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ATTUALITA'

Marco Lanzòl

Pasolini era frocio per davvero (contromano su "La neoavanguardia italiana ")

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Pasolini è morto. Ma, come il signor di La Palice, "prima di morire, era stato vivo". Quindi, chiusa una parentesi e un'opera, bisogna mettergliene una aperta innanzi. Occasione, il testo di Barilli (suoi i numeri di pagina), deplorante il lukácsismo "predicatorio e infausto" del signor di La Pasolìce, e l' esser lui Autore Onnisciente, con "quell'irritante intercapedine di superiorità, magari inconsapevole, non voluta, che l'autore si trova a insinuare rispetto alla sua creatura". (p. 137) Accusa grave, come l'attuale e condivisa (mi rifaccio al Walter Siti in Mondadori, che brutalizzo per sintesi) per cui "i lacer(t)i eroi" del Nostro gli somigliano troppo - anzi, non sarebbero che visibili pseudopodi, mancanti di tridimensionalità, della psiche e delle buie viscere dello scrittore. Siti non la mette così dura, ma l'"hard core" è questo.

Ebbene? Beh, quel che può leggersi in un senso, magari dà senso anche se letto contromano: allora, questa "presenza" dell'Autore, "magari inconsapevole, non voluta" può avere diverso risalto se si considera che lui, da piccolissimo, vagabondava al seguito del padre ufficiale. E doveva sempre ricominciare a inserirsi tra i pari: era ogni volta il nuovo arrivato. Quello, con Bianciardi, che scendeva in cortile quando ormai s'era deciso chi "guardia" e chi "ladro", o chi "italiano" e chi "abissino", e addio gruppo. E anche con la classe sociale e la piccola patria non gli va di garbo: reietto come frocio corruttore di minori, scappa a Roma. Dove, per la prima volta (e con una componente erotica poderosa, se non detta, affatto "latente") un gruppo lo ingloba: i ragazzi, non più quelli dell'idillio ped(agogico/erastico) friulano, ma le facce di corno dei "tapis-francs" romani, sornioni e indifferenti, e a lui sensibili - di sicuro non per le vie borghesi dell'introspezione moravian-caratteriale e del suo portato, la tridimensionalità characteristica, l'Eco-nomica "piccola Borges-ia" (da qui la necessità realistica di descriverli "per modus actus" e non "in interiore" - tra l'altro, anche Barilli (sui generis) sottolinea come botta d'avanguardia "la riduzione dello psichismo" (p.116)). Piuttosto, i pischelli hanno la sensibilità accattivante che deriva dalla "totipotenza" (l'immaturità creaturale, quella dell' "adulto? Mai!") orfana di parametri su cui fondare la discriminazione, poiché ne sono pieghe l'amoralità, il sirenismo sessuale e l'indistinzione sociale - sono loro "le macchine generose, fondate sull'inutilità, sull'autoconsumo, le macchine celibi" che Barilli va trovando altrove, (p.143) e che saranno in Tony Duvert a suggerire che ogni diverso rapporto di vita è parallelo a nuovi rapporti economici.

E comincia la non si sa se rincorsa o fuga dell'io pasoliniano: che cerca una prossimità, una (coe/con)sistenza alteregoica con i giovanini, e però è intralciato dall'ego autoriale, dalla "macchina mondiale" borghelinguistica - "la barriera epistemologica che (...) impedisce al Pasolini narratore di partecipare alla pari alle vicende dei suoi "ragazzi di vita"." (p.179) Sicché la plastica psichica dell'autore accoglie il calco nel momento in cui avverte la distanza: dicotomia illustrata dalla presenza sulla pagina della distinzione fra le culte sezioni narrative (Longhi!), e il dialogo sbobinato, sculappiante, vera fisiognomica linguistica delle "facce paragule" e della mimica da "fiji de'na mignotta" dei romanini - questi autentico "soggetto collettivo" (p.107) con in più il "personaggio che dice io-non io-cioè loro-dunque me-notte sull'ES" di PPP, magari non secondo l'ordine costruttivo rotto e sciolto delle pagine Barill-vanguardiste, siccome più virtuosisticamente ottenuto restando nell'ambito di uno stile che abiura dalle lussurie dell'asintattismo, del frammento o del magma - si concede solo allo straniarsi, e inscena cani che parlano parafortiniani. E di questa salute testuale e psicosociale che non c'è sono indizi i luoghi del racconto che innescarono le polemiche da sinistra seguite alla pubblicazione. (2) Altro che "andare verso il popolo". (p.123) Qui si ha insieme, l'investimento sulla realtà e il superamento del realismo con i suoi mezzi (star "sulla linea del fuoco": i ragazzi-realtà, e l'autore con loro (come loro) - ma di lato (diverso da loro)): l'ossimòrica autobiografia per interposte persone (non personaggi, e ciò la fa rientrare nel documentario); e il rapporto alla pari e la sua problematizzazione: tratto infine neoavanguardistico, siccome "guai a un io che non si metta in crisi". (p.99) E di "ii" letterari critici più di quello del Pas, sotto la pelle estetica-estatica, fuori dagli psicologismi da coiffeur, è raro trovarne. Critico come sarà per il poeta l'emergere del benessere: Barilli, col semplicismo che rimprovera all'antagonista, l'accusa (p.125) di cercare col lanternino le sacche di miseria (3) in un paese sostanzialmente beneficato dal miracolo, impedendosi di capire e narrare l'avvenuta (dice lui: p.103) o prospettica (p.104, recuperando Lukács) liberazione dai bisogni materiali. Ma se c'è qualcuno che, in "sense and sensibility", magari allucinati, ha discusso, refertandoli, difficoltà e prezzi e scompensi della metabolé - proprio perché aveva le "sacche" per termine di paragone - è Pasolini.

Ancora: d'un bel racconto di Lucentini, Barilli nota (p.130-1) che "non si tratta di un'autobiografia sul filo delle vicende anagrafiche, bensì su quello del sapere e del patire, nel senso che lo scrittore soffre, si mette alla prova con la sua creatura, e nello stesso tempo ci chiama in causa a nostra volta". E non è puro Pasolini? Pasolini, frocio tre volte, non soffriva dei meccanismi di esclusione - classisti, razzisti, sessisti - ai quali eran soggetti i suoi mômes et minets sauvages? Parlando di loro, non si chiamava "dentro" - e non coinvolgeva noi come secondini? Non dava resoconto di quelle vite (come la sua) che per molti - troppi! - erano (nazi-fasc-borghesemente) "indegne di essere vissute"? Sarà stato "superiore" in senso tecnico (e visto il detto sui problemi di statica della pagina, nemmeno tanto), ma non come atteggiamento esistenziale, come rapporto vita-opera. "Realismo" il suo dunque, poiché "reale" era questa condivisa condizione esclusiva - mutatis - e la messa in gioco che ne derivava. E realismo "superato", perché il contenuto aveva trovato un contenitore atto a travasarvi l'individuale nel generale, il personale nel politico: la strategia gramsci-togliattiana della saldatura, "medianti" (4) gli intellettuali, tra borghesia avanzata e popolo. E' lo stile pasoliniano rivoltato in politica: lo scrittore, a partire dal dato di appartenenza agli esclusi che lo fa stare nella realtà, conduce con sé (risvolto psicologico: siccome non può stare con loro per difetto d'anagrafe) la condizione proletaria, e la trasloca nell'unico possibile discorso, quello borghese (e assieme, tenta l'operazione di piegar questo e scardinarlo: (5) ma esso rincula e, invece di assumerla come disarmante contenuto di verità, omologa la prolelingua, e la forma di vita che assieme è e illustra, come lingua della realtà che cede all'irreale - e annichila la mediazione).

A chi paragonerò, allora, "Giàcche Palànce"? (6) Forse a don Milani, che frocio non era, ma che fu come lui grande pedagogo/traghettatore di piccolissimi italiani dall'afonia alla lingua - e preoccupato di dar coscienza di classe ai trasportati, così da non fargli capitare quel che avvenne e tramortì il poeta: l'imborghesimento. E perciò entrambi vennero giudicati "disertori della borghesia", come si espresse un fascista, (7) chiaramente esponendo un sentire comune a molti. I molti che, ancora oggi, quando parlano di Pasolini, dàn di gomito ricordandone la casa all'Eur. (8) E lo compatiscono - benedetto ragazzo! - di essere stato "un po' così". Non lo fosse stato, non ci avrebbe lasciato un'opera vivente (dunque reinterpretabile di continuo entro i limiti dell'interpretazione), estrema meditazione - e problema posto - sulla possibilità (e sulle possibilità) dell'arte e sulla vita. Cioè su quel "senso" che hanno in comune e che - ricordava Barthes - è tale solo "in quanto prodotto sensualmente".





1)Renato Barilli, La neoavanguardia italiana, il Mulino, Bologna 1995;

2)cfr. F. Grattarola, Pasolini una vita violentata, Coniglio, Roma 2005, pp.40-1;

3)Fino ai primi '60, quelle che Barilli chiama "sacche", si estendevano a gran parte dell'Italia: tutto il Sud (vedi l'inchiesta L'Africa in casa de l'Espresso), le valli alpine intatte dal turismo, i montanari appeninici e gli operai che erano diventati, (cfr. Don Milani) la plebe inurbata, gli emigranti sottopagati (vedi Storia d'Italia Einaudi);

4)Peraltro, questa "facet" di mediatore Barilli la riconosce a Pasolini "sperimentalista" e "officinale" (pp.22-26);

5)Pasolini, in Marxisants (1959) riflette sulla condizione del letterato come "uomo d'azione, capace di indebolire e far saltare, coi propri gesti e parole, le diverse partizioni disciplinari e strutturali della civiltà borghese (...) un intellettuale spurio ed eretico (ed erotico, nota mia), piuttosto che un sacerdote del gusto e del bello". (In A. Tricomi, Pasolini: gesto e maniera, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005, p. 102). Quest'azione di "scardinamento" credo sarà prima affidata al contenuto (mantenendo una forma "accettabile", "di mediazione"), quindi alla forma ( la "sceneggiatura", il "magma", il "non finito", la "performazione");

6) "Jack Palance", soprannome che i ragazzi diedero allo scrittore perché somigliava all'attore americano (cfr. Grattarola, op. cit. p.27);

7)Giano Accame, in Fabrizio Borghini, Lorenzo Milani, gli anni del privilegio, Jaca Book, Milano 2004, p.70;

8) Ho detto la mia su questa casa nello scritterello (o "internettello"?) d'analogo titolo, dimolto precedente. Lo ricordo per non lasciare inevasa la questione. Per l'accusa mossa a P., vedi Grattarola op. cit. p.73.





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