(*)(allusione a The grapes of wrath, il titolo originale di Furore?)
di Marco Lanzòl
Vabbe': "queer" vale "strano, contorto", dunque "finocchio, frocio". E potrei esordire elencando quel che di Bocchi non m'è grato. Id est : vi si riporta, d'un regista canadese (Bruce LaBruce): "I festival gay dovrebbero concentrarsi di più sul cinema, e meno sulla questione gay". (p. 189) Ma allora, a che servono i festival gay? Ovvero: se esiste una "specificità" (e relativa questione) gay, perché non festivalizzarla e discuterne? E se non esiste, perché fare film gay? Per il mero gusto di rompere gli (fe)stivali?
Potrei, dicevo: ma rubando spazio a quel che l'Autore dice, molto più fedele, compatto e interessante (se sia condivisibile, è altra manica). Il quale Estensore non collaziona una storia del cinema (omo, nel caso) - come il dizionario del Mereghetti, a cui il Nostro ha collaborato, rassegna dei film dello scibile umano. Piuttosto, discute su come la "struttura cinematografica" (p. 6) (e mediatica) gay abbia rappresentato l'"immagine frocia", sia in generale, con un occhio al "paratesto", (p. 7) che nell'interazione/scontro con il gai saber - la critica (una delle pile d'acquasanta del testo è Lo schermo velato di Vito Russo), l'intellighenzia, la "militanza matrigna" le quali, malgrado la loro funzione necessaria per la presa di coscienza, gestirono e compiono ancora la "devitalizzazione" (p. 6) del cinema omo in quanto cinema, e quell' "estrapolazione archiviale di interessi o presenze queer nel cinema" che ha condotto "alla normalizzazione della specificità". (p. 116)
Disamina, quella di Bocchi, non quindi fra le più semplici; pigliamo ad esempio di percorso la puntuale e puntuta diatriba sulla frociaggine come "genere" (riassumo dalle pp. 120-126). Ammetterlo, significherebbe confermare la stereotipia eteròta - rimasticata dal "queer chic & chèc" - che si proietta sulle identità gay: sottrarla al genere, vorrebbe dire "immetterla come storia tra le storie". E siccome l'omosessualità "mette in evidenza l'impossibilità di captare il mondo secondo strumenti di catalogazione preordinati dalla cultura dominante", essa agirebbe come un "virus che entra e contamina proprio quella cultura". Ergo, "il cinema di interesse queer ha bisogno di uscire dalle rassegne gay (...) per educare lo spettatore non gay alla cultura gay" acquisendo "uno statuto di cinema per tutti, mantenendo nel contempo una propria indelebile specificità" realizzata nella "contaminazione dei generi"- tenendo conto che "l'omosessualità-virus ha la necessità di contaminare, ma anche di essere contaminata, perché non è mai un processo unidirezionale".
In questa visione, il cinema (i media) gay potrebbe(ro) risultare storicamente come illustrazione del conflitto tra l'assunzione dello stereotipo e la lotta contro di esso, e ora modellarsi sull'utilizzo del tipico come "cavallo di Troia" (p. 138: "armarsi dello stereotipo contro gli stereotipi") per veicolare una sostanziale e irriducibile differenza (specificità) - rapporto conflittuale e però contrattabile fra "norma" e "discussione (critica) della norma". Non esatto medio termine fra gli integrati - aderenti come tellìne ai moduli etero, sì da farsi includere nella maggioranza -, e una minoritaria ma combattiva frocerìa - che si chiede (p. 180) a quale prezzo vengano acquistati i "diritti" - il personaggio gay e le sue storie dovrebbero sensibilizzare le folle omo ed etero sulle distinzioni "libertà, non normalità" (p. 42) e "uguaglianza, non conformità", (p. 47) sicché le prime non si denàturino e non cedano all'omologazione e al dèmone del vittimismo (cfr. p. 51-2) - alla cultura del piagnisteo, direbbe Hughes -, e le seconde riflettano su come e quanto il "discorso gay" abbia da offrire anche a loro per migliorarsi la vita, per non ridursi a osservare e piangere "senza avere opzioni per mutare ideologia", (p. 173) per non farsi sbranare dal "potere mutilante", come lo chiama Piergiorgio Paterlini. (p. 49)
Così, rimarcando peraltro che "un film è buono per l'omosessualità quando la dice, non quando la fa sognare", (p. 116), pellicole che si muovono in questa direzione sono - ne cito alcune più vicini allo Spettatore italiano - Domenica, maledetta domenica (Schlesinger), Nerolio (Grimaldi), L'harem (Ferreri), Priscilla (Elliott), Ostia (S. Citti), Beautiful thing (MacDonald), Il sapore del grano (Da Campo) e, tra i classici, Mikaël (1924) di Dreyer (p. 133 e seguenti) - oltre al "noir" in genere, poiché è strutturato su un' "atmosfera di non certezza" che lo rende "adatto a rappresentare un mondo di dinamiche anche queer". (p. 117)
Dinamiche non sempre gradevoli: a proposito de La vergine dei sicari (Schroeder) e delle polemiche che ha destato nella "militanza", Bocchi fa notare che "il frocio va bene fino a quando agisce nel suo mondo, quando la sua ribellione è più che altro interiore e dialettica (...); se invece comincia a fare del male uccidendo (...) potando le viti (*) del vivere dominante, allora si scende in corteo perché l'immagine non è realistica, non è indicativa di una specificità, non rappresenta il buon gay". (p. 149-50) La citazione è lunga, ma la res è centrale: "demerdizzare" (nel senso inteso dal Labranca "pecoreccio") la rappresentazione dell'omosessualità significa rendergli un brutto servizio dal punto di vista estetico, buttandola tra le fauci del "midcult", ovvero della peggior forma di massificazione adulterina che l'arte possa subìre - per non parlare dei dànni alla verosimiglianza.
In conclusione: ogni volta che si leggono saggi come questo, che hanno dignità ed energia, ci si rende ben conto che l'identità (di chiunque) ha certo a che vedere con la dimensione psichica, ridotta o estesa come si crede, e con la storia, maiuscola e minuscola. Ma pure, e in misura notevole, con quella che potremmo chiamare "parola agìta", la drammaturgia di narrazioni che (ci) raccontiamo, e che ci raccontano. Ogni volta, dunque, che vogliamo rivendicare un "sé e per sé" che ci rappresenti, dobbiamo operare una rappresentazione. Perciò, a chi chiede "a che serve tutto questo", bisognerà rispondere "a esistere".
(*)(allusione a The grapes of wrath, il titolo originale di Furore?)
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